Sulla pelle di Eva Capitolo IX

di
genere
confessioni

Il treno correva. Mi portava via. All’orizzonte, il sole sorgeva lento, come se non volesse disturbare.
Aldo ,mio marito, dormiva al mio fianco, per cercare di assecondarmi e regalarmi la vacanza al mare che lo avevo supplicato di concedermi, si era svegliato prestissimo e ora il sonno arretrato lo aveva reclamato.
Ero eccitata come una bambina davanti a un regalo misterioso. Un’eccitazione non nuova, già provata in passato, eppure sempre più rara. Quella che accompagna ogni inizio, ogni salto nel vuoto.
Come ad Amalfi da bambina, in vacanza con i miei, prima della loro separazione. Quando, insieme ai cugini, ci lanciavamo dalla scogliera da altezze vertiginose, con l’incoscienza tipica degli adolescenti. Noi stessi posti in pericolo, eppure euforici.
La paura. La voglia di testare i propri limiti. Il cuore in gola. L’orizzonte sconfinato davanti, a rappresentare un futuro che ci sembrava infinito.
E fatto quel passo verso il vuoto, precipitavamo, Mano nella mano, Il mare sotto che ci correva incontro. Il mondo intero che ci guardava.
Il treno correva , io mi sentivo eccitata, a testimoniare quella mia eccitazione c’era , il tassello umido delle mie mutandine.
Due uomini sedevano di fronte. Stranieri, forse nordafricani. Occhi stanchi, mani ruvide, aspetto trasandato. Mi avevano notato, entrando nel vagone, forse era stata la mia minigonna, forse la mia camicetta troppo aperta, avevano deciso di sedersi davanti a me.
Sfidando me, sfidando mio marito che dormiva li al mio fianco.
Mi osservavano, attenti come se non volessero perdersi nessun dettaglio. Io non mi lasciavo intimidire. Non distolsi lo sguardo. Finsi noia, Finsi distrazione, guardando fuori dal finestrino o perdendomi tra le pagine del romanzo rosa che mi ero portata dietro. Ma senza perderli mai veramente d’occhio, li lasciavo fare. Lasciavo che mi guardassero, che si godessero lo spettacolo.
I loro occhi scivolavano sotto la blusa rossa, sbottonata con cura. Oltre l’orlo corto della gonna di pelle. Cercavano un dettaglio da annotare, da rievocare più tardi, nella solitudine, o tra amici, nei momenti di convivialità.
Mi sentii pronta a concedermi. Non a loro, forse. Ma a quello sguardo, a quel desiderio.
Uno dei due si era accorto del mio piccolo segreto. O forse lo aveva solo immaginato. Rovistava con gli occhi tra le mie cosce, cercando di spingersi là dove non c’era nulla a proteggermi se non la trama leggera dei collant, sotto il quale spingeva paffuto, il mio sesso umido.
Non disse nulla al suo compagno, che pareva troppo stanco per sostenere lo sguardo, i suoi occhi si appesantirono e in breve, seguì il destino di mio marito tra le braccia di morfeo.
Lui, invece evidentemente troppo preso dallo spettacolo, scivolò leggermente in avanti sulla seduta. Quando raggiunse la posizione perfetta, prese a guardarmi con insistenza.
La sua sfrontatezza mi divertiva. Reagii di conseguenza.
Mi assicurai che Aldo dormisse e quando ne fui certa feci la mia mossa.
Le mie ginocchia si schiudevano e si richiudevano, seguendo il ritmo del treno. Una danza silenziosa, sensuale.
Era parte del gioco. Un gioco che conoscevo da sempre, a cui adoravo giocare.
L’uomo compresa la mia complicità, smise ogni sotterfugio e senza alcuna vergogna e profondo sprezzo del pericolo, tirò giù la zip dei pantaloni ed estrasse dalla patta aperta la propria erezione. La mostrò con un certo orgoglio, sollevandola come un mercante che lascia scivolare la luce sulla sua merce più pregiata, ostentandola pur sapendo che non tutti ne avrebbero colto il valore, di quello che lui credeva essere un pezzo unico, raro.
All’inizio mi finsi disinteressata, ma poi il mio sguardo continuo a cercarlo, a valutarne le dimensioni, lo spessore, la lunghezza e l'incarnato olivastro, esotico.
L’uomo colse il mio interesse, sorrise, massaggiandosi l’asta, fece scivolare la pelle intorno al glande, rivelandola gia umida e pronta ad essere accolta.
Era un bel pezzo di carne, non potevo negarlo, ma non sarei andata oltre.
Non avevo intenzione di offrirgli altro ,certo, l’offerta era generosa e tentatrice, un fremito mi corse tra le cosce osservandolo ,arrivai persino a fantasticare su come sarebbe stato abbandonare ogni indugio e dopo essermi chinata tra le sue ginocchia, aver scoperto il sapore del suo sesso.
Ma non lo feci. L’uomo sembrò capire, e accettare la mia scelta eppure con lo sguardo mi supplicava di concederli dell’altro, una visione pià amplia della mia natura, mi guardai a torno, il vagone del treno era pressocchè vuoto, i pochi passeggeri, intenti a seguire le proprie faccende o addormentati nei loro posti.
Quando fui certa di non correre alcun pericolo, allargai le mia gambe e posi un piede sulla seduta, cosi che fossi pienamente esposta.
Sotto ai collant ,oltre le mie mutandine, il mio sesso fremeva di desiderio.
L’uomo mi guardò e con un gesto della mano mi chiese di seguirlo in bagno, ma io feci la brava e resistetti al suo invito.
Quando capii che non lo avrei assecondato, cercò da solo di dare un senso alla sua, frustrazione.
La sua mano si mosse veloce, fino a raggiungere quello scopo e quando esso si materializzò, quando il suo sfogo fu colto, l’uomo si sollevò appena, si sporse verso di me, per colmare la distanza che ci separava e messosi in posa diede un senso al suo intento , mi rese bersaglio del suo piacere. All'interno della mia coscia sinistra, al centro del mio cavallo sparse il suo seme, ma non sembrò soddisfatto. Gli ultimi sprazzi del suo ardore , quelli più carichi, mi raggiunsero sul viso, imbrattandomi gli occhiali da vista ,incollandomi le labbre carnose, andando a posarsi sulla lingua che avevo rapida , curiosa e avida, avevo esposta per sentire il sapore, e colandomi su collo fino a depositarsi tra l’incavo del mio seno.
L’uomo tornò a sedere ,sistemandosi la patta, mi ammirava, nella mia posa sconcia, io sentivo il cuore galoppare veloce sotto la mia pelle, il tiepido contatto del suo liquido mi fece fremere ancora e, dalla mia gola scivolò fuori un breve gemito.
Poi l’interfono del treno annunciò la fermata seguente, svegliò il suo partner e insieme si affrettarono a lasciarci.
“che brutti musi” disse Aldo ancora assonnato, ebbi appena il tempo di accavallare le gambe e sorridergli
“Dai, non essere razzista” lo rimproverai, afferrandogli un braccio in un gesto tenero, per poi baciarlo.
Rimasta sola, mi persi nei miei pensieri. Aldo ancora troppo stanco, tornò a dormire.
il treno riprese la sua corsa
Guardavo fuori. Il mondo scorreva. e tra le figura ormai distorte dalla velocità, furono rievocati i ricordi di una vita.
Volti noti e dimenticati, situazioni eccitanti le cui conseguenze erano state dolci o amare, e mi chiesi: quando era cominciato tutto.
Non il desiderio. Quello mi abitava da sempre, mi apparteneva come io appartenevo ad esso.
Era una corrente sotterranea. che si manifestava attraverso il bisogno di essere vista. Scelta. Desiderata. per tutto il tempo che volevo o mi era utile esserlo.
Il treno correva.
Aveva raggiunto la sua velocità massima. Socchiudevo gli occhi, nel tentativo di concedermi una pausa. Il paesaggio si trasformò in qualcosa di distorto, confuso. E in quella confusione, riaffiorarono i miei ricordi.
Mio padre se ne andò quando ero bambina. O almeno, pensavo di esserlo ancora. Troppo piccola per essere abbandonata. Troppo piccola per vivere senza di lui. Ricordo la sua voce. Ricordo il suo volto. Il profumo del suo dopobarba, lo stesso che ho sempre regalato a ogni uomo che è entrato nella mia vita, pensando che avrebbe potuto sostituirlo.
Ma più di ogni altra cosa, ricordo il vuoto.
Il posto vuoto alla mia sinistra, a tavola.
Quello sul divano davanti alla TV quando mi accoccolavo tra le sue braccia.
Alla guida dell’auto, quando mi accompagnava a scuola o a danza.
Di fianco al mio letto, la sera, mentre mi rimboccava le coperte. Quel volto che poi avevo perduto ma che inciso nella mia mente, mi ha seguita per sempre diventando parte di me.
Mia madre, invece, era ovunque. Invasiva, Egocentrica. Narcisista. Affamata di sguardi. Gli uomini entravano e uscivano dalla nostra casa come ospiti di passaggio, passavano uno dopo l’altro come le pagine di un calendario. Lei li accoglieva con sorrisi che mi erano estranei.
Io li osservavo. Studiavo. Crescendo, imparai a replicare quei gesti, quelle parole. A usarli.
Quando sentii di essere abbastanza adulta per farlo, decisi di abbandonare il mio nome di battesimo, Rosaria. Rosaria non era adatto alla vita che stavo cominciando a vivere; avrei avuto bisogno di qualcosa di più evocativo, qualcosa che dichiarasse i miei intenti. La scelta fu semplice, forse un po’ banale ma efficace: cominciai a farmi chiamare Eva. Non per caso, non per vezzo. Eva, come l’originale, come la donna che diede inizio a tutto. Io non portavo il peso del peccato originale. Portavo un altro tipo di peccato , quello che non si espia, quello che si ripete, quello che si desidera, quello che si cerca, quello che si offre e a cui ci si concede. La seduzione.
La mia prima seduzione non fu un gioco. Fu un esperimento. Volevo sapere se potevo essere desiderata, se potevo avere potere. Quando scoprii che sì, potevo, non smisi più. Il primo ad accorgersi di me fu Armando, il gestore del bar dove andavo da bambina con mia madre. Lo conoscevo da sempre: la prima volta che entrai nel suo locale ero nel passeggino, lui mi aveva vista crescere e, nell’ultimo anno delle medie, notò che mi stavo trasformando in qualcosa di diverso. Fui io a cercare di sedurlo , con gli sguardi, gli atteggiamenti, le lusinghe; tentativi goffi di una bambina che suscitavano in lui solo ilarità. Poi il corpo maturò e le parole parvero avere più effetto. Il giorno che compii sedici anni, nel retro del suo bar, su un bancale di bibite, mi fece conoscere quella passione che avevo cercato.
Era stato deludente. Veloce. Diverso da come lo avevo sempre immaginato, ascoltando i gemiti di mia madre mentre intratteneva i suoi amanti in camera da letto. Quel giorno piansi. Mi sentivo derubata. Ferita, non solo nel corpo, ma nell’anima. Avevo cercato quella cosa, l’avevo voluta. E quando l’avevo trovata, non mi aveva lasciato altro che dolore. E un sapore amaro in gola.
Armando aveva cercato di essere premuroso, paziente. Ma l’emozione ebbe la meglio su di lui, e finì per appagare più se stesso che i miei bisogni, le mie fantasie. Non entrai mai più nel suo bar.
Per giorni mi chiusi in camera, con quel sapore amaro in gola e la sensazione di aver perso qualcosa che non sapevo nemmeno nominare. Guardavo gli uomini — i miei compagni di scuola, gli amanti di mia madre, i vicini, gli estranei che incrociavo per strada e mi fissavano — e li trovavo disgustosi, banali, elementali. Tutti in cerca solo di una cosa. Ma poi, lentamente, cominciai a pensare che forse non era colpa loro. Che il mio giudizio era stato affrettato, figlio di una sola esperienza. Forse avevo sbagliato persona. Forse non ero ancora capace. O forse c’era altro da scoprire. Non smisi di cercare. Non per vendetta, non per rabbia. Perché dentro di me c’era ancora quella domanda — quell’istinto — quella voglia di validazione, di riconoscimento, che non si era spento. Volevo capire. Volevo sentire. Volevo sapere se esisteva davvero quel brivido che avevo solo immaginato. E se non era Armando, qualcun altro là fuori, nel mondo, avrebbe assunto quella funzione attraverso la quale avrei potuto avere accesso a ciò che si celava dentro di me.
scritto il
2025-11-21
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