Sulla pelle di Eva Capitolo V

di
genere
confessioni

Non so quanto tempo fosse passato da quando mia madre mi aveva avvisato che il suo compagno sarebbe venuto a visitarmi. In cuor mio speravo che Vittorio si fosse dimenticato, che avesse avuto un altro impegno inderogabile, o che, cinicamente, avesse avuto un piccolo incidente. Nulla di grave, ovviamente. Gli anziani inciampano, scivolano, si fanno male in modo lieve. Mi sarei sentita in colpa anche solo per averlo pensato se fosse successo per davvero, ma avrei evitato quella situazione imbarazzante.
Non fu così. Nemmeno il temporale, che aveva ripreso a imperversare fuori, sembrava averlo fermato.
Quando sentii il campanello, il cuore mi sobbalzò. Mi alzai dal letto con fatica, dolorante. Mi guardai allo specchio del corridoio, cercando di sistemarmi. Ero il fantasma di me stessa: viso pallido, naso arrossato, occhi gonfi come tumefatti. Non ero pronta. Ma aprii comunque.
Si andava in scena: protagonista di una commedia grottesca, scritta e diretta da quella arpia di mia madre.
Vittorio era lì, con l’ombrello, il suo impermeabile grigio e la borsa da medico che sembrava un personaggio uscito da un film in bianco e nero. Era bagnato dalla testa ai piedi.
Il senso di colpa mi assalì. Era venuto sotto il temporale per fare un piacere a mia madre. Entrambi eravamo vittime di quella donna, e mi sentii solidale con lui.
Lo feci entrare e lo aiutai a disfarsi del soprabito. Mi sorrise in maniera sincera, ma nei suoi occhi c'era qualcos'altro,forse memore dell’incidente con Michele in cucina. Il suo sguardo si posò su di me come una diagnosi silenziosa. Non disse nulla per qualche secondo. Poi entrò, precedendomi verso la camera da letto con una confidenza che non mi ero attesa.
Mi chiese come stavo, con quella voce calma, professionale, che non lasciava spazio all’emotività. Eppure, c’era una profondità nel tono della sua voce che manifestava tutto il suo fascino. I suoi occhi azzurri brillavano e mi facevano sciogliere, suscitando fiducia e un senso di protezione. Capii cosa mia madre aveva trovato in quell'uomo.
Gli risposi a mezza voce, cercando di non sembrare troppo debole, né troppo forte. Mi sedetti sul letto. Lui si mise accanto, aprì la borsa, e fui trasportata in un’altra epoca.
Niente strumenti digitali. Solo cose vere, vecchia maniera ,Lo stetoscopio, lo sfigmomanometro, l’abbassalingua, il termometro con dentro il mercurio. Oggetti che si basavano sull’esperienza , la competenza e la perizia di chi li usava, niente algoritmi ad aiutarti.
Ogni gesto era familiare. Ogni strumento serviva ad aprirmi, a leggermi, a studiarmi.
Posò una mano sulla mia fronte per sentire la temperatura , la sua mano era calda e forte e mi colmava di una piacevole sensazione di comfort.
Mi chiese di mostrargli la gola. Obbediente, sollevai il mento, aprii la bocca e tirai fuori la lingua. Sentii la sua mano sfiorarmi il collo per reggere la luce. Era al contempo un tocco neutro, professionale, eppure lo percepivo come qualcosa di sensuale.
Eravamo l'uno ad un palmo dall' altra.
La sua vicinanza mi permise di cogliere il suo odore. Un’acqua di colonia fuori che sapeva di antico, forse la stessa da decenni. Qualcosa di secco, legnoso, che ricordava il tabacco per pipa, che trasudava mascolinità. Non era invadente, ma persistente. Mi avvolgeva, mi inebriava fino a confondermi, e ancora una volta mi ritrovai ad eccitarmi per un altro uomo che non era Aldo. E quello mi fece sentire sporca, spregevole.
Abbassai lo sguardo, rossa in volto per l’imbarazzo, per ciò che stavo provando.
Vittorio sembrò intuire qualcosa e prese a fissarmi. Lo sentii come se cercasse un indizio. Come se stesse cercando qualcosa che non aveva a che fare con la febbre.
Quando mi chiese di sdraiarmi per controllare la respirazione, esitai. Ma fu sufficiente un suo semplice tocco a una spalla per guidarmi nel compiere l’azione richiesta. Mi stesi sul letto, cercando di non pensare a quanto fosse intimo quel gesto.
Non mi ero mai sentita così con la dottoressa Bracci che negli anni mi aveva visitato mille volte.
Mi chiese di aprire la camicia, e io fui troppo zelante nel farlo. Rimasi di nuovo nuda davanti a un uomo che in più era Il compagno di mia madre.
Vittorio esitò. Lessi qualcosa nei suoi occhi. Nella sua carriera da medico aveva sicuramente visto molte donne nude. Inoltre era un bell’uomo di sicuro fascino ed ero certa che ne aveva sedotte molte altre. Ma quella mia nudità, in un contesto così intimo, lo aveva forse trovato impreparato e sembrava turbarlo.
Appoggiò lo stetoscopio sul petto, poi sul ventre. Il metallo era freddo, ma non era quello a farmi tremare. Era il pensiero che, anche lì, anche in quel gesto, ci fosse uno sguardo. Un’attenzione che non sapevo se desiderare o temere. E quando le sue mani si posarono sul mio ventre, palpandolo in funzione medica, fino a lambire il limite non certo invalicabile dei miei slip, non potei trattenere un flebile gemito.
Mi chiese se sentivo dolore. Io, piena di vergogna, voltando la faccia in direzione opposta alla sua, mordendomi il labbro, con un cenno del capo risposi di no.
Mi fece mettere seduta. Si sedette con me sul letto. Mi fece voltare per ascoltare i polmoni, ma io sentivo solo il battito del cuore. Per agevolare l’esame mi chiese di disfarmi della camicia da notte.
Non mi chiesi se fosse necessario o meno Così feci e basta.
Mi guardò cercando di non tradire alcuna emozione. Si pose dietro di me e, usando direttamente l’orecchio contro la mia schiena, ascoltò il battito del mio cuore e il ritmo del mio respiro.
Mentre mi esaminava, sentivo la sua barba folta graffiarmi la schiena e lo trovai piacevole.
Avevo sempre chiesto ad Aldo di farsi crescere la barba ma lui si era sempre rifiutato.
La sua mano, che mi teneva per un fianco, cominciò a salire fino a cercarmi il seno. Non fu un gesto invasivo, ma delicato. Come chi non osa prendere ciò che non è suo, ma vuole solo sfiorarlo.
Fremetti e costrinsi entrambe le mani a stare serrate tra le mie gambe, tra le quali il calore tornava ad essere intenso. E questa volta non per la febbre.
Prima di staccarsi , mi osservò a lungo le spalle e mi chiese se avevo mai dolori di schiena. Ammisi che quello a volte era un mio tormento.
Mi fece alzare e pormi davanti a lui. Cominciò ad esaminare la mia spina dorsale partendo dalle spalle e scendendo lungo la schiena, poi, tenendomi per i fianchi, mi chiese di piegarmi in avanti.
Non so quanto avesse a che fare quell'esame con la mia influenza, ma la cosa mi intrigava e feci come mi chiedeva, flessuosa mi chinai in avanti fino a raggiungere un angolo di 90 gradi.
Rimasi lì, china in avanti, disponibile ad ogni suo possibile vizio consapevole che Vittorio, da quella posizione, poteva godersi ogni dettaglio delle mie grazie appena celate sotto lo scarno strato delle mie mutandine che mi esponevano del tutto ai suoi sguardi, potevo sentire il suo alito caldo tra le mie natiche. Mi osservo a lungo restando in silenzio la sua mano si posò leggera sulla mia natica destra e con tocca altrettanto delicata né saggió il tono e l'elasticità ma non andò oltre. Quando finì il suo esame, mi disse che avevo una leggera scoliosi e mi lasciò andare, con una pacca sul sedere. Ne fui un po’ delusa.
Si alzò passandomi accanto e, schiarendosi la voce, forse per scacciare pensieri proibiti , mi suggerì di coprirmi: ero rimasta nuda anche quando non serviva più.
Imbarazzata e riluttante rimisi la camicia da notte
Mentre sistemava le sue cose nella borsa, mi disse che la febbre stava scendendo. Che dovevo riposare, bere tanto e mangiare qualcosa. Ma prima di ogni cosa, fare una bella doccia calda. Quella sua ultima raccomandazione mi fece vergognare: non ero solo trasandata nell’aspetto, ma sapevo di non avere un buon odore, erano passati tre interi giorni dall’ultima doccia la febbre mi aveva fatto sudare molto e a peggiorare le cose, avevo addosso ancora le tracce della recente visita di mio cognato Michele di quella mattina, e a testimonianza di quella visita una traccia biancastra era rimasta sul tessuto scuro dei miei slip, il suo seme in parte assorbito dal tessuto dei miei slip ,dalla mia pelle e in parte evaporato con il calore del mio corpo aveva comunque lasciato un olezzo tipico su di me.
Vittorio sembrò cogliere il mio imbarazzo. Mi accarezzò la spalla per rassicurarmi, in un gesto paterno.
Prima di lasciarlo andare, provai ad offrirgli del denaro per la sua visita, ma rifiutò. Provai ad offrirgli un caffè o un amaro per ringraziarlo per il suo tempo, ma Vittorio sembrava aver fretta di lasciare la mia casa e la mia camera da letto. Forse spaventato da qualcosa che avrebbe potuto succedere, e per quanto piacevole, di cui poi si sarebbe per sempre pentito.
Mi prese un leggero panico. Vittorio mi stava lasciando. Qualcosa scattò dentro di me: gli afferrai la mano e la portai verso di me.
Senza guardarlo, gli dissi che c’era qualcos’altro che volevo che controllasse.
Vittorio fu tenero. Mi sfiorò il mento e mi baciò la guancia, facendomi tornare all’istante bambina. Sorrise e mi regalò uno sguardo che mi fece sciogliere, a cui non potei far altro che arrendermi.
Disse che era lusingato, ma che amava troppo mia madre per fare qualcosa che l’avrebbe ferita. E poi, prima di aprire la porta, aggiunse , strappandomi un sorriso, ironicamente che ne aveva anche troppa paura di lei per contrariarla.
Quando la porta di casa si richiuse dietro di lui, separandoci, mi sentii un po’ triste. Feci per tornare in camera e da lì verso il bagno, per fare la doccia come mi aveva raccomandato lui.
Ma mi ritrovai Michele davanti. Muto. Immobile.
Lo osservai per un attimo. Il suo sguardo sembrava un po’ cupo, forse non sopportava quell’intromissione di quella visita per lui inattesa nella nostra casa, ma non me ne curai.
Senza dire nulla, lo superai. Entrai in camera, mi tolsi la camicia da notte, concedendogli un ultimo sguardo sul mio corpo. E prima di chiudermi a mia volta la porta alle spalle, lo invitai a tornare in camera sua e a restarci.
scritto il
2025-10-26
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