Sulla pelle di Eva XVII

di
genere
confessioni

Quando ero solo una ragazzina, sulla strada che da scuola mi riportava a casa, passando per il parco, incontravo tutti i giorni il vecchio Giona. divenne una consuetudine portata avanti per anni. All’inizio non ne avevo compreso la condizione, ma Giona era un senzatetto. Mi sembrava solo un signore anziano, solitario e silenzioso, che passava la noia delle giornate al parco. Giona se ne stava sulla sua panchina, nel punto più remoto del parco, sempre la stessa, leggendo un giornale, dormendo, rovistando nel bidone li vicino, dando da mangiare ai piccioni. Ignorava tutti e tutti ignoravano lui, tranne una ragazzina troppo sensibile alla sofferenza degli altri, in cui spesso riconosceva la sua, per poterne rimanere indifferente. Fu più forte di me: quell’uomo mi incuriosiva, volevo sapere qualcosa di lui, ma non osavo avvicinarmi. I suoi lineamenti erano quelli di un uomo trascurato, in la con gli anni, solo, che conservava nello sguardo, dolore, malinconia , perdita. Erano tratti duri, di un uomo, eppure qualcosa di più fragile ,di morbido, come le sue labbra, sembravano quasi delicati. Lunghi e folti erano i suoi capelli grigi che teneva spesso nascosti sotto a un berretto o trattenuti dietro la testa con un elastico, dettagli molto simili a quelli, femminei, di una donna. Indossava sempre gli stessi abiti , più che altro, comode tute sporche, e spesso, che fosse il caldo dell’estate a prendere il sopravvento o il gelo dell’inverno a pretendere attenzione, sopra di essi portava un paltò grigio, lungo fino alle ginocchia, chiuso fino al collo, come se sotto stesse nascondendo qualcosa di cui non poteva disfarsi e, che non voleva mostrare a nessuno: un segreto, una colpa. Realizzai ,con il passare del tempo che quell’uomo non era solo un ospite di quel parco, un avventore, Giona ci viveva, trovando tra i pioppi e le querce la sua dimora. Un giorno, non so bene perché, decisi di sedermi sulla panchina vicino a lui. L’estate non era ancora iniziata eppure, faceva già sentire la sua presenza. Quell’anno, con un anno di ritardo rispetto alle mie compagne di classe, avrei sostenuto l’esame di maturità. Era una domenica mattina come tante altre. Mia madre, come ogni weekend, aveva un nuovo ospite nella sua camera e io, per evitare di assistere all’ennesimo patetico teatrino di lei che si umiliava nella speranza di far restare almeno un uomo più a lungo nel suo letto, avevo reagito come facevo di solito. Così, messe le mie sneaker, i pantaloncini, la canotta e il perizoma come mio unico indumento intimo, ero andata a correre. Ho sempre amato farlo. L’attività fisica, l’atletica nella quale avevo raggiunto anche alcuni traguardi a livello agonistico, era l’unica cosa in cui mi impegnavo sul serio, insieme allo studio. Avevo perso un anno al liceo nonostante i voti eccellenti, solo perché mia madre, dopo essere andata a letto con metà dei docenti e dei genitori del mio istituto, condizionando di riflesso il giudizio che gli altri avevano su di me, mi aveva costretto a cambiare scuola. Ma lo sport, quello no, mia madre non poteva portarmelo via. L’avevo sempre tenuta lontano dalla mia pista di atletica, dai ragazzi e ragazze che si allenavano con me e dai miei allenatori. Correre era il mio rifugio, il mio momento di assenza, lontano da tutti, lontano da lei, ma quella mattina, qualcosa nello sguardo di Giona, mi fece abbandonare il mio bisogno di pensare a me stessa e domandarmi cosa deformasse i lineamenti di quell’estraneo, diventato cosi familiare. Vicino a dove Giona stava seduto, c'era una fontanella e quello fu la mia scusa per fermarmi e osservarlo. Lo sguardo dell'uomo sembrava perso nel vuoto, nei rimpianti, i suoi occhi , velati dalle lacrime, qualcosa mi serrò la bocca dello stomaco. Non sapendo come rompere il ghiaccio, come avvicinarmi, lasciai che fosse il mio corpo a parlargli, ma quella volta, non fu il mio solito bisogno di esibizionismo a spingermi, fu più che altro il tentativo di aprire una comunicazione. I pantaloncini e la canotta, erano corti, aderenti, fatti di un tessuto leggero, che serviva a favorire i movimenti, a far respirare la pelle, e immancabilmente, per attirare gli sguardi di chi mi incontrava.
il sudore correva lungo il mio corpo e ne segnava il tessuto impregnato, scurendolo sotto al seno e tra le mie gambe. Ci volle un po ' ,tra esercizi di stretching e ansimi studiati per attirare gli sguardi ,ma alla fine riuscii finalmente ad ottenere la sua attenzione, a cui si accompagnò quella di molti altri passanti. Mentre stavo china offrendogli un amplia visione del mio fondoschiena, mantenendo la posizione in modo che il panorama fosse goduto il più a lungo possibile, Giona mi guardava in un misto tra compiacimento e rimpianto, come se stesse ammirando qualcosa che gli era appartenuto e avesse perduto. Poi , forse sentendosi osservato, i suoi occhi si spostarono dalle mie natiche al mio viso, li lo accolsi con un sorriso, cercando di mostrarmi, amichevole, disponibile, ma manifestando un certo imbarazzo, lui ne fuggì voltando il viso altrove. Lo stavo perdendo, era necessaria una azione più diretta, nel marsupio da running che tenevo legato ai fianchi ,tra le chiavi di casa e dell’auto, lo smartphone e dei preservativi, avevo due barrette energetiche ai cereali, questi ultimi sarebbero stati l'esca al mio amo. La panchina su cui era seduto Giona era l'unica presente nel vialetto, quindi apparve logico andarsi a sedere affianco a lui, in cerca di una piccola pausa. Giona cercò di ignorarmi, mentre mi sedevo, l'odore era forte, pregnante, l'odore di un uomo che non vede del sapone da parecchio, ma mi dissi che nemmeno io dopo più di un ora di attività fisica in una mattina che preannunciava una delle giornate più caldi dell'anno, non dovevo avere un odore piacevole, ignorando che, come mi avrebbe confessato più avanti, ne era rimasto inebriato. Stavo seduta accanto a lui, cercando di sembrare rilassata, a mio agio, sbirciando le sue reazioni, mentre mi stiracchiavo esponendo maliziosamente il seno, facendo scivolare le mani lungo le cosce, picchiettando i palmi sui miei addominali definiti dall’agonismo. Giona, ne era tentato ,si vedeva, ma non si concedeva altro che uno sguardo furtivo, rapido, come se non avesse il coraggio di andare oltre. Tirai fuori le due barrette energetiche dal marsupio, ne aprii una e la divorai davanti a lui, poi senza dire una sola parola, gli offrii l'altra. L'uomo esitò ma, vedendo che non ritiravo l'offerta, la prese. La mangiò lentamente, le barrette non hanno un sapore ricco, invitante, ti ci devi abituare, ma sembrò ,tra i cereali e i frammenti di frutta essiccata e il miele, incontrare il suo gusto. Cominciammo a parlare, frasi monografiche, brevi, telegrafiche, Ci presentammo ,scoprendo l’una il nome dell’altro.
Parlammo a lungo mentre in molti ci avevano notato, incuriositi dalla strana coppia che eravamo.
Mi disse molte cose anche se io ,per rispetto verso la sua condizione non feci molte domande, fu lui a parlare, come se sentisse il bisogno di raccontarsi, di giustificarsi. Era stato professore in un liceo della città, viveva nel parco da cosi tanto tempo da aver dimenticato da quanto. Aveva perso tutto, quando si era convinto a mostrarsi al mondo per ciò che sentiva di essere ma, il mondo non era pronto a lui e lo aveva rifiutato, ferito, allontanato. L'amarezza, il trauma di quella sconfitta, l'aveva portato ad cercare rifugio lontano ,a vivere al margine della società a tagliare ogni possibile contatto umano, fino a trasformare il suo volto da noto ,ad anonimo. Mi confessò che ero la prima persona con cui parlava da mesi, l'ultima era stata una volontaria della croce rossa, l'inverno scorso, che gli aveva portato una coperta e un pasto caldo, poi nulla più. Aveva una tenda, tra le siepi e gli alberi, non lontano da li, era casa sua, il suo rifugio anche se non sempre sicuro. Spesso doveva confrontarsi con gli altri senza tetto che cercavano , con la violenza, di rubargli quelle poche cose che aveva, che gli restavano, o la polizia locale che cercava in malo modo di allontanarlo da quel luogo, anche se giurava di non aver mai infastidito nessuno. Lui caparbio e consapevole che non aveva dove andare , tornava in quel luogo per restare. Quel suo racconto mi commosse, gli chiesi di vedere la sua tenda, l'uomo non mi sembrava una minaccia, anche se il suo aspetto, dovevo ammettere, poteva inquietare. Un grosso orso stanco e avvilito, ecco a cosa mi fece pensare. Giona si rifiutò, io non insistetti, poi qualcosa cambiò in lui e dopo un lungo periodo di silenzio mi chiese se non avessi cambiato idea.
Mentre mi faceva strada tra gli arbusti, la spazzatura abbandonata e l'erba alta in quello che sembrava un sentiero nato dal continuo passaggio di chi sa quanti disperati come lui, ci teneva a precisare, che non c'era molto da vedere e che in qualunque istante, mi sarebbe stato sufficiente chiederlo, per riportarmi indietro, lo rassicurai che sarei andata fino in fondo con lui. Arrivammo in un piccolo spazio tra gli alberi e il fianco di una massicciata sopra la quale correva una strada trafficata. Al centro c'era una vecchia tenda canadese, verde oliva, non enorme , piuttosto malconcia, ma abbastanza grande da ospitare almeno due persone, di lato quello che sembrava una cucina da campo improvvisata, tutto attorno una piccola discarica , una vecchia sdraio, un passeggino che trasportava uno stereo portatile del secolo scorso, ma che con mia grande sorpresa scoprii funzionante, un divano di pelle due posti che aveva visto tempi migliori, e un mare oggetti di ogni genere, robaccia ai miei occhi ma ,che supposi, fossero per Giona le sue uniche proprietà, il suo tesoro. Allargando le braccia mi disse che quello era il suo regno, non c'era orgoglio nella sua voce, forse rammarico, ma di quel tipo privo di amarezza, di chi ormai si è abituato alla sua condizione. Sentendosi in dovere di ricambiare la mia disponibilità ,la mia gentilezza, non solo nel aver condiviso con lui la mia barretta ,ma per avergli regalato le attenzioni che non riceveva da tempo, mi chiese se volevo bere qualcosa e senza aspettare una mia risposta, dopo essere sparito per alcuni secondi nella sua tenda, ne riemerse tenendo in mano , quella che era una bottiglia di vodka mezza vuota. Ne bevve un sorso abbondante e poi la offrii a me. L'idea di mettere la mia bocca al collo di quella bottiglia, dove c'era appena stata la sua, e chi sa quella di chi altro, mi repulse ma, non volendo essere scortese, pensando che comunque l'alcol avrebbe fatto da antisettico, cercando di avere il sorriso più sincero e nascondere l’imbarazzo, accettai la sua offerta. Ma mentre bevevo, con l'intento di farne solo un piccolo sorso, Giona mi colse di sorpresa e sollevando in alto la bottiglia, mi costrinse ,mio malgrado a berne ben più del previsto, quasi a svuotarla del tutto.
Gli effetti dell'alcol nello stomaco si fecero subito sentire di li a poco nel mio corpo, cosi poco avvezzo ai suoi fumi, mi rese disponibile ,aperta.
La confidenza tra noi, divenne intima, ci sedemmo sul divano, dove Giona scoprii quanto elastiche ,morbide e sode fossero le curve del mio corpo, e di li a poco, mostrandomi come, avendogli lasciato libertà di accesso ad esse, favorivo in lui la reazione naturale della propria mascolinità.
Fu allora, mentre si liberava del paltò grigio che fino a quel momento lo aveva protetto, che mi accorsi di come il dolce vita aderisse al torace, rivelando una pienezza inattesa. Ecco il segreto che il mondo aveva marchiato come colpa, come abominio, negandole il diritto di essere ciò che sentiva: una donna. Una donna che aveva continuato ad amare altre donne. Nel suo corpo, nell’urgenza , della propria erezione, che non cercava di nascondere, si manifestava il bisogno di essere accolta, ammirata, desiderata
Giona ,mi fece capire il desiderio di vedere la mia bocca incontrare il suo sesso, Lo guardai, cercando di celare non l’imbarazzo, ma il disagio di assecondare quella richiesta. Non era un pregiudizio a frenarmi, bensì la sensazione che non avesse grande cura di sé, e che il suo corpo portasse i segni di quella trascuratezza. Colse il mio turbamento e, pur di ricevere quell’attenzione, afferrò la bottiglia di vodka e ne versò le ultime gocce, come a voler improvvisare una purificazione.Non era certo un rimedio efficace, ma parve bastare.
Sorrisi, vinta dal suo bisogno e da una strana generosità, e lasciai che la mia bocca diventasse rifugio della sua urgenza.
L’odore acre di alcol e sudore mi trafiggeva le narici, colmando la gola più di quanto facesse la sua stessa presenza. Travolta da un vortice di emozioni, lasciai che fossero l’esperienza e la volontà a guidarmi, e in breve tempo Giona raggiunse l’estasi tra le mie labbra.
Ritrovata la calma, rimanemmo a parlare. Il suo sapore ancora mi impregnava il palato. Mi raccontò di quanto fosse stato difficile, ai suoi tempi, mostrarsi al mondo: degli insulti subiti, delle crudeltà provate sulla propria pelle. Io rimasi ad ascoltarlo, senza giudizi né remore. Quando Giona scoprì che nel mio marsupio conservavo tre preservativi, mi chiese perché portassi con me quella dotazione. Timida, imbarazzata, indossando una veste che forse non mi apparteneva più, e costretta dall’alcol a dire la verità, gli risposi che a volte avevo necessità che andavano appagate. Lui sorrise. L’uomo fragile, spezzato, bisognoso di attenzioni che avevo visto fino a poco prima, l’orso stanco e avvilito, sembrava dissolto. Nei suoi occhi rividi lo sguardo di tanti altri che avevo incontrato prima di lui. Mentre le sue mani scorrevano su di me, leggere e precise, a volte appena un sfiorarmi e subito dopo più aggressive accrescendo la tensione delle mie reazioni. Mi convinse che sarebbe stato un peccato lasciar andare quel momento. Sorrisi, intuendo dove volesse condurmi: non fu l’alcol a spingermi nella sua tenda, ma la voglia di vivere quell’esperienza, il bisogno di placare la serpe che mi agitava tra le gambe. il cui veleno mi bagnava le mutandine. No, Non fu l’alcol a spingermi verso di lui, ma la voglia di vivere quell’esperienza. Non avevo pregiudizi, né esitazioni: davanti a me c’era un altro essere umano, che chiedeva di sentirsi desiderato, di essere accolto, e io decisi di lasciarmi andare, di condividere con lui la passione della carne e il movimento delle nostre anime.
Prima di abbandonarci all’amplesso, Giona mi mostrò il suo tesoro più grande: una valigia che custodiva pochi abiti da donna, frammenti di una natura vissuta a metà, o almeno tentata. Gloria ,così aveva scelto di chiamarsi, come io avevo scelto Eva , si era scontrata con la realtà di un mondo che la odiava soltanto per il fatto di esistere. Fu istintivo chiedergli di indossare qualcosa, di farmi conoscere Gloria. Mi guardò come se lo avessi sfidato, poi, muovendosi nel poco spazio che avevamo, mentre io mi spogliavo, mise l’unica parrucca e un abito a fiori. Lo osservai e gli dissi che era bellissimo. Lui sapeva che non era vero, i fasti di Gloria erano ormai un’eco lontana, ma mi ringraziò comunque. Dopo, stesi nel suo giaciglio, ci prendemmo mettendo da parte il mondo per un istante. Mentre lo stringevo tra le mie cosce e lui si spingeva dentro di me, per tre volte ci incontrammo, quanti erano i preservativi che avevo con me. Sentii che Gloria non era soltanto un ricordo, quando mi chiese di concedermi per un ultima volta senza protezione, corsi il rischio e quel ricordo divenne una presenza viva, divenne spirito, liquido, caldo denso, che veniva iniettato dentro di me e mi riempiva, veniva sparso tra le mie gambe, sul mio ventre glabro, sui mie slip appena spostati di lato, sentii che Gloria era viva tra noi.
scritto il
2025-12-04
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