Sulla pelle di Eva XX
di
passodalfiume
genere
confessioni
Facevo il quarto anno di università quando conobbi Rosario. Sembrava un uomo qualunque, bassino, calvo, con un’aria trascurata e una cattiva igiene. Eppure, qualcosa di lui mi colpì subito, un dettaglio che non sapevo definire ma che mi lasciò inquieta. Nella ressa della metropolitana, nell’ora di punta, sentii il suo corpo premere contro il mio fianco, un contatto che cercava di sembrare casuale ma che mi fece percepire un’intenzione nascosta.
Non so se fosse stato ciò che indossavo quel giorno ,tornavo dagli allenamenti e avevo i leggings bianchi push-up che enfatizzavano ciò che gia di suo era notevole, o se fosse bastata la mia semplice presenza. Forse, in qualche modo, avevo lasciato trapelare una disponibilità che non sapevo di avere, e lui l’aveva colta.
Sta di fatto che, mentre mi chinavo in avanti per posare lo zainetto che avevo sulle spalle, tra i piedi, come farebbe chiunque dotato di buone maniere salendo su un vagone affollato per cercare di occupare meno spazio possibile, mi sentii esposta, vulnerabile, ebbi la netta sensazione che ogni movimento fosse osservato e, quando l’uomo dietro di me si appoggiò con chiarissimo intento, fu palese che non solo mi aveva notato, ma, più di ogni altra cosa, voleva cogliere un dettaglio del mio corpo che la semplice vista non poteva offrirgli.
All’inizio provai un moto di fastidio. Quando mi voltai verso di lui per manifestare il mio disagio, mi ritrovai davanti un tizio dall’aria colpevole e spaesata, imbarazzato per essere stato colto sul fatto. Mi fece quasi tenerezza, e il mio sguardo di rimprovero si trasformò in compassione.
Lui prese coraggio e si presentò io feci lo stesso. Passammo tutta la mia corsa verso casa, dove mi aspettava Sergio il mio fidanzato, a parlare, mantenendo immutata la nostra posizione: io davanti, lui dietro di me, con i nostri corpi appiccicati l'uno all'altra e con il movimento del treno tra frenate e corse riprese a darci la direzione, il ritmo, a cui nessuno dei due poteva opporsi.
Fu piacevole parlare e giocare con lui, Rosario, con la privacy che poteva garantire un vagone strapieno di persone, vista la mia disponibilità, lasciò correre le mani ovunque gli permettessi di farlo, sotto la mia maglietta aderente, dentro i miei pantaloni, poi non riuscendo a sostenere l'emozione, esigendo uno sfogo, dopo aver esposto il suo ardore e averlo celato tra le mie gambe, tra lo sfregamento e i colpi secchi contro la mia carne, era venuto innaffiando di sperma la mia natica destra. In prossimità della mia fermata, prima di salutarci, ci eravamo scambiati i contatti. Due sere dopo, quando dopo un milione di messaggi da parte sua, gli concessi un appuntamento, si concluse nella sua camera da letto, e scoprii che dietro quell'aspetto insignificante si nascondeva un autentico stallone.
Il nostro incontro mi affascinò a tal punto che, per un certo periodo, gli dedicai un'esclusiva che in vita mia ho concesso a pochi partner, persino a quelli ufficiali. Ero così presa da lui che una mattina, appena concluso un impegno con l'agenzia di Cinzia vicino a dove lavorava, sperando di trovare un angolo appartato dove restare in compagnia, andai a fargli una sorpresa.
Rosario insegnava all'IPSIA, una scuola tra le più problematiche della città, con una cattiva reputazione, spesso finita sulle pagine della cronaca locale per atti di vandalismo o violenze, aggressioni contro i docenti e tra gli studenti.
Per l'occasione, dato che volevo sedurlo e lui aveva un'autentica passione per le "Office Slut", oltre agli accessori che ne caratterizzano il personaggio, come gli occhiali da vista e la ventiquattro ore, avevo indossato una giacca nera corta, una camicetta bianca di chiffon, sotto la quale si intravedeva il reggiseno di pizzo nero, per accentuarne il contrasto e la seduzione. I miei fianchi erano stretti in una pencil skirt, misto lana ed elastene, molto aderente a vita alta, con tre grossi bottoni metallici a chiuderla in vita. Uno spacco vertiginoso si apriva ad ogni passo sulla gamba destra fino alla parte alta della coscia, lasciando intravedere le calze con la riga dietro, nere anch'esse, e la giarrettiera che le teneva su. Ai piedi, delle décolleté in vernice, con le suole rosse come il peccato. Ma un segreto più delizioso, si celava dove lo sguardo non poteva insinuarsi. Rosario, nel suo smisurato appetito, era un uomo esigente e con una fervida fantasia, amava non solo i giochi di ruolo, ma anche gli accessori che si potevano usare in quelle pratiche, cosi ,tra le pieghe della mia vagina e nell'anfratto del mio ano, restavano dormienti due giochini pronti al suo capriccio attraverso l'attivazione di un telecomando, a regalarmi autentici momenti di piacere.
L'IPSIA , come tanti istituti professionali, si trovava in uno dei quartieri più poveri della città, il cui centro vitale era la stazione della metropolitana frequentata da tossici, spacciatori e balordi di ogni tipo.
L'edificio sembrava un insieme di moduli prefabbricati dal colore indefinibile, non si presentava nel migliore dei modi, tra graffiti pieni di odio in ogni sua forma, e frustrazione sessuale che attraverso di essi trovavano sfogo, finestre rotte e porte sostituite con pannelli di compensato, era il manifesto di un sistema scolastico ormai sull'orlo del collasso ,tra degrado, indifferenza e incuria, che invece di stimolare i suoi studenti all'apprendimento, li deprimeva, li relegava a diventare cittadini di serie B.
L'omino nella guardiola posta all'ingresso, da cui qualcuno aveva divelto il cancello, vedendomi arrivare, lascio la sua sedia su cui oziava, ma non osò domandarmi niente, si limitò a fissarmi con aria curiosa e a distogliere imbarazzato lo sguardo, quando ,sentendo i suoi occhi su i miei fianchi passandogli accanto, mi voltai a guardarlo.
Nell'androne della scuola incontrai due ragazzi ,intenti ad imbrattare con un pennarello l'ultimo angolo non ancora coperto di un armadietto, la cui aria incredula mi divertì parecchio ,balbettarono qualcosa di appena comprensibile, quando gli chiesi dove fosse il professore Palumbo, Rosario.
Salii al secondo piano, cercando l'aula che i due ragazzi mi avevano indicato, la stanza era vuota, di uno squallore infinito, il riflesso dell'esterno di quella scuola. Gli zaini e i giubbotti appesi alle sedie erano testimonianza che fosse stata occupata fino a poco prima. In cortile dietro la scuola, in quello che avrebbe ,probabilmente ,dovuto essere un campo da gioco, tra cemento crepato, canestri dai cerchi arrugginiti e due porte da calcetto senza rete, c'erano alcuni ragazzi intenti a giocare a pallone, forse in pausa, forse più interessati alla bella giornata che alle nozioni che avrebbero dovuto apprendere nelle loro aule.
Faceva caldo, il mio corpo stava avvampando, forse per la lunga camminata sotto al sole dalla stazione della metro fino all'istituto, forse pregustando i tormenti a cui avrei sottoposto il mio nuovo amico. Rosario non c'era, decisi che l'avrei atteso li, tolsi la giacca e la sistemai sullo schienale di quella che pensavo fosse la sua sedia ,dietro la scrivania.
Ero tutta sudata, la camicetta già trasparente di suo, ora mi si appiccicava addosso, sollevai i capelli e li raccolsi in alto dietro la testa con un elastico, sventolandomi poi le mani in faccia cercando un pò di refrigerio.
Mi accorsi che una delle clip del mio reggicalze si era sganciato e la calza pendeva un pò lungo la mia coscia, decisi di sistemarla, solo quando ebbi portato a termine il mio intento mi accorsi che non ero più sola.
Alcuni ragazzi erano fermi fuori dalla porta, mi osservavano con curiosità e incredulità, forse cercando di capire se fossi reale o frutto di qualche loro fantasia bagnata.
Li salutai gentilmente, cercando di sembrare sicura di me, senza avere risposta, erano più o meno una dozzina alcuni dei quali, non sembravano proprio degli adolescenti, piuttosto dei giovani uomini. Uno di loro, prese coraggio e mi chiese se ero la supplente di contabilità e finanza, a quanto pare la loro prof. fosse assente da parecchio tempo e aveva dato l'impressione di non voler tornare ad insegnare. Non sò perchè, forse la mia fu semplice incoscienza, ma invece di rispondergli che ero li per tutt'altro motivo, gli risposi che ,Si ,ero la nuova supplente di quella materia.
Entrarono, dopo averli invitati a prendere posto, con umore vario, alcuni sembravano entusiasti per la novità, altri infastiditi, altri compiaciuti ,altri ancora indifferenti.
Mentre si sedevano, facendo a gara a chi dovesse occupare i posti nelle prime file, riflettevo sulla materia che avrei dovuto insegnargli, contabilità e finanza, chiedendomi quanto fosse diversa da economia e diritto che studiavo in facoltà. Mi appoggiai alla scrivania dietro di me, osservandoli, sembravano dei bravi ragazzi nonostante l'aria da teppisti. Mentre scorrevo in rassegna ognuno di loro, sentii bisbigliato ogni tipo di commento, dall'apprezzamento leggero, all'insulto più pesante.
Muovendomi avanti e indietro nell’aula, il registro stretto tra le mani, lasciavo che il ticchettio delle scarpe spezzasse un silenzio insolito, un silenzio che quelle pareti non avevano mai conosciuto. Sentivo gli occhi dei ragazzi bruciarmi sulla pelle, come se cercassero di indovinare le parole che stavo per pronunciare. Prima di iniziare la lezione, feci l’appello.
Molti nomi rimasero sospesi, muti. Quasi metà della classe non rispose. Con amarezza scoprii che alcuni di quei silenzi avevano già preso strade irreversibili: il carcere minorile, quello per adulti, le case di accoglienza, le comunità di recupero. Altri, semplicemente, erano stati inghiottiti dalla strada.
Il registro, più che un elenco di presenze, si trasformò in un inventario di assenze, un catalogo di destini spezzati. Ogni nome non pronunciato era un vuoto che pesava più di qualsiasi parola.
Mi colpì l’ironia, intrisa di cinismo, con cui i presenti commentavano le tragedie dei compagni assenti. Sembrava il segno di una generazione insensibile, o forse soltanto incapace di riconoscere che quella stessa sfortuna, se avessero imboccato la strada sbagliata, avrebbe potuto travolgere anche loro. Ogni risata, ogni battuta, era un modo per tenere a distanza la paura, ma non cancellava l’ombra che aleggiava su ciascuno di quei volti.
Quando uno di loro si accorse che non mi ero ancora presentata, mi chiese il nome. Per scrollarmi di dosso l’immagine di quei ragazzi smarriti che stava appesantendo il mio umore, decisi di inventarne uno, qualcosa che sollecitasse la loro fantasia e, insieme, la mia. Ci pensai un istante, poi risposi: «Mi chiamo Donata. Donata Passera».
Non era del tutto inventato: mi ero ispirata alla mia professoressa di lettere e filosofia delle superiori, la signora Passera, moglie di un assessore comunale. Una donna dal volto poco gradevole, severa e acida, che pretendeva sempre troppo dai suoi studenti. Il suo nome, così fragile e buffo, strideva con l’autorità che cercava di esercitare e aveva sempre suscitato imbarazzo e risatine soffocate.
Quel nome, come avevo previsto, suscitò subito commenti e risatine. In molti lo ripeterono, ammettendo che suonava bene. Il più sfrontato, giocando con le parole, disse che avrebbe voluto “vederla”. Non capii, e gli chiesi cosa intendesse. Con un sorriso insolente rispose che avrebbe voluto vedere la mia Passera. La battuta scatenò un divertimento complice tra i compagni.
Ci volle un po’, ma alla fine, battendo le mani e alzando la voce, riuscii a riportare l’ordine. Per venti minuti filati, dimenticando Rosario, improvvisai una lezione di finanza. La maggior parte non aveva idea di cosa stessi parlando, eppure tutti pendevano dalle mie labbra, accese quella mattina da un rosso brillante di lip plumper.
Ma non erano le nozioni a catturare i loro sguardi. Era il seno pieno e sostenuto, intrappolato nel pizzo del reggipetto che si intravedeva sotto la trasparenza della camicetta. La mia voce spiegava concetti astratti, ma la loro attenzione era inchiodata a un’altra lezione, silenziosa e non scritta, che sembrava impartirgli il mio corpo
Resami conto di quanto fossi esposta ai loro sguardi, provai un certo imbarazzo. Cercai di porvi rimedio indossando la giacca che pendeva dalla sedia, ma ne seguì un moto di protesta, rumoroso e compatto, a cui dovetti arrendermi. Era inevitabile.
Appoggiata contro la scrivania, vidi alcuni dei ragazzi più maturi e sicuri alzarsi e avvicinarsi. Mi circondarono, fissandomi con occhi che non avevano nulla di amichevole. Non provai paura: al contrario, quella sfida mi divertiva.
A loro modo erano gentili, divertenti, sfrontati, diretti. Il discorso si fece presto confidenziale, perdendo ogni valore accademico e dissolvendo il rispetto dei ruoli.
Fu allora che uno di loro, con un sorriso malizioso e la curiosità febbrile di chi cerca un segreto, si avvicinò alla mia ventiquattrore. La aprì con un gesto rapido, quasi teatrale, e rimase immobile, gli occhi spalancati. Non erano scartoffie né penne quelle che vide, ma oggetti che non appartenevano certo al mondo della scuola.
Il clamore fu immediato: sedie che strisciavano sul pavimento, corpi che si accalcavano, voci che si sovrapponevano. L’intera classe si precipitò attorno alla scrivania, come spettatori davanti a un sipario improvvisamente sollevato. Io, inchiodata al centro della scena, sentii il calore salirmi alle guance, il cuore accelerare, le mani cercare invano di recuperare gli oggetti che mi venivano sottratti.
I ragazzi riconobbero subito quei gingilli, eppure li nominavano con goffaggine, ridendo, confondendo termini, inventando significati e lo scopo. La loro ignoranza , dovuta all’inesperienza era palese, ma non bastava a dissolvere il mio imbarazzo. Ogni risata era un riflettore puntato su di me, ogni sguardo un giudizio accompagnato da etichette che in parte, non mi appartenevano.
Eppure, sotto quel rossore, non ero del tutto innocente. Una parte di me, seppur riluttante, trovava divertente quella scena: il potere di essere al centro, di tenere sospesa la loro attenzione, di trasformare l’aula in un teatro dove io stessa, recitavo la parte principale mentre tra le mia gambe il fervore cresceva.
C'era, spray, lubrificanti, lozioni, manette imbottite per i polsi e le caviglie, un Magic Wand con la testa rotante, un Rabbit rosa per la doppia stimolazione, un enorme dildo in lattice viola con ventosa, e dei plug anali di varie dimensione e in un sacchetto ermetico, di quelli in cui le persone normali ci metterebbero un sandwich per uno spuntino, io ci tenevo delle mutandine di riserva. Cercando di contenere il loro entusiasmo, mi resi disponibile a spiegare la funzione di ognuno di quegli oggetti. Usai la mano come metafora: il palmo per evocare una stimolazione esterna, il pugno per imitare una penetrazione, lo spazio tra le dita per pratiche che richiedevano più precisione. Ogni gesto era una simulazione, un segno, un linguaggio che non aveva bisogno di ulteriori chiarimenti.
I ragazzi mi osservavano in silenzio, i loro occhi fissi su di me, i respiri corti e irregolari. La loro eccitazione, riflessa nei miei movimenti, accendeva anche la mia. Le mie parole, appena sussurrate dall’emozione, sembravano galleggiare nell’aria, interrotte solo dal ritmo dei loro sospiri.
Un brivido mi attraversò da parte a parte: non era soltanto imbarazzo, ma la consapevolezza di aver varcato una soglia, di aver trasformato la lezione in un rito segreto, condiviso e irripetibile.
Poi, improvviso, inatteso, fu come se venissi trafitta dal basso, nella carne e nell’anima. Uno di loro aveva trovato, in una tasca della valigetta, il telecomando che azionava l’ovetto vibrante ospite della mia vagina, forse un po’ incauto, forse in maniera deliberata, lo attivò alla massima intensità. Il gemito mi sfuggì senza controllo, la schiena si inarcò, la bocca si spalancò e si serrò, fino a farmi digrignare i denti, mordendo l’aria. Colta di sorpresa, sentii l’imbarazzo farsi brivido, l’eccitazione prendere il sopravvento e guadagnare il posto che meritava.
Mentre ero pietrificata, offerta al loro giudizio, uno dei ragazzi con gesto rude, strappò la mia camicia facendo saltare tutti i bottoni e esponendo il seno.
Provai a coprirmi, incapaci di accettare il mio rifiuto, mi tennero le mani e indelicati, inesperti, ma desiderosi di fare quella esperienza saggiarono la sua consistenza, il suo volume ,il suo peso ,studiando le reazioni che mi provocavano le loro sollecitazioni.
Ma il mio supplizio non era terminato, perché anche l'altro era finito nelle mani di un secondo ragazzo, anche quello attivato al massimo dell'intensità e ora vibrava feroce tra le pareti strette del mio ano. Stavo perdendo il controllo. Provai ad alzarmi, nel tentativo di sottrarre i dispositivi ai due, ma una nuova scossa, ancora più intensa, mi costrinse ad arrendermi. Il corpo cedette, finii piegata in avanti, il busto disteso sulla scrivania. Gli occhi si rovesciarono all’indietro, la bocca spalancata, la lingua di fuori: il mio volto era quello dell’eros, sospeso tra vergogna e lussuria, come se la ragione fosse stata improvvisamente esiliata.
Incapace di reagire, rapita dall'improvvisa estasi, lasciai che qualcuno dietro di me sollevasse l'orlo della mia gonna fino ai fianchi.
Una moltitudine di mani, presero a giocare con la mia carne esposta, ed esponendo quel poco che restava celato sotto la biancheria intima.
Il ronzio persisteva, interrotto di tanto in tanto dai miei gemiti sommessi e dal mormorio dei ragazzi.
Qualcuno mi costrinse i polsi nelle manette, Le mie mutandine furono calate fino alle caviglie, io ero pronta a cedere ai loro bisogni e al mio. Ormai, eravamo pronti a proseguire lungo la strada che si aprisse davanti a noi e sembrava l'unica percorribile, ma proprio nel momento in cui il gioco si sarebbe dovuto trasformare in un atto reciproco di concessioni e pretese, una voce ruppe l'incanto.
Era Rosario. L'ora era finita e lui veniva a dare il cambio alla professoressa assente, di cui avevo usurpato il posto. Pensandomi vittima degli eventi, corse a soccorrermi.
Sbraitando, ma evitando di urlare per non attirare troppo l'attenzione dell'istituto, forse volendo evitare uno scandalo, cacciò via gli alunni dall'aula. Ci volle tutto il mio impegno per fargli capire che non c'era stato alcun abuso, ma solo un piacevole consenso.
Quando finalmente si calmò, mi sorrise, realizzando che quello che era appena avvenuto, lo avevo preparato per lui e ne fu lusingato, anche se amareggiato, visto che qualcuno era arrivato prima a mettere le mani sul suo "regalo".
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