Sulla pelle di Eva Capitolo III

di
genere
confessioni

Nei giorni seguenti, Aldo sembrava rinato. Mi cercava, mi parlava, mi toccava con una tenerezza che non gli apparteneva da tempo. Ma io ero altrove. Ogni gesto mi sembrava una replica. Ogni parola, un’eco. Michele evitava la casa. O forse ero io a evitarlo.
Poi il destino mi serbò una nuova prova.
Aldo stava per chiudere uno dei contratti più importanti della sua carriera. Un affare che avrebbe segnato una svolta: più soldi, certo, ma soprattutto meno trasferte, meno assenze. Più tempo insieme. E nonostante tutto, mio marito mi mancava. Sapere che il nostro tempo non sarebbe più stato contingentato dai suoi impegni mi rendeva felice.
Il cliente era uno chef stellato, celebrità televisiva con agganci politici e fondatore di una catena di ristoranti tra le più prestigiose d’Italia. Se tutto fosse andato bene, l’azienda vinicola di Aldo avrebbe fornito il vino in esclusiva per anni.
Un personaggio eclettico, carismatico, imponente. Quasi due metri di energia e teatralità. Esigente, capriccioso. Perciò non mi sorpresi quando Aldo mi disse che la firma del contratto sarebbe avvenuta non in un ristorante, ma in uno dei night club più esclusivi del paese. Un posto in cui anche solo entrare era un privilegio.
Non avevo mai frequentato un locale simile. Da ragazza ero stata una habituée delle discoteche: tra i 14 e i 22 anni avevo amato ballare più di ogni altra cosa. Ma quel posto non aveva nulla a che vedere con ciò che conoscevo.
L’ambiente era elegante, moderno. Le ragazze che si muovevano tra i tavoli e sul palco erano bellissime, curate in ogni dettaglio. Rimasi abbagliata dalle performer che si alternavano alla lap dance: esibizioni in bilico tra acrobazia e sensualità, capaci di ipnotizzare il pubblico.
Avendo praticato atletica per anni, intuivo la disciplina dietro quei movimenti. Non erano solo corpi esposti: erano corpi che dominavano lo spazio, che imponevano attenzione. Molte donne provano invidia o disprezzo per chi sceglie quella vita. Io, in parte, le ammiravo. Erano donne che usavano il corpo come strumento di potere. E lo facevano con grazia, con controllo, con una consapevolezza che incuteva rispetto.
Poi, come spesso accade, tornò a farsi sentire la mia insicurezza. Ero l’unica donna al tavolo, e ogni volta che una di loro si avvicinava, sentivo crescere l’ansia. Era come se fossi in competizione. Ma avevo curato ogni dettaglio del mio look: un miniabito in viscosa con scollo a V, schiena e spalle scoperte, gambe fasciate da calze autoreggenti e vertiginosi tacchi a spillo. Aldo mi chiamava il suo portafortuna, e con gli anni avevo affinato la mia strategia di seduzione. In altre occasioni, la mia presenza aveva agevolato la firma di contratti. Anche quella sera sembrava funzionare: i nostri ospiti sembravano più interessati a me che alle ragazze del club.
La serata fu piacevole. Si parlò molto, si bevve ancora di più. Io, con la mia solita sobrietà, finii per accusare i primi sintomi di una sbornia. Ma il contratto non era ancora stato firmato.
Aldo, più nervoso di me, non seppe aspettare. Mentre il cliente raccontava un aneddoto su una cena con un VIP, lo interruppe, posandogli davanti il contratto e la penna. L’uomo lo guardò, divertito. Sapeva di avere il coltello dalla parte del manico. Prese la penna, elogiò il vino, ma ammise che legare il suo brand a un’etichetta nuova comportava dei rischi. Aveva bisogno di un gesto di fiducia.
Aldo, impaziente, si offrì disposto a tutto.
Fu allora che gli sguardi si posarono su di me.
Il cliente sorrise. Disse che il locale era stato scelto per la sua riservatezza. Che mi conosceva già, da tempo. Rimasi interdetta. Poi spiegò: aveva fatto ricerche su Aldo, sull’azienda… e su di me. Mi seguiva su Instagram. Aveva visto i miei contenuti. Anche quel video , quello del massaggio. Il mio viso si avvampò. Aldo, che non mi seguiva, non sapeva nulla.
Cercai di minimizzare. Dissi che era uno scherzo di Erika. Il cliente intervenne dicendo che Aldo doveva ritenersi un uomo fortunato ad avere accanto come compagna di vita, una creatura rara.
Sentii lo sguardo di Aldo su di me. Era severo. Poi, come un fulmine, arrivò la proposta. Non una condizione, disse. Solo un capriccio. Un ballo. Non con lui, ma per lui. Per loro.
Aldo si irrigidì. Cercò di opporsi. Disse che forse non ero in grado. Ma io lo contraddissi. Avevo ballato per anni. Ero brava. E, in fondo, non era così diverso da ciò che avevo fatto mille volte. Solo… più esplicito. Più esposto.
Guardai il palco. Guardai Aldo. I suoi occhi erano un misto di incredulità e paura. Guardai gli ospiti. E poi annuii. Senza parole. Solo un cenno del capo
Il cliente si alzò dal divano con una naturalezza disarmante e si avvicinò al gestore del locale. Bastarono poche parole, un sorriso complice, una stretta di mano. Il DJ ricevette un cenno, e in meno di un minuto la musica cambiò. Le luci si abbassarono, virando su tonalità calde, ambrate, quasi liquide. Un brano lento, ipnotico, con un basso profondo e pulsante cominciò a riempire l’aria. Lo riconobbi: Wicked Game, nella versione strumentale. Sensuale. Malinconico. Perfetto.
Mi alzai lentamente. Sentivo il sangue pulsare nelle tempie, il cuore battere in gola. L’alcol mi aveva sciolto le inibizioni, ma non era solo quello. Era qualcosa che tornava in superficie. Una parte di me che avevo sepolto sotto anni di compostezza, di ruoli, di doveri. Quella parte che amava danzare, che viveva per il movimento, per lo sguardo degli altri. Non di un uomo. Di un pubblico.
Salire sul palco fu come entrare in un sogno. I riflettori mi avvolsero, caldi, discreti. Il pavimento era liscio, lucido. Il palo al centro sembrava una colonna d’argento. Mi fermai un istante. Chiusi gli occhi. Respirai.
Il mio abito aderiva al corpo come una seconda pelle. Con ogni movimento si sollevava appena, lasciando intravedere le autoreggenti, il bordo di pizzo che abbracciava le cosce. I tacchi a spillo mi davano slancio, ma anche instabilità. Dovevo dosare ogni passo, ogni rotazione. Eppure, era proprio quella precarietà a rendere tutto più vivo.
Cominciai a muovermi. Prima lentamente, lasciando che la musica mi guidasse. Le braccia si sollevarono, le mani sfiorarono l’aria. Sentivo gli occhi su di me. Non solo quelli del cliente e dei suoi accompagnatori. Anche quelli di Aldo. E altri ancora. Uomini e donne. Volti anonimi, ma attenti. Concentrati. Catturati.
Mi avvicinai al palo. Lo sfiorai con le dita, poi con la schiena. Mi girai intorno, lasciando che il tessuto dell’abito si muovesse con me, che si aprisse appena, che suggerisse senza mostrare. Ogni gesto era calibrato, ma sembrava spontaneo. Ogni passo, una dichiarazione. Ogni sguardo, una sfida.
Non ero più la moglie di Aldo. Non ero più la donna che si sentiva invisibile. Ero lì. Al centro. Vista. Desiderata. Ammirata. Non per ciò che rappresentavo, ma per ciò che ero. Per ciò che sapevo fare. Per ciò che avevo da offrire.
Il corpo si muoveva da solo. Le mani scorrevano sulle braccia, sui fianchi, sulle gambe. Il palo diventava un compagno, un confidente. Mi sollevai appena, con un movimento fluido, lasciando che il vestito si arricciasse sulle cosce, che la schiena si inarcasse, che il collo si offrisse. Sentii un fremito. Non di paura. Di potere.
Aldo mi guardava. Lo sentivo. Non parlava. Non si muoveva. Era immobile. Come se non mi riconoscesse. Come se vedesse, per la prima volta, qualcosa che gli era sfuggito. Qualcosa che non aveva mai cercato davvero.
Il cliente sorrideva. I suoi occhi brillavano. I suoi accompagnatori erano rapiti. Ma io non ballavo per loro. Ballavo per me. Per quella parte di me che aveva bisogno di uscire. Di respirare. Di essere.
Quello che seguì fu forse irresponsabile. Ma quello era uno strip club, e non volevo essere da meno delle bellissime ragazze che si erano alternate prima di me su quel palco.
Non ci volle troppo coraggio. Non furono i fumi dell’alcol ad abbassare le mie inibizioni. Fu la mia natura che si affacciava, a dettare le regole, a imporre le mosse.
Muovendomi sinuosa attorno all’asta metallica, in un attimo presi istintivamente la decisione. Trovai la clip dietro il collo che teneva insieme il mio vestito. La feci scattare. Il tessuto scivolò via come sabbia tra le dita. Rimasi nuda al centro del palco, coperta solo dalle autoreggenti e dal pizzo nero delle mie mutandine.
Il DJ, intuendo la mia intenzione, cambiò brano. Qualcosa di più ritmico, più selvaggio. Il mio ballo divenne un’esibizione in cui nulla era taciuto. Nulla era negato. Divenne esplicito. Fino a portarmi a condividere con i presenti l’atto più privato dell’autoerotismo. Da prima simulato, poi sempre più autentico. Reale. Osceno.
Mi ritrovai stesa supina sul palco mordendo l’aria con cui cercavo di riempire bocca e polmoni, le cosce spalancate, una mano afferrava il seno l’altra scivolava in basso e superato l’ostacolo delle mie mutandine trovo la strada verso il mio sesso
intorno a me c'erano solo musica, sguardi e luci.
Il ritmo della musica aumentava e con essa la frenesia delle mie mani. le dita danzavano sotto il velo delle mie mutandine deformando il tessuto ormai pregno dei miei umori, dentro la polpa tenera della mia carne.
Continuai ormai persa nel mio delirio, ignorando tutto e tutti e allo stesso tempo traendo energia dalla loro presenza, dai loro sguardi che non potevano staccarsi da me e insieme a loro cavalcai verso l’orizzonte, fino a condurmi oltre la soglia. Lì dove, in un apice liquido, tutto muore e rinasce nello stesso istante.
Quando la musica rallentò, mi fermai. Il respiro era affannoso. La pelle calda, madida di sudore. Il cuore in tumulto. Mi voltai verso il tavolo con gli occhi annebbiati dalle lacrime della mia estasi, non riuscivo vedere bene a distinguere le sagome ma, Nessuno parlava. Solo sguardi. Silenziosi. Carichi. Ammirati e desiderosi.
Poi, finalmente, un lungo applauso di approvazione dilagò nella sala.
mi alzai aiutata da una delle ballerine tra quelle che avevano assistito alla mia esibizione, che mi manifestò la sua approvazione con un Brava.
Non le risposi visto che l’imbarazzo tornava a farsi sentire.
Raccolsi i miei vestiti. Scivolai giù dal palco con grazia. Tornai al mio posto.
Il cliente mi accolse con entusiasmo teatrale, applaudendo ad alta voce. Disse che ero stata bravissima. La migliore. E in pochi ebbero da ridire sul suo giudizio.
Mi sedetti accanto ad Aldo. Lui mi guardò. E io non riuscii a sostenere il suo sguardo. Non disse nulla. Ma nei suoi occhi c’era qualcosa. Un misto di orgoglio, smarrimento, desiderio, frustrazione, rabbia. Forse anche paura.
Il cliente prese la penna. Firmò.
E io, in quel momento, capii che avevo dato tutto. Non solo per Aldo. Non solo per l’affare. Avevo dato tutto ciò che avevo. Tutto ciò che ero.
E non me ne pentivo.
Il viaggio di ritorno fu lungo. Silenzioso. L’auto scivolava sotto una pioggia battente sull’asfalto come in apnea. Aldo guidava con lo sguardo fisso davanti a sé, le mani strette sul volante. Io guardavo fuori. sulle mie gambe la cartellina con la copia del contratto firmato.
Le luci della città si rarefacevano, lasciando spazio a strade vuote, alberi immobili, case addormentate. Ogni tanto sentivo il suo respiro cambiare, come se volesse dire qualcosa. Ma non lo fece, né io osavo guardarlo.
Il silenzio tra noi non era vuoto. Era pieno. Pieno di sguardi non scambiati, di pensieri non detti, di domande che nessuno osava formulare.
Il gelo mi aveva avvolta da quando ero salita in auto, lo sentivo sulla pelle. Non il freddo della notte, ma quello del giudizio.
Quello di un giudizio che non era stato pronunciato, ma che già mi attraversava. Come se le parole di Aldo, ancora taciute, mi attraversassero i vestiti, la pelle, la carne, fino a toccarmi le ossa. il cuore.
Arrivammo a casa che era notte fonda. la pioggia aveva smesso di cadere da poco Il vialetto era immerso nel buio e rifletteva le luci della strada, e di tanto in tanto interrotto solo dai fari dell’auto. Aldo spense il motore, ma non scese subito. Rimase lì, immobile. Poi, con un gesto brusco, aprì la portiera, fece il giro dell’auto e venne verso di me. Non disse nulla. Aprì lo sportello, mi afferrò per il polso. Non forte. Ma deciso.
Mi trascinò verso il muro della casa, sotto il portico. Il freddo della pietra mi attraversò la schiena. Le sue mani mi cercarono con urgenza, con rabbia. Non era tenerezza. Non era desiderio. Era il bisogno di dichiarare il suo possesso su di me.
Mi baciò. Non come faceva di solito. Non con dolcezza. Ma con fame. Come se volesse cancellare tutto. Come se volesse riscrivere la storia del mio corpo con la sua bocca, con le sue mani. Mi strinse contro di sé, come a voler dire al mondo: è mia. È ancora mia.
Io non mi opposi. Non lo incoraggiai. Rimasi lì. Presente devota pronta alla sua punizione.
Aldo mi sollevò appena, mi fece girare, mi spinse contro il muro. Il mio respiro si fece corto. Le sue mani tremavano. Non di paura. Di frustrazione. Di desiderio. Di rabbia.
Mi sollevò il vestito abbastanza da scoprirmi le natiche si disfo strappandolo via del tanga che avevo indossato e lo gettò a terra poi, senza un accenno di preliminari, senza chiedermi il solito rispettoso consenso, mi penetrò.
Era un amplesso senza parole. Senza carezze. Senza promesse.
La sua erezione era piena come poche volte l’avevo avvertita negli attimi più intimi durante la nostra relazione, la sentivo affondare dentro di me con crudezza, prendendomi da dietro, come era capitato raramente nei nostri amplessi.
Aldo mi negava i suoi occhi che ero sempre stata abituata a guardare , mi negava la sua voce, forse nel tentativo di non doversi confrontare ,forse non ritenendomi degna di considerazione, o meritevole di una spiegazione.
Continuò a lungo e io dovetti subire, sottomettermi a lui non era solo un atto dovuto di penitenza, ma un piacevole diversivo alla nostra routine, prima di concludere, in maniera brusca ,autoritaria, mi fece voltare ,inginocchiare davanti a lui ,sull’asfalto ruvido umido e gelido del nostro vialetto e quando fui in posizione sparse il suo seme sul mio viso.
Quando tutto finì, rimase lì. Appoggiato all’auto, Il respiro affannoso. Io rimasi immobile ,in penitenza, con il volto coperto da un liquido denso, non osavo guardarlo.
su di noi il cielo era Nero, Immobile, Senza stelle, silenzioso.
Poi si staccò. Mi aiuto ad alzarmi, sistemò il vestito con un gesto goffo. Mi accarezzò la guancia. Ma non disse nulla ,si allontanò. Aprì la porta di casa. Entrò lasciandomi sola lì dietro la nostra auto.
Io rimasi fuori ancora un istante. Il muro freddo contro la schiena. Le gambe tremanti, Il cuore confuso eppure appagata da quella nuova e inattesa esperienza.
E mi chiesi: era amore? Era gelosia? Era paura?
Era il tentativo disperato di non perdermi?
o per la prima volta Aldo mi aveva veramente, in maniera autentica, amata?
Dopo aver ritrovato l'equilibrio nell'instabilità dei miei passi, andai verso casa, solo allora mi accorsi che Michele era affacciato alla finestra della sua camera e che molto probabilmente aveva visto tutto.
scritto il
2025-10-24
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