Sulla pelle di Eva XVIII
di
passodalfiume
genere
confessioni
Justyna Parkhalenko era la più giovane del nostro team, e la più promettente. Una stella dell’atletica. Era arrivata in Italia dalla Polonia a quattordici anni, insieme al padre che ne era anche il severo allenatore. Un talent scout l’aveva notata durante un meeting nel suo paese e, intuendone il potenziale, aveva convinto i genitori a portarla qui, dentro il nostro club.
Io studiavo già da tre anni Scienze della Comunicazione, lei era prossima al diploma scientifico. Nonostante la differenza d’età, mi intimidiva. Spronata costantemente dal padre, Justyna era tanto bella quanto talentuosa. Si dedicava all’atletica con una disciplina feroce: in poco tempo aveva demolito i record delle altre atlete, nel mezzo fondo e nello sprint. Donatello, il nostro allenatore, ci aveva scelto per la staffetta 2x2x400. Così avevamo finito per passare molto tempo insieme.
Justyna parlava poco. Restava concentrata, ma i suoi sguardi erano un concerto di critiche. Gli occhi gelidi mi tagliavano come lame di ghiaccio: sembrava che non mi impegnassi mai abbastanza. E Patrick, sempre presente con il cronometro in mano, aggiungeva il carico. Nonostante i nostri tempi fossero eccellenti, per stessa ammissione di Donatello, lui ci criticava aspramente. O meglio: se la prendeva con la figlia, e indirettamente con me.
Osservavo Justyna e Patrick , mentre lui dopo ogni sezione di allenamento la rimproverava severo, non trovavo alcuna somiglianza tra i due. Lei alta, leggera, slanciata, con un fisico elastico che sembrava nato per correre. Lui basso, tozzo, con il corpo portato più per la forza bruta ma, di chi aveva abbandonato l’agonismo e si era arreso alla sedentarietà, evidente nella rotondità del suo addome.
Un giorno confessai i miei dubbi a Donatello. L’allenatore mi ascoltò in silenzio, poi abbassò lo sguardo e ammise che Patrick non era il padre naturale di Justyna, ma il secondo marito della madre.
La rivelazione mi colpì come un colpo secco: improvvisamente la severità di quell’uomo non mi apparve più come autorità paterna, severa ,autoritaria, ma come una frode, forse persino una forma di abuso.
Tra atleti e dirigenti lo sapevamo tutti: Patrick viveva sulle spalle di Justyna. Il club le garantiva un vitalizio generoso, ma gran parte di quei soldi finiva nelle mani dell’uomo, che li spendeva per sé e per comprare alla “figlia” abiti che difficilmente un padre vorrebbe vedere indossare.
Fuori dal campo Justyna abbandonava tuta e scarpette. Compariva con minigonne, pantaloni aderenti, vestiti corti e tacchi vertiginosi che stridevano con la sua età e con l’immagine dell’atleta disciplinata. E gli atteggiamenti di Patrick, il modo in cui la osservava e la accompagnava, non erano quelli di un padre: c’era qualcosa di stonato, un’inquietudine che tutti percepivamo ma che nessuno osava nominare.
Patrick era sempre al fianco di Justyna. Una presenza morbosa, ossessiva. La seguiva ovunque, persino negli spogliatoi, con grande disagio per noi atlete e per gli allenatori, costretti a subirne l’invadenza.
Ci eravamo lamentate più volte. Ufficialmente restava per “spronarla”, ma in realtà non si limitava a controllare i tempi: osservava la figlia anche mentre si cambiava, e sotto la doccia. Per noi, che condividevamo quello spazio, era intollerabile.
Qualcuno aveva tentato di moderare le sue abitudini, ma lui reagiva sempre con rabbia. Minacciava di portare via Justyna, di trasferirsi in Germania, dove — diceva — aveva già contatti pronti ad accoglierla nel mondo dell’atletica. Era il suo ricatto costante, la leva con cui teneva tutti in scacco.
La situazione era ancora più grave: Justyna non parlava bene l’italiano, conosceva poche frasi stentate. Ogni parola, ogni comunicazione con noi passava attraverso Patrick. Era lui la sua voce, il suo filtro, il suo traduttore. E quell’uomo, senza alcun pudore, ammetteva di aver imparato l’italiano durante i lunghi anni trascorsi nel nostro sistema penitenziario.
Patrick non era morboso solo con Justyna: il suo sguardo viscido si posava anche sulle altre atlete, come un cane che fissa un osso da spolpare.
Quella sera mi ero attardata in palestra. Sarei dovuta uscire con Sergio, un collega di facoltà, cena e discoteca, quel ragazzo, cosi ingenuo ,persino imbranato, mi piaceva molto e speravo che la serata avesse un epilogo piacevole per entrambi.
Dall’armadio della mia stanza, avevo preso gli indumenti pensati per sedurre, un abitino nero corto in viscosa che mostrava più di quanto coprisse ,e sotto di esso la biancheria che gli avrebbe chiarito la mia completa disponibilità.
Sotto la doccia, tra il vapore e la stanchezza degli allenamenti, cercavo di prepararmi al meglio. Avrei voluto passare dall’estetista, ma tra studio ed allenamenti non ne avevo avuto il tempo. Così, dopo essermi lavata per bene, armata di rasoio e schiuma, mi dedicai lentamente a rendere la pelle più liscia sul mio inguine, pensando a lui.
Incapace di sostenere l’attesa del nostro incontro, la mia mano scivolò tra le cosce, fantasticando sull’effetto che avrei fatto al ragazzo, in quel momento di intimità, un brivido, che non fu quello dell'eccitazione, mi corse lungo la schiena. Era la sensazione di essere spiata, di essere derubata della mia privacy ,di quello spazio privato che mi apparteneva e che non avrei ,senza il mio consenso, diviso con un estraneo.
Mi voltai , con l’ansia e l’imbarazzo di chi sa di essere stata scoperta in un attività cosi personale, trovandomi faccia a faccia, con Patrick.
Cercai di coprirmi con le mani, ma sembrava che i suoi occhi, potessero superare ogni ostacolo gli ponessi davanti e raggiungere i punti più intimi del mio corpo. L’uomo si accucciò davanti a me e prese a fissarmi l’inguine, notando che avevo lasciato la mia opera a metà. Senza chiederne il permesso, raccolse il rasoio che nella sorpresa avevo lasciato cadere e vincendo ogni mia resistenza, mi convinse a subire per sua mano, lo sfoltimento fino a rendermi completamente glabra.
La sua dedizione in complicità con la mia arrendevolezza, era stata completa.
Il mio inguine, le labbra della mia vagina, l’area perineale fino all’ano erano lisce , ero spaventata, ma come altre volte, anche eccitata e quando la sua bocca si incollo al mio sesso, arrossato per il taglio e irrorato dal sangue della libido, non potei ritrarmi.
Patrick mi divorò ,come un frutto maturo, schiuso e succoso, intanto nel farlo insinuò un dito dentro il mio ano, regalandomi una sensazione di che danzava tra l’umiliazione e il piacere più intenso.
Venni sulla sua lingua, un attimo dopo, la gambe mi cedettero e finii in ginocchio sul piatto della doccia, ebbi appena il tempo di riprendere fiato, quando il padre di Justyna, mi impose sul viso il suo sesso, obbligandomi a restituirgli con la mia bocca il favore che mi aveva concesso.
Nonostante il mio impegno, non fu pago di quel mio tributo, e rimessami a forza in piedi, mantenendo un equilibrio instabile, mi fece piegare in avanti ,mani sulle mattonelle di ceramica sotto al getto costante dell’acqua che mi rendeva tutto, più difficile, e una volta trovato spazio tra le mie natiche, mi prese da dietro.
Tenendomi saldamente dai fianchi, scivolava in profondità, seguendo il ritmo del mio respiro, respiro da prima esitante, timido, spaventato, poi sempre più coinvolto, avanzava e arretrava, colmando ogni spazio dentro di me in un movimento costante, deciso che non dava via di scampo, che pretendeva solo la mia resa.
Resa che arrivò, con sorprendete velocità in un liquido orgasmo e quando anche lui, arrivò alla sua capitolazione, spargendo la sua frustrazione, sui miei glutei e sulla mia schiena, ammise che mi aveva notato e desiderato ,più di tutte le altre, dal primo giorno.
Soddisfatto, nel suo bisogno, fece per andarsene, ma prima di lasciarmi da sola, mi chiese con insistenza di impegnarmi di più negli allenamenti, che a suo dire, le mie prestazioni sulla pista di atletica erano deludenti e rischiavo , per riflesso, di compromettere quelle di sua figlia.
Dopo essermi ripresa, rilavata sotto la doccia, vestita, notando il ritardo che avevo accumulato corsi fuori dalla struttura verso la metropolitana per raggiungere Sergio e iniziare il nostro appuntamento e con esso il nostro corteggiamento.
In un angolo del parco, parco che circondava il campo di atletica, seduti su una panchina, trovai Partick e Justyna in quello che non sarebbe dovuto essere un interazione tra un padre e una figlia. Capii che gli appetiti sessuali di quell’uomo erano smisurati. Le sue mani erano su di lei in maniera indecente, tra le gambe della ragazza dentro i suoi slip, la gonna sollevata fino in vita, la blusa aperta mostrava il seno scoperto, mentre lui ne saggiava il tono e l’elasticità ne divorava con la lingua i capezzoli, Justyna, non sembrava subire passivamente, era partecipe e stringendo la virilità che sarebbe dovuto essergli padre, fuori dai pantaloni tra le dita cercava di compiacerlo.
Li guardai con un misto di rifiuto ed eccitazione, in fondo lei era maggiorenne e sembrava consenziente e io non ero nessuno per interferire nella loro relazione.
Corsi via, eccitata, sperando che Sergio, sarebbe stato in grado di appagare il mio appetito, quella sera.
Io studiavo già da tre anni Scienze della Comunicazione, lei era prossima al diploma scientifico. Nonostante la differenza d’età, mi intimidiva. Spronata costantemente dal padre, Justyna era tanto bella quanto talentuosa. Si dedicava all’atletica con una disciplina feroce: in poco tempo aveva demolito i record delle altre atlete, nel mezzo fondo e nello sprint. Donatello, il nostro allenatore, ci aveva scelto per la staffetta 2x2x400. Così avevamo finito per passare molto tempo insieme.
Justyna parlava poco. Restava concentrata, ma i suoi sguardi erano un concerto di critiche. Gli occhi gelidi mi tagliavano come lame di ghiaccio: sembrava che non mi impegnassi mai abbastanza. E Patrick, sempre presente con il cronometro in mano, aggiungeva il carico. Nonostante i nostri tempi fossero eccellenti, per stessa ammissione di Donatello, lui ci criticava aspramente. O meglio: se la prendeva con la figlia, e indirettamente con me.
Osservavo Justyna e Patrick , mentre lui dopo ogni sezione di allenamento la rimproverava severo, non trovavo alcuna somiglianza tra i due. Lei alta, leggera, slanciata, con un fisico elastico che sembrava nato per correre. Lui basso, tozzo, con il corpo portato più per la forza bruta ma, di chi aveva abbandonato l’agonismo e si era arreso alla sedentarietà, evidente nella rotondità del suo addome.
Un giorno confessai i miei dubbi a Donatello. L’allenatore mi ascoltò in silenzio, poi abbassò lo sguardo e ammise che Patrick non era il padre naturale di Justyna, ma il secondo marito della madre.
La rivelazione mi colpì come un colpo secco: improvvisamente la severità di quell’uomo non mi apparve più come autorità paterna, severa ,autoritaria, ma come una frode, forse persino una forma di abuso.
Tra atleti e dirigenti lo sapevamo tutti: Patrick viveva sulle spalle di Justyna. Il club le garantiva un vitalizio generoso, ma gran parte di quei soldi finiva nelle mani dell’uomo, che li spendeva per sé e per comprare alla “figlia” abiti che difficilmente un padre vorrebbe vedere indossare.
Fuori dal campo Justyna abbandonava tuta e scarpette. Compariva con minigonne, pantaloni aderenti, vestiti corti e tacchi vertiginosi che stridevano con la sua età e con l’immagine dell’atleta disciplinata. E gli atteggiamenti di Patrick, il modo in cui la osservava e la accompagnava, non erano quelli di un padre: c’era qualcosa di stonato, un’inquietudine che tutti percepivamo ma che nessuno osava nominare.
Patrick era sempre al fianco di Justyna. Una presenza morbosa, ossessiva. La seguiva ovunque, persino negli spogliatoi, con grande disagio per noi atlete e per gli allenatori, costretti a subirne l’invadenza.
Ci eravamo lamentate più volte. Ufficialmente restava per “spronarla”, ma in realtà non si limitava a controllare i tempi: osservava la figlia anche mentre si cambiava, e sotto la doccia. Per noi, che condividevamo quello spazio, era intollerabile.
Qualcuno aveva tentato di moderare le sue abitudini, ma lui reagiva sempre con rabbia. Minacciava di portare via Justyna, di trasferirsi in Germania, dove — diceva — aveva già contatti pronti ad accoglierla nel mondo dell’atletica. Era il suo ricatto costante, la leva con cui teneva tutti in scacco.
La situazione era ancora più grave: Justyna non parlava bene l’italiano, conosceva poche frasi stentate. Ogni parola, ogni comunicazione con noi passava attraverso Patrick. Era lui la sua voce, il suo filtro, il suo traduttore. E quell’uomo, senza alcun pudore, ammetteva di aver imparato l’italiano durante i lunghi anni trascorsi nel nostro sistema penitenziario.
Patrick non era morboso solo con Justyna: il suo sguardo viscido si posava anche sulle altre atlete, come un cane che fissa un osso da spolpare.
Quella sera mi ero attardata in palestra. Sarei dovuta uscire con Sergio, un collega di facoltà, cena e discoteca, quel ragazzo, cosi ingenuo ,persino imbranato, mi piaceva molto e speravo che la serata avesse un epilogo piacevole per entrambi.
Dall’armadio della mia stanza, avevo preso gli indumenti pensati per sedurre, un abitino nero corto in viscosa che mostrava più di quanto coprisse ,e sotto di esso la biancheria che gli avrebbe chiarito la mia completa disponibilità.
Sotto la doccia, tra il vapore e la stanchezza degli allenamenti, cercavo di prepararmi al meglio. Avrei voluto passare dall’estetista, ma tra studio ed allenamenti non ne avevo avuto il tempo. Così, dopo essermi lavata per bene, armata di rasoio e schiuma, mi dedicai lentamente a rendere la pelle più liscia sul mio inguine, pensando a lui.
Incapace di sostenere l’attesa del nostro incontro, la mia mano scivolò tra le cosce, fantasticando sull’effetto che avrei fatto al ragazzo, in quel momento di intimità, un brivido, che non fu quello dell'eccitazione, mi corse lungo la schiena. Era la sensazione di essere spiata, di essere derubata della mia privacy ,di quello spazio privato che mi apparteneva e che non avrei ,senza il mio consenso, diviso con un estraneo.
Mi voltai , con l’ansia e l’imbarazzo di chi sa di essere stata scoperta in un attività cosi personale, trovandomi faccia a faccia, con Patrick.
Cercai di coprirmi con le mani, ma sembrava che i suoi occhi, potessero superare ogni ostacolo gli ponessi davanti e raggiungere i punti più intimi del mio corpo. L’uomo si accucciò davanti a me e prese a fissarmi l’inguine, notando che avevo lasciato la mia opera a metà. Senza chiederne il permesso, raccolse il rasoio che nella sorpresa avevo lasciato cadere e vincendo ogni mia resistenza, mi convinse a subire per sua mano, lo sfoltimento fino a rendermi completamente glabra.
La sua dedizione in complicità con la mia arrendevolezza, era stata completa.
Il mio inguine, le labbra della mia vagina, l’area perineale fino all’ano erano lisce , ero spaventata, ma come altre volte, anche eccitata e quando la sua bocca si incollo al mio sesso, arrossato per il taglio e irrorato dal sangue della libido, non potei ritrarmi.
Patrick mi divorò ,come un frutto maturo, schiuso e succoso, intanto nel farlo insinuò un dito dentro il mio ano, regalandomi una sensazione di che danzava tra l’umiliazione e il piacere più intenso.
Venni sulla sua lingua, un attimo dopo, la gambe mi cedettero e finii in ginocchio sul piatto della doccia, ebbi appena il tempo di riprendere fiato, quando il padre di Justyna, mi impose sul viso il suo sesso, obbligandomi a restituirgli con la mia bocca il favore che mi aveva concesso.
Nonostante il mio impegno, non fu pago di quel mio tributo, e rimessami a forza in piedi, mantenendo un equilibrio instabile, mi fece piegare in avanti ,mani sulle mattonelle di ceramica sotto al getto costante dell’acqua che mi rendeva tutto, più difficile, e una volta trovato spazio tra le mie natiche, mi prese da dietro.
Tenendomi saldamente dai fianchi, scivolava in profondità, seguendo il ritmo del mio respiro, respiro da prima esitante, timido, spaventato, poi sempre più coinvolto, avanzava e arretrava, colmando ogni spazio dentro di me in un movimento costante, deciso che non dava via di scampo, che pretendeva solo la mia resa.
Resa che arrivò, con sorprendete velocità in un liquido orgasmo e quando anche lui, arrivò alla sua capitolazione, spargendo la sua frustrazione, sui miei glutei e sulla mia schiena, ammise che mi aveva notato e desiderato ,più di tutte le altre, dal primo giorno.
Soddisfatto, nel suo bisogno, fece per andarsene, ma prima di lasciarmi da sola, mi chiese con insistenza di impegnarmi di più negli allenamenti, che a suo dire, le mie prestazioni sulla pista di atletica erano deludenti e rischiavo , per riflesso, di compromettere quelle di sua figlia.
Dopo essermi ripresa, rilavata sotto la doccia, vestita, notando il ritardo che avevo accumulato corsi fuori dalla struttura verso la metropolitana per raggiungere Sergio e iniziare il nostro appuntamento e con esso il nostro corteggiamento.
In un angolo del parco, parco che circondava il campo di atletica, seduti su una panchina, trovai Partick e Justyna in quello che non sarebbe dovuto essere un interazione tra un padre e una figlia. Capii che gli appetiti sessuali di quell’uomo erano smisurati. Le sue mani erano su di lei in maniera indecente, tra le gambe della ragazza dentro i suoi slip, la gonna sollevata fino in vita, la blusa aperta mostrava il seno scoperto, mentre lui ne saggiava il tono e l’elasticità ne divorava con la lingua i capezzoli, Justyna, non sembrava subire passivamente, era partecipe e stringendo la virilità che sarebbe dovuto essergli padre, fuori dai pantaloni tra le dita cercava di compiacerlo.
Li guardai con un misto di rifiuto ed eccitazione, in fondo lei era maggiorenne e sembrava consenziente e io non ero nessuno per interferire nella loro relazione.
Corsi via, eccitata, sperando che Sergio, sarebbe stato in grado di appagare il mio appetito, quella sera.
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