Sulla pelle di Eva Capitolo IV

di
genere
confessioni


Anche se era mattina inoltrata era ancora piuttosto buio, le nuvole di novembre mi negavano l'abbraccio del sole. Ero stesa nel mio letto, guardando la pioggia rigare la finestra della camera. Cercavo nel piumone un calore che non trovavo. L’influenza, quell’anno, mi aveva colpita con una violenza particolare: nausea, febbre, spossatezza. Da due giorni erano le mie compagne, e la notte appena trascorsa era stata forse la più terribile.
Avevo avuto incubi strani, erotici, in cui rivivevo gli eventi recenti — Michele, Aldo, il Club… il Club. Nel sogno, forse spinto dalla febbre, non mi ero limitata a esibirmi per un pubblico anonimo. No, non era bastato a loro. E non era stato sufficiente per me. Ero diventata vittima e regina di un amplesso collettivo, una massa di corpi caldi che mi soffocava, che mi intrappolava sotto di sé, senza lasciarmi via d’uscita. Senza che io ne cercassi una.
Le lenzuola erano pregne del mio sudore — e non solo di quello. Umide sotto di me, fredde, amplificavano il disagio. Ma l’idea di alzarmi, tirarle via, rifare il letto… mi sembrava impossibile. Così cercai nel mio stesso corpo il calore necessario a scaldarmi.
Presi l’aspirina che Aldo, prima di andare al lavoro, mi aveva amorevolmente lasciato sul comodino. Bere quel poco d’acqua fu un’impresa titanica: la gola mi bruciava, e l’acqua sembrava carta vetrata. Ogni sorso era dolore.
Mi rannicchiai nel letto, spostandomi nel lato che di solito occupa mio marito. Non solo perché era la parte più asciutta, ma per il conforto di sentirne l’odore. Per immaginarmi nel suo abbraccio. La pioggia continuava a battere contro la finestra. Mi riaddormentai.
Al risveglio non ero più sola. Michele era lì, accanto al letto, in piedi, silenzioso come una presenza onirica. Non ero certa fosse reale. Forse stavo ancora sognando.
Non dissi nulla, fingendomi assopita, vulnerabile. Neppure lui proferì parola. Rimaneva lì, fermo, ad osservarmi. Forse Aldo gli aveva detto di non disturbarmi, e la parola del fratello, per Michele, era vangelo. Un ordine da rispettare con devozione. Ma proprio quella consapevolezza che non avrebbe potuto fare nulla accese in me il desiderio. Un desiderio forse infantile, forse crudele: provocarlo. Tendergli una trappola. Spingerlo a tradire quella promessa che non avevo ascoltato, ma che ero certa avesse fatto. Volevo, facendo ancora una volta appello alla mia natura, tentarlo.
Con un gesto che potesse sembrare involontario, spostai il piumone, rivelandomi al suo sguardo. Non indossavo nulla di particolarmente sexy: una camicia da notte a quadroni rossa e nera, dei calzettoni di lana rosa ai piedi, un cappello di lana a maglie in testa e una sciarpa coordinata — regalo di mia madre — avvolta intorno al collo e alle spalle.
Non ero al massimo della mia forma. Non ero nemmeno presentabile. Pallida come un cencio, il naso rosso e gocciolante, le borse sotto gli occhi profonde come ombre. Eppure, a Michele sembrò bastare.
Nel movimento della notte, la camicia era risalita lungo le cosce. Alcuni bottoni avevano mancato al loro dovere, aprendosi davanti, da sotto l’ombelico in giù. Il monte di Venere, paffuto, si intravedeva sotto il tessuto dell’intimo reso evanescente impregnato di sudore e umori. Il mio corpo, anche malato, continuava a parlare. E lui, silenzioso, ascoltava.
Michele ruppe gli indugi e si chinò su di me. Presi a tremare, terrorizzata da ciò che avrebbe potuto fare se avesse colto l’occasione di trovarmi in quello stato. Così vulnerabile. Così esposta. Eppure rimasi in attesa, fingendomi ancora addormentata.
Mi sovrastava. Lo osservavo da sotto le ciglia, con gli occhi socchiusi. Sembrava enorme, immobile, come trattenuto da una forza invisibile. Forse combatteva tra il dovere verso suo fratello e qualcosa di più oscuro, più profondo. Cercava qualcosa. Un dettaglio nascosto. Un segnale. Un varco.
Poi si chinò ancora, lentamente, come se volesse ascoltare il mio respiro. Sentirne il calore. Come un segugio, annusava l’aria, seguendo una traccia invisibile. Il suo viso scivolò verso il basso, fino a fermarsi sopra il mio pube. Avrei voluto fermarlo. Ma qualcosa mi inchiodava al letto.
L’aria tra le mie cosce era densa. Satura di febbre, di sogni bizzarri e sconci, di un’assenza d’igiene che mi faceva vergognare ed eccitare insieme. Rimase sospeso lì, a fiutare l’odore. Come un cane da caccia che ha trovato la tana di una preda. Ma non osa entrare. Perché il cacciatore, padrone di quella preda, non era con lui.
Michele aveva un’anima più fragile del suo compito, del suo dovere, della sua promessa. Non poteva semplicemente lasciar stare. Come un segugio che guaisce impaziente, doveva dare sfogo alla frustrazione, al desiderio che lo bruciava da dentro. Prese a scavare all’uscio di quella tana.
Le dita della sua mano sinistra si mossero sopra al tessuto dei miei slip ,esplorando ogni dettaglio di quel fiore carnoso che si celava sotto di essi.
Lo vidi irrigidirsi. Le spalle tese, il respiro spezzato. l’altra sua mano passo prima in alto a liberare gli ultimi bottoni che mi tenevano celata al suo sguardo e poi una volta nuda, a saggiare il seno.
Nell’intento di dover rispondere a un impellente bisogno, scivolò verso il basso, tra le pieghe dei suoi pantaloni, per liberare l’erezione che non poteva più essere contenuta.
Il suo gesto era discreto, ma inequivocabile. Il bacino prese a muoversi appena, come se cercasse un ritmo che non potesse esplodere, ma che fosse funzionale a prolungare il più a lungo possibile l’atto.
Il suo volto era contratto, gli occhi fissi su di me si muovevano veloci sul mio copro, su ciò che non poteva avere, non del tutto almeno.
Un respiro più profondo, un tremito trattenuto. Io lo sentivo. Sentivo il suo bisogno, la sua lotta, il suo piacere che cercava con le dita tra le mie gambe e si facevano strada dentro di me la realizzazione del suo desiderio e io lo accoglievo, ancora finta dormiente, lo lasciavo fare. Perché in quel gesto c’era qualcosa che mi apparteneva, una sorta di un atto di devozione.
Feci appello a tutte le mie forze per non mostrarmi destata, per non interromperlo, cercai di trattenere il respiro in gola, di non mordermi il labbro, ma i gemiti furono più forti di me e vennero fuori da soli, flebili e costanti e quello, quella mia partecipazione, parve dare un nuovo slancio al mio ospite.
Quando il suo seme piroettò verso di me e mi raggiunse andandosi ad intrecciare con il tessuto dei miei slip resi fradici dalla lunga manipolazione, a colare sulle mie labbra della mia vagina esposte, il piacere fu cosi intenso da farmi inarcare il bacino e nel contempo rilasciare un lungo e profondo sospiro.
Restammo lì, l’uno accanto all’altra. Io nel mio letto, ancora fingendomi addormentata. Lui in piedi, alla mia destra, forse intento a capire quanto fossi stata davvero complice nel suo crimine.
Fu solo la notifica dei messaggi del mio smartphone a destare entrambi. A interrompere il nostro strano incontro.
Michele, probabilmente convinto di non essere stato visto o forse intento a lasciarmi il mio spazio, sgattaiolò fuori prima che io mi voltassi verso il comodino per rispondere. Mi lasciò sola.
Era mia madre. Finalmente, dopo tre giorni di assenza “la sua sostanziale indifferenza nei miei confronti era un elemento imprescindibile nella nostra relazione da sempre” aveva risposto ai miei messaggi, quelli in cui la informavo che stavo male a causa dell’influenza.
Con sconcerto da parte mia, mi avvisava che Vittorio, il suo fidanzato, ex medico in pensione, sarebbe passato a trovarmi per vedere come stavo.
Fu inutile scriverle, nel tentativo di impedire la cosa, che la dottoressa Bracci, il mio medico curante, era già passata. Insistette. Arrivò persino a sminuire la povera Silvana, rea “a suo dire” di essere un medico donna, lei che per anni era stata rappresentate farmaceutica e che di medici ne aveva visti di ogni genere. Fu categorica, senza appello come sempre nelle sue decisioni. Non potevo far altro che acconsentire alla visita. In fondo, quello era il suo goffo modo di dimostrarmi una sorta di affetto che, come sempre, come da quando ho memoria, finiva inevitabilmente per mettermi in situazioni imbarazzanti e non di rado degradanti.
scritto il
2025-10-25
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