Sulla pelle di Eva Capitolo XI
di
passodalfiume
genere
confessioni
Era sera. Aldo era rimasto in albergo a causa di una brutta scottatura solare, mentre io ero uscita da sola. Non avevo alcuna voglia di rinchiudermi in camera; l’estate mi chiamava e io non volevo negarmi ad essa. Camminavo per le vie del centro, diretta verso il lungomare, come sempre, incapace di passare inosservata. Il vestito, un miniabito a fiori verde menta, fasciava il mio corpo, aderendo ad esso, lasciando le spalle e la schiena nude. Il collo era incorniciato da un sottile choker tono su tono, quasi fosse un sigillo d’intenzione. Il corpetto, aderente e senza spalline, tratteneva il mio respiro, mentre la gonna corta, appena sopra la decenza, si apriva in una danza di balze asimmetriche: leggere, stratificate, con un drappeggio laterale che scivolava come un pensiero non detto. Sul retro, due nastri lunghi cadevano dal collo, evocando un gesto antico, quasi rituale. Gli accessori che avevo scelto sottolineavano lo stile aggressivo: grandi cerchi dorati alle orecchie, un bracciale massiccio dorato al polso e una borsetta bianca carica di lustrini con catena, dettagli circolari che riprendevano il tema del cerchio, ripetizione, desiderio. Ai piedi, scarpe trasparenti con l’immancabile tacco vertiginoso, sollevavano la mia figura senza appesantirla, come se camminassi su intenzioni e sussurri più che su strada. L’intero outfit non era solo moda: era una dichiarazione. Di controllo, di gioco, di una femminilità che non chiede di essere capita, ma osservata. Aldo si era un po’ preoccupato nel vedermi uscire così, da sola, e si era offerto, nonostante la scottatura, di accompagnarmi, ma riuscii a farlo desistere e a farmi promettere di riposarsi. In realtà, ero responsabile della sua condizione: quella mattina lo avevo convinto a fare un lungo giro in pedalò e, con lo stesso zelo, convinto anche a non usare una protezione adeguata, così che potesse mettere un po’ di colore su quella sua carne così pallida. Il poverino, fidandosi di me, era finito abbrustolito come un’aragosta al vapore. Non so quanto consapevolmente feci in modo che quella cosa accadesse, ma il risultato era tutto a mio favore, visto che avrei avuto la serata libera. In strada, in pochi non mi notarono; molti cercarono un approccio, ma io, selettiva, avevo negato ogni possibile accesso. Mi sedetti al tavolino di un bar e ordinai un Negroni. Di solito non bevo, ma quella sera era la sera delle scelte sbagliate. Il cameriere tornò con il mio ordine e mi lasciò sola. Feci qualche sorso, guardandomi intorno, forse già a caccia di un fortunato sconosciuto. Molti passavano, mi lanciavano un’occhiata e tiravano dritto, forse convinti che una ragazza come me, così attraente, non potesse essere davvero sola. I primi ad avvicinarsi furono tre ragazzini, almeno così mi sembrarono a un primo sguardo. Bastò un attimo per riconoscerli: erano i figli dei nostri vicini di ombrellone, quelli che, insieme al padre, ogni giorno mi divoravano con gli occhi e, appena Aldo si allontanava, cercavano di attirare la mia attenzione con chiacchiere e complimenti. Li osservai: non erano granché, tre mocciosi troppo sicuri di sé. Eppure, un certo potenziale c’era. Potevano essere un buon inizio per la mia serata solitaria; almeno mi sarei divertita a stuzzicarli. Mi chiesero dove fosse mio marito e, quando ebbero la certezza della sua assenza, si offrirono di farmi compagnia. Non mi tirai indietro. Si sedettero accanto e ordinarono da bere. Il cameriere, ligio alle regole del lungomare, li squadrò con aria incerta e chiese i documenti, ricordando che la legge vietava di servire alcol ai minori. I tre, seccati, mentre io li osservavo divertita, subirono quella che per loro fu un’umiliazione. Alla fine, verificata la maggiore età, tornò con i tre Mojito sul vassoio e un secondo Negroni per me. Uno di loro, Ciro, quello dall’aspetto più tenero, era maggiorenne da appena un mese. Sapere quel dettaglio mi intenerì e mi offrii di festeggiare la sua recente maggiore età con un bacio sulla guancia. Nel farlo, ebbi la sensazione di sentire ancora l’odore del latte materno sulla sua fronte. Nonostante le premesse, la serata proseguì in modo sorprendentemente piacevole, tra chiacchiere, scherzi innocenti e risate. I tre non mi staccavano gli occhi di dosso e, cocktail dopo cocktail, presero coraggio: con cautela, provarono a ridurre la distanza tra i nostri corpi. Il tavolino, appartato rispetto alla ressa, ci garantiva la giusta intimità. All’inizio fu un gioco leggero, appena accennato: una mano che sfiorava le ginocchia, un abbraccio che indugiava più del dovuto, un gesto che scivolava lungo la schiena scoperta dal vestito. Un’ora dopo, complice la mia disponibilità e non soltanto l’alcol, mi ritrovai a seguirli fino alla loro camera, nella casa dei genitori. La madre, vedendomi salire con loro, rimase interdetta, ma non ebbe il coraggio di interrompere quel gioco che ormai si era messo in moto. La loro stanza era quella tipica di tre adolescenti: un letto a castello e una brandina, vestiti sparsi ovunque, una consolle collegata a una televisione enorme e, alle pareti, poster sgualciti di donne in pose ammiccanti. Mi misi a curiosare in giro; l’odore di mascolinità mi inebriava e confondeva. Sulla scrivania, tra libri e cavi sparsi, la vidi. Era una mia foto, scattata in spiaggia: uscivo dall’acqua, i capelli bagnati mi cadevano sulle spalle e il bikini argentato, umido, mi aderiva alla pelle come se fosse solo disegnato. Una coppa del reggiseno si era spostata appena, lasciando intravedere un frammento di me che non avevo mai pensato di offrire. Non era posa, non era scelta: era rivelazione, il mio capezzolo faceva sfoggio di sé oltre il tessuto. Sotto, altre foto. In una, di spalle, mentre sistemavo il telo sul lettino, il mio corpo si piegava in un gesto quotidiano che, nello sguardo di chi scattava, diventava esposizione, le mie natiche nude e il sesso tra le mie cosce appena celato sotto lo strato leggero del mio tanga. In un’altra, camminavo sulla passerella di legno, il sole mi attraversava a strisce, come se il mondo intero mi stesse leggendo in silenzio. Non sorridevo, sembravo distratta. Poi la chaise longue: io seduta a gambe larghe, le mani agli slip colorati intente a sistemare i bordi. Non era un gesto studiato, ma nemmeno del tutto innocente. Infine, nell’ultima, o almeno in quella che più attirò la mia attenzione, ero lì, distesa su quella sedia a sdraio, il sole alto, la pelle calda coperta di sudore. Avevo una gamba sollevata, l’altra distesa, il busto inclinato appena, come se stessi offrendo qualcosa senza nemmeno rendermene conto. Il bikini nero mi aderiva quasi evanescente. Inavvertitamente, il tessuto dei miei slip si era spostato ed esponeva in parte il mio sesso. Io non cercavo di sistemarlo. Non c’era fretta, non c’era pudore, solo una sospensione. Sembravo assopita, vulnerabile, indifesa eppure, quell’immagine rubata raccontava di un fotografo molto attento ai dettagli e pronto, attraverso le sue immagini, a raccontare. Scoprii che l’autore di quelle foto era proprio Ciro, il più giovane dei tre fratelli, e dovetti ammettere che aveva talento. Sorrisi, mostrandomi compiaciuta e invitandolo, la prossima volta che voleva farmi una foto, a rendermi partecipe e a chiedermelo. Avevamo deciso di continuare a bere. C’era dell’alcol in casa e, per variare le cose, a fare un piccolo, innocente e infantile gioco: quello di obbligo o verità. Eravamo seduti sul pavimento come indiani. Il mio vestito era completamente risalito e i miei slip, un perizoma nero leggero, era ormai in piena vista. Quando mi accorsi che era rimasto esposto, sotto quegli sguardi che non cercavano di nascondersi, non provai imbarazzo. Al contrario, qualcosa dentro di me si tese, come se avessi appena varcato una soglia invisibile. Non c’era volgarità, non c’era sfida. Solo la consapevolezza di essere osservata e di non voler far nulla per porvi rimedio. Sentivo il tessuto aderire alla pelle, il pizzo vibrare e sparire tra le labbra della mia vagina glabra, completamente esposta ai loro sguardi. Ogni dettaglio sembrava amplificato: il respiro, la postura, il silenzio che si era creato intorno. Non cercavo conferme, ma mi piaceva quel momento sospeso, quel gioco muto in cui il mio corpo diventava linguaggio. E in quel linguaggio, io ero padrona. Il cerchio sul pavimento sembrava un rituale improvvisato. Una bottiglia di vodka comparve dal nulla. I bicchieri mezzi pieni riflettevano la luce fioca della lampada sulla scrivania, unica illuminazione della camera, e ogni risata si spegneva in un silenzio carico di attesa. Uno dei ragazzi prese la parola, con la sicurezza fragile di chi vuole dimostrare coraggio, propose un gioco, ne fui incuriosita e accettai: Obbligo o verità? La regola era semplice: una bottiglia vuota fu posta tra di noi e fatta girare; quando puntava qualcuno, questi doveva scegliere tra obbligo e verità. I tre fratelli baravano e io li lasciavo fare, così facendo finivo sempre io soggetta ai loro capricci, alle loro domande e alle loro pretese. Le domande iniziali furono leggere, quasi infantili: “Qual è il tuo colore preferito?”, “Hai mai mentito a qualcuno che amavi?”. Io rispondevo con calma, scegliendo parole che li spingevano a guardarmi più a lungo, a cercare significati nascosti. Poi arrivarono gli obblighi. Una carezza sul braccio, un contatto prolungato delle mani, uno sguardo da sostenere senza abbassare gli occhi. Io accettavo, ma ribaltavo ogni gesto: il mio silenzio diventava più eloquente delle loro parole, il mio sguardo li costringeva a rivelarsi. Il gioco si faceva più audace. Era la tensione a riempire la stanza: il fruscio del mio vestito che scivolava sulle gambe, il calore delle loro mani esitanti che ogni tanto cercavano di sfiorarmi, il battito accelerato che tradiva la loro inesperienza. Io li lasciavo avvicinare, li lasciavo credere di avere il controllo, ma ogni carezza era già prevista, ogni complicità orchestrata. Le domande si fecero insistenti, intime. Mi chiesero se mi davo piacere da sola, se lo avevo mai fatto con più di un uomo contemporaneamente, se amavo il sesso anale o quello orale. Io rispondevo senza vergogna ad ogni loro curiosità. Poi uno dei tre fu costretto ad ammettere di non aver mai praticato del sesso orale ad una ragazza. Tutti lo presero in giro, ma si ammutolirono quando chiesi chi di loro poteva vantarsi di averlo fatto. Diego, il fratello più grande dei tre, prese coraggio e, arrogante, disse che, anche se non aveva mai provato, sarebbe riuscito a far venire chiunque con la sua lingua e che, se mi fossi resa disponibile, mi avrebbe dato dimostrazione della sua dote naturale, che lo aveva visto fare nei film e che, a suo giudizio, non doveva essere poi così complicato. Acconsentii, divertita dalla sua arroganza, ma, invece di aprirgli le mie gambe, come aveva sperato, sollevai un braccio, gli offrii l’ascella e gli chiesi di darmi dimostrazione della sua innata bravura con quella. Diego, forse sentendosi preso in giro, ci pensò un attimo, poi accettò la mia sfida, ma con una posta in palio: se si fosse dimostrato capace e mi avesse strappato anche un solo gemito, gli avrei concesso di ripetere l’atto tra le mie cosce. Risi, alticcia e complice, accettai. Ci sapeva fare, era grezzo nella tecnica, ma ci metteva passione. Usava le labbra e la lingua con una maestria innata. Finì ad immaginare che la mia ascella fosse il mio sesso e, vinta dall’emozione, mi lasciai sfuggire un gemito. Avevo perso la scommessa. Mi ritrovai distesa sul pavimento. Il top del mio vestito fu fatto scivolare, mettendo in mostra il mio seno. Fu inutile fare il broncio e protestare che quello non faceva parte della scommessa. Due dei fratelli mi tenevano ferma, costringendomi a divaricare le gambe, mentre il terzo prendeva posizione tra le mie cosce. Mi divorò l’inguine senza nemmeno disfarsi dei miei slip. Succhiava, mordeva, leccava, violava con lingua e dita la mia carne. Io cercai di resistere, ma la lotta era impari. Quando gli parve fossi pronta, liberò il suo sesso dai pantaloni e, senza nemmeno chiedermi il permesso, lo fuse con il mio, penetrandomi in pochi colpi di reni. Gli altri due fratelli non rimasero certo a guardare: uno violò la mia bocca con la sua erezione, l’altro strinse la mia mano intorno alla sua, così che ognuno di loro potesse avere un pezzo di me. Il vestito finì ai piedi del letto vicino a noi. Rimasi con indosso solo le scarpe, gli orecchini e il bracciale dorato, mentre a turno ricevevo ognuno di loro dentro di me e, quando uno si scaricava, subito dopo un altro ne prendeva il posto e ripeteva l’atto del primo. Quella notte, vittima e carnefice allo stesso tempo, diedi loro ogni centimetro, ogni piega, ogni fessura del mio corpo, ricevetti molto e diedi in cambio molto altro. La mattina dopo, mentre il sole si arrampicava pigro in cielo, scendendo le scale incontrai i loro genitori. Mi guardarono come se fossi un’aliena. Li salutai, ringraziandoli di aver cresciuto tre ragazzi così generosi. Tornai verso l’albergo, dove mio marito Aldo mi stava aspettando, sperando che non fosse stato troppo in ansia per me, vedendomi rientrare solo all’alba
2
voti
voti
valutazione
8.5
8.5
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Sulla pelle di Eva Capitolo X
Commenti dei lettori al racconto erotico