La pianista (parte 4)

di
genere
sadomaso

Sophie si era esercitata al pianoforte tutto il giorno ma non era soddisfatta della sua prestazione.
Aveva iniziato con un esercizio semplice. Il suo obiettivo era arrivare a compiere esercizi complicati che la tenessero concentrata.
Alla fine abbassò la protezione della tastiera. Con un gesto di stizza la rialzò quando si accorse che aveva dimenticato il panno che solitamente metteva sui tasti. Era una sua abitudine da anni che le era divenuta automatica ma che quel giorno aveva dimenticato.
Era arrabbiata con sé stessa. Non voleva permettere a Gabriel di avere il potere di distrarla e, così, di esserle dentro più di quanto avrebbe pensato quando aveva appositamente sbagliato la nota.
Schiava per una notte. Lui avrebbe potuto fare di lei tutto ciò che avrebbe voluto.
A questo si era autocondannata. Quando aveva commesso l’errore aveva pensato di farsi un regalo di emozioni. Nel momento in cui uscì dal bagno caldo nel tentativo di rilassarsi, si maledì per avere ceduto a sé stessa.
Cazzo, schiava!
Tante volte, quando aveva dominato quei maschi a caso che le si cedevano colpiti dalla sua bellezza e dalla sua fama, si era chiesta cosa provassero. Le era capitato di scoprirsi a pensare a sé stessa dall’altra parte del guinzaglio e della frusta.
Qualche volta si era anche masturbata con il getto della doccia diretto sul clitoride, immaginadosi in potere di altra persona, ma allontanando subito tali pensieri una volta avuto l’orgasmo.
Aveva combattuto con sé stessa per tutta l’esibizione al pianoforte, quando, seduta sul cazzo durissimo di quel ragazzo, continuava a pensare cosa avrebbe potuto accadere se avesse sbagliato.
Era riuscita a mantenere il controllo delle sue capacità ed aveva eseguito una sonata che ad un pubblico non esigente sarebbe apparsa perfetta, ma che lei sapeva non essere alla sua altezza. Avrebbe definito quella interpretazione come opaca, spenta, annebbiata, come se l’anima volesse una cosa, ma le dita ne suonassero un’altra, come se sapessero che l’anima era combattuta e questo non rendeva limpida la prestazione.
Era tutto nelle sue dita e nella sua anima.
Quando sbagliò la nota appositamente non seppe se la volontà fosse delle dita o dell’anima.
La sua mente, il suo corpo, il suo stomaco, la sua figa erano in subbuglio quando entrò in quella casa che la accolse con luci tenue e soffuse, come a sottolineare la zona d’ombra dell’anima nella quale si sarebbero mossi, né luci, né tenebre, ma in quella zona di confine che sconvolge dentro.
L’attesa le parve lunga, infinita quando, inginocchiata in mezzo alla sala, ebbe l’ordine di stare ferma, nuda, con quella cazzo di benda che le impediva di avere almeno il controllo visivo e quelle cazzo di orecchie che amplificavano all’infinito i rumori che la circondavano ed ai quali dava significati che si riflettevano sempre sulla sua figa e sul suo stomaco.
Prima un silenzio assurdo che le rimbombava nella testa. Poi i passi di Gabriel intorno a lei, come se fosse incatenata ad un palo in mezzo ad un accampamento e gli indigeni le danzassero intorno anticipando un rito del quale lei era all’oscuro.
Il sibilo che sentì le entrò nella testa.
“Ferma!”.
Non si era nemmeno accorta di essersi mossa, sottratta, forse scappata.
La testa in subbuglio non le impedì di eseguire l’ordine imperioso e rimettersi in posizione.
Sapeva riconoscere perfettamente il sibilo del frustino nell’aria che, però, non l’aveva colpita ma solo anticipato ciò che sarebbe successo da lì ad un tempo che sembrò essere infinito.
La sua testa lottava con la sua figa che si bagnava dalla paura ma la teneva ferma in quella cazzo di posizione che le aveva anestetizzato anche il dolore alle ginocchia.
Quando il frustino la colpì fortemente in mezzo alla schiena, fece uno scatto in avanti e si prostrò a terra, come se la protezione del seno le facesse diminuire il dolore alla schiena.
Maledisse quel colpo che finalmente era arrivato sottraendola all’attesa che la snervava.
Si accorse che le era stato messo un collare quando si sentì tirare verso l’altro dal guinzaglio.
“Rimettiti in ginocchio!”.
Non ci pensò nemmeno lontanamente a fare qualcosa di diverso dal contenuto dell’ordine, quasi meccanicamente.
Gabriel le tolse la benda, lasciandola ferma, in ginocchio davanti a lui.
L’uomo si abbassò la cerniera e fece uscire un cazzo già duro.
Non ci fu bisogno di ordine in quanto, con l’automatismo imposto dalle esigenze dell’anima, si sporse in avanti per accogliere in bocca la virilità di colui che quella sera sarebbe stato il suo Padrone, avendo quale unico pensiero di farlo indurire ancor di più, mentre il dolore alla schiena prendeva altro sapore diffondendosi nel suo corpo.
di
scritto il
2025-07-11
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