La gabbia di Isabella (parte 1)
di
Kugher
genere
sadomaso
Isabella era stesa sul letto, di schiena.
Le manette erano state strette un po’ troppo intorno ai suoi polsi. Se ne era accorta subito quando Marco le aveva chiuse, ma in quel momento era attratta dall’evidente eccitazione dell’uomo, intento a compiere quell’atto di dominio su di lei, sensazione che attraverso l’acciaio le arrivava nell’anima e nella figa.
Marco era così, da sempre, almeno per lei. Aveva il potere, o la capacità, di trasmetterle eccitazione in tutto quello che faceva di erotico. Questo sopperiva anche al suo sovrappeso e al suo aspetto fisico non particolarmente attraente.
Quando facevano sesso, lui era in grado di eccitarla, e così anche quella sera, quando con decisione le fece sentire il rumore di quello strumento che si chiudeva su di lei confermandole il suo ruolo di schiava.
Probabilmente, se si fosse lamentata, avrebbe ingenerato in lui non pietà ma, bensì, ulteriore eccitazione, senza portarlo ad allentare ciò che ormai evidentemente considerava come azione conclusa.
Silente, si fece trascinare sul letto, tirata per la catena attaccata al centro delle manette.
Forse avrebbe dovuto dirglielo, lamentarsi, fargli notare che l’acciaio già segnava le sue carni. Avrebbe così ottenuto di poter osservare quella scintilla di dominio nei suoi occhi che si sarebbe trasmessa istantaneamente alla sua figa.
Aveva invece deciso di tacere e seguire la volontà dell’uomo al quale si era donata.
Le braccia erano tirate indietro. La catena era stata attaccata con il moschettone alla testiera in ferro del letto. Era grosso, quel moschettone, più del necessario, ma le dimensioni e la molla consentivano a Marco di sentire il suono della chiusura, dell’acciaio che sbatte contro altro acciaio, precisando a lui e alla schiava di turno che era come se si fosse chiuso un lucchetto, una catena intorno al collo, una gabbia, una porta di ferro nelle segrete.
Marco l’aveva poi presa per le caviglie e tirata in senso opposto alla testiera, per metterla in trazione e farle sentire la prigionia, l’acciaio che si tendeva sul ferro della testiera provocando quel rumore di ferraglia che odora di schiavitù, di dominio, di sottomissione, di sadomasochismo, di prigionia.
Isabella si sentiva tirata e aveva dolore perchè, al solito, l’uomo non aveva avuto cura, anzi, aveva fatto ricorso a una forza maggiore di quanto sarebbe occorsa.
Si sentiva tirata, si sentiva in quella gabbia che quel moschettone le aveva dato la sensazione di avere chiuso.
L’uomo, il Padrone, si era messo cavalcioni su di lei, proprio sul suo petto, sulla parte dove maggiormente faceva fatica a reggerlo perchè pesava sulla cassa toracica, comprimendo il respiro e alimentando quella sensazione di gabbia mentre i polsi erano doloranti e le braccia tirate indietro.
Le cosce dell’uomo erano attorno al suo viso. Le palle appena sotto il mento ed il cazzo duro proiettato verso l’alto, quale primo orizzonte dello sguardo della schiava che respirava a fatica.
Eccolo, quello sguardo, quello che la eccitava, quello che le trasmetteva senso di dominio e, specularmente, senso di sottomissione, anzi, di schiavitù vera e propria.
La forza degli atti era utile per creare una situazione forte, che le faceva vivere una sensazione di possesso totale.
Marco era indietreggiato appena, sempre seduto sul suo petto.
Con la grossa mano le aveva avvolto il collo. Strinse appena, non tanto da farle mancare il respiro, abbastanza per farle sentire la morsa del potere altrui, mentre quegli occhi entravano nei suoi ed i lunghi capelli dell’uomo gli circondavano il viso dando alla penombra creata, un maggior risalto agli occhi.
Uno schiaffo la colpì in volto, inutile per punirla di qualcosa che non aveva fatto, utile per dare a lui il piacere dell’atto fine a sé stesso ed al suo piacere.
Istintivamente contrasse il corpo provocando il rumore dell’acciaio del moschettone sul ferro del letto.
Probabilmente questo eccitò maggiormente l’uomo, o forse no, lo era già abbastanza di suo, un piacere che volle ulteriormente alimentare con un altro schiaffo, sulla stessa guancia ma di forza maggiore.
Isabella si sentiva il petto schiacciato, la guancia in fiamme, i polsi stretti, la figa che pulsava, al punto da essersi dimenticata di Sonia, la giovane e nuova schiava di Marco.
Più che nuova, recente. L’aveva già incontrata un paio di volte ma, probabilmente, lui l’aveva presa già da un po’ di tempo.
Non gli aveva chiesto nulla. Non le interessava da quanto tempo la frequentasse. Non le interessava il fatto che ce l’avesse, in aggiunta o in futura sostituzione. Le interessava solo quel pulsare della figa che le avea fatto dimenticare la biondina inginocchiata a terra, spettatrice dell’eccitazione sua e del Padrone, con quel cazzo duro che aveva davanti agli occhi, quasi sulla faccia, dopo che l’uomo si era ulteriormente spostato in avanti, avvolgendole il capo tra le sue cosce sudate, privandola dell’udito.
Osservando gli occhi del Padrone, le parve di vedere le labbra che si muovevano, ma non lo sguardo che si voltava verso Sonia, i cui polsi erano ammanettati davanti, posati sul grembo quando l’aveva vista mettersi in ginocchio, seduta sui talloni, prima che lei fosse trascinata su letto presa per i capelli.
Le manette erano state strette un po’ troppo intorno ai suoi polsi. Se ne era accorta subito quando Marco le aveva chiuse, ma in quel momento era attratta dall’evidente eccitazione dell’uomo, intento a compiere quell’atto di dominio su di lei, sensazione che attraverso l’acciaio le arrivava nell’anima e nella figa.
Marco era così, da sempre, almeno per lei. Aveva il potere, o la capacità, di trasmetterle eccitazione in tutto quello che faceva di erotico. Questo sopperiva anche al suo sovrappeso e al suo aspetto fisico non particolarmente attraente.
Quando facevano sesso, lui era in grado di eccitarla, e così anche quella sera, quando con decisione le fece sentire il rumore di quello strumento che si chiudeva su di lei confermandole il suo ruolo di schiava.
Probabilmente, se si fosse lamentata, avrebbe ingenerato in lui non pietà ma, bensì, ulteriore eccitazione, senza portarlo ad allentare ciò che ormai evidentemente considerava come azione conclusa.
Silente, si fece trascinare sul letto, tirata per la catena attaccata al centro delle manette.
Forse avrebbe dovuto dirglielo, lamentarsi, fargli notare che l’acciaio già segnava le sue carni. Avrebbe così ottenuto di poter osservare quella scintilla di dominio nei suoi occhi che si sarebbe trasmessa istantaneamente alla sua figa.
Aveva invece deciso di tacere e seguire la volontà dell’uomo al quale si era donata.
Le braccia erano tirate indietro. La catena era stata attaccata con il moschettone alla testiera in ferro del letto. Era grosso, quel moschettone, più del necessario, ma le dimensioni e la molla consentivano a Marco di sentire il suono della chiusura, dell’acciaio che sbatte contro altro acciaio, precisando a lui e alla schiava di turno che era come se si fosse chiuso un lucchetto, una catena intorno al collo, una gabbia, una porta di ferro nelle segrete.
Marco l’aveva poi presa per le caviglie e tirata in senso opposto alla testiera, per metterla in trazione e farle sentire la prigionia, l’acciaio che si tendeva sul ferro della testiera provocando quel rumore di ferraglia che odora di schiavitù, di dominio, di sottomissione, di sadomasochismo, di prigionia.
Isabella si sentiva tirata e aveva dolore perchè, al solito, l’uomo non aveva avuto cura, anzi, aveva fatto ricorso a una forza maggiore di quanto sarebbe occorsa.
Si sentiva tirata, si sentiva in quella gabbia che quel moschettone le aveva dato la sensazione di avere chiuso.
L’uomo, il Padrone, si era messo cavalcioni su di lei, proprio sul suo petto, sulla parte dove maggiormente faceva fatica a reggerlo perchè pesava sulla cassa toracica, comprimendo il respiro e alimentando quella sensazione di gabbia mentre i polsi erano doloranti e le braccia tirate indietro.
Le cosce dell’uomo erano attorno al suo viso. Le palle appena sotto il mento ed il cazzo duro proiettato verso l’alto, quale primo orizzonte dello sguardo della schiava che respirava a fatica.
Eccolo, quello sguardo, quello che la eccitava, quello che le trasmetteva senso di dominio e, specularmente, senso di sottomissione, anzi, di schiavitù vera e propria.
La forza degli atti era utile per creare una situazione forte, che le faceva vivere una sensazione di possesso totale.
Marco era indietreggiato appena, sempre seduto sul suo petto.
Con la grossa mano le aveva avvolto il collo. Strinse appena, non tanto da farle mancare il respiro, abbastanza per farle sentire la morsa del potere altrui, mentre quegli occhi entravano nei suoi ed i lunghi capelli dell’uomo gli circondavano il viso dando alla penombra creata, un maggior risalto agli occhi.
Uno schiaffo la colpì in volto, inutile per punirla di qualcosa che non aveva fatto, utile per dare a lui il piacere dell’atto fine a sé stesso ed al suo piacere.
Istintivamente contrasse il corpo provocando il rumore dell’acciaio del moschettone sul ferro del letto.
Probabilmente questo eccitò maggiormente l’uomo, o forse no, lo era già abbastanza di suo, un piacere che volle ulteriormente alimentare con un altro schiaffo, sulla stessa guancia ma di forza maggiore.
Isabella si sentiva il petto schiacciato, la guancia in fiamme, i polsi stretti, la figa che pulsava, al punto da essersi dimenticata di Sonia, la giovane e nuova schiava di Marco.
Più che nuova, recente. L’aveva già incontrata un paio di volte ma, probabilmente, lui l’aveva presa già da un po’ di tempo.
Non gli aveva chiesto nulla. Non le interessava da quanto tempo la frequentasse. Non le interessava il fatto che ce l’avesse, in aggiunta o in futura sostituzione. Le interessava solo quel pulsare della figa che le avea fatto dimenticare la biondina inginocchiata a terra, spettatrice dell’eccitazione sua e del Padrone, con quel cazzo duro che aveva davanti agli occhi, quasi sulla faccia, dopo che l’uomo si era ulteriormente spostato in avanti, avvolgendole il capo tra le sue cosce sudate, privandola dell’udito.
Osservando gli occhi del Padrone, le parve di vedere le labbra che si muovevano, ma non lo sguardo che si voltava verso Sonia, i cui polsi erano ammanettati davanti, posati sul grembo quando l’aveva vista mettersi in ginocchio, seduta sui talloni, prima che lei fosse trascinata su letto presa per i capelli.
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