La figlia del socio (parte 4)
di
Kugher
genere
sadomaso
Il tappeto sul quale la cagna venne riportata, ebbe almeno l’effetto di mettere qualcosa di quasi morbido sotto le ginocchia.
Solo la promessa di divertimenti nuovi e diversi fece abbandonare ai Padroni l’eccitazione nel vedere quella ragazza camminare a stento sul duro marmo del pavimento, lasciando alla loro immaginazione la natura dell’incerto procedere, se dettato dal dolore esterno o dal combattimento interno. Entrambi li avrebbero eccitati e, alternativamente, davano la responsabilità ai due motivi.
Al flogger venne affidato il triplice compito, quello di incentivare il progredire per vincere il dolore, quello di fare pressione sulle incertezze dell’anima e quello, molto più semplice, di eccitarli per il dolore inferto.
“Dritta in ginocchio”.
Il comando, sicuramente noto e chiaro in colui che l’aveva formulato, lasciò la schiava un po’ interdetta, così resto ferma, a quattro zampe, in attesa che il cervello, ancora in subbuglio per lo tzunami di sensazioni, elaborasse meglio la richiesta, muta per il timore di scatenare reazioni dolorose e in attesa di migliori chiarimenti.
Tuttavia i tempi del comando e di reazione vengono percepiti diversamente da chi impartisce l’ordine e chi lo deve eseguire.
“Dritta, stando in ginocchio ma non seduta sui talloni!”.
Un colpo di frustino ed una tirata verso l’alto del guinzaglio la incentivarono ad abbandonare l’inattività e a cercare la posizione desiderata da altri.
“Brava, vedi che impari in fretta”.
Nessuna carezza accompagnò quel riconoscimento, carezza che Micaela si scoprì a desiderare, come se fosse una prima mano tesa dopo essere stata gettata nel buco del desiderio oscuro al quale lei stessa si era affidata.
“Incrocia le mani sulla testa”.
La schiava capì subito dopo che la postura ordinata non era volta a esporre i seni, come al momento in cui attendevano Simone, ma a meglio esporre il corpo alle operazioni altrui.
Posizione forse inutile se non per la sensazione di potere che è alla base del gioco del dominio, posto che, comunque, quella postura rende più vulnerabile il corpo, simbolo anche di posizione di resa e di esposizione.
I due uomini le girarono attorno per guardare la preda da ogni punto di vista possibile, per vederla e farsi vedere, per far comprendere le due diverse posizioni, quella di chi conserva il diritto alla mobilità ed ha dato l’ordine, e quella di colei che ha perso il diritto alla mobilità.
Anche la carezza ai seni era volta a toccare e a maneggiare ciò che appartiene, ad anticipare il piacere della carne, per meglio enfatizzare quello impalpabile del dominio, in previsione del momento in cui il rapporto dominio/carnalità sarà più a vantaggio della seconda, benché sul primo siano poggiate sempre le fondamenta del rapporto.
Simone prese in mano la catenella con le pinzette, respingendo il desiderio di abbassarsi la cerniera dei pantaloni e infilare il cazzo già duro in quella giovane bocca, il cui servizio era da intendersi solo rimandato ad un futuro non molto lontano.
Prendendola in mano notò che vi era una catenella centrale, non molto lunga dalla quale, ai due estremi, si dipartivano altre due catenelle di pari lunghezza che terminavano con altrettante pinzette. Complessivamente quattro promesse di dolore e di piacere.
Mattia era alle spalle della schiava e si stava divertendo a toccarle i seni e a giocare coi capezzoli.
Micaela pensava che li stesse torturando per eccitarsi. In parte era anche vero, ma in altra parte l’atto aveva lo scopo di indurire i capezzoli per meglio esporre alla futura azione di chi, sempre stando alle spalle e dopo avere ricevuto l’estremità dell’attrezzo, attaccò le pinzette ai capezzoli.
Micaela, nuova a questa esperienza di sottomissione e di dolore, si trovava in quella fase di conoscenza dello stesso in cui ancora non si capisce se le scariche sono di solo dolore o se cominciano a lasciare spazio all’adrenalina che infonde una sorte di piacere nel dolore e nella situazione erotizzante.
Simone, accovacciato davanti a lei, armeggiò con la sua figa, cercando l’ingresso con le dita, quel tanto che bastava per far capire alla schiava che adesso era accessibile ai loro voleri, senza però anticipare eccessivamente il piacere della penetrazione, sempre attenti a prendere solo assaggi che potessero alimentare il piacere, a piccoli passi, sapendo che l’attesa è essa stessa piacere.
“Allarga le ginocchia!”.
Quasi a fatica per il dolore, la posizione sbilanciata verso l'alto per le mani unite sulla testa, per la postura nuova, per la situazione nuova, per quel senso che le stava prendendo alla testa senza capire cosa fosse, allargò le ginocchia, in automatico, ubbidendo all’ordine come se la battaglia interiore vissuta quando era portata a quattro zampe come una cagna, fosse stata vinta da una parte e persa definitivamente dall’altra. Forse dentro conservava ancora qualcosa che la portava a dubitare più di sé stessa e della decisione presa, o forse no. Al momento pensava solo ad ubbidire, presa dal vortice di quella situazione che la trascinava a velocità sempre più elevata.
Simone si chinò e attaccò le pinzette alle grandi labbra.
Solo la promessa di divertimenti nuovi e diversi fece abbandonare ai Padroni l’eccitazione nel vedere quella ragazza camminare a stento sul duro marmo del pavimento, lasciando alla loro immaginazione la natura dell’incerto procedere, se dettato dal dolore esterno o dal combattimento interno. Entrambi li avrebbero eccitati e, alternativamente, davano la responsabilità ai due motivi.
Al flogger venne affidato il triplice compito, quello di incentivare il progredire per vincere il dolore, quello di fare pressione sulle incertezze dell’anima e quello, molto più semplice, di eccitarli per il dolore inferto.
“Dritta in ginocchio”.
Il comando, sicuramente noto e chiaro in colui che l’aveva formulato, lasciò la schiava un po’ interdetta, così resto ferma, a quattro zampe, in attesa che il cervello, ancora in subbuglio per lo tzunami di sensazioni, elaborasse meglio la richiesta, muta per il timore di scatenare reazioni dolorose e in attesa di migliori chiarimenti.
Tuttavia i tempi del comando e di reazione vengono percepiti diversamente da chi impartisce l’ordine e chi lo deve eseguire.
“Dritta, stando in ginocchio ma non seduta sui talloni!”.
Un colpo di frustino ed una tirata verso l’alto del guinzaglio la incentivarono ad abbandonare l’inattività e a cercare la posizione desiderata da altri.
“Brava, vedi che impari in fretta”.
Nessuna carezza accompagnò quel riconoscimento, carezza che Micaela si scoprì a desiderare, come se fosse una prima mano tesa dopo essere stata gettata nel buco del desiderio oscuro al quale lei stessa si era affidata.
“Incrocia le mani sulla testa”.
La schiava capì subito dopo che la postura ordinata non era volta a esporre i seni, come al momento in cui attendevano Simone, ma a meglio esporre il corpo alle operazioni altrui.
Posizione forse inutile se non per la sensazione di potere che è alla base del gioco del dominio, posto che, comunque, quella postura rende più vulnerabile il corpo, simbolo anche di posizione di resa e di esposizione.
I due uomini le girarono attorno per guardare la preda da ogni punto di vista possibile, per vederla e farsi vedere, per far comprendere le due diverse posizioni, quella di chi conserva il diritto alla mobilità ed ha dato l’ordine, e quella di colei che ha perso il diritto alla mobilità.
Anche la carezza ai seni era volta a toccare e a maneggiare ciò che appartiene, ad anticipare il piacere della carne, per meglio enfatizzare quello impalpabile del dominio, in previsione del momento in cui il rapporto dominio/carnalità sarà più a vantaggio della seconda, benché sul primo siano poggiate sempre le fondamenta del rapporto.
Simone prese in mano la catenella con le pinzette, respingendo il desiderio di abbassarsi la cerniera dei pantaloni e infilare il cazzo già duro in quella giovane bocca, il cui servizio era da intendersi solo rimandato ad un futuro non molto lontano.
Prendendola in mano notò che vi era una catenella centrale, non molto lunga dalla quale, ai due estremi, si dipartivano altre due catenelle di pari lunghezza che terminavano con altrettante pinzette. Complessivamente quattro promesse di dolore e di piacere.
Mattia era alle spalle della schiava e si stava divertendo a toccarle i seni e a giocare coi capezzoli.
Micaela pensava che li stesse torturando per eccitarsi. In parte era anche vero, ma in altra parte l’atto aveva lo scopo di indurire i capezzoli per meglio esporre alla futura azione di chi, sempre stando alle spalle e dopo avere ricevuto l’estremità dell’attrezzo, attaccò le pinzette ai capezzoli.
Micaela, nuova a questa esperienza di sottomissione e di dolore, si trovava in quella fase di conoscenza dello stesso in cui ancora non si capisce se le scariche sono di solo dolore o se cominciano a lasciare spazio all’adrenalina che infonde una sorte di piacere nel dolore e nella situazione erotizzante.
Simone, accovacciato davanti a lei, armeggiò con la sua figa, cercando l’ingresso con le dita, quel tanto che bastava per far capire alla schiava che adesso era accessibile ai loro voleri, senza però anticipare eccessivamente il piacere della penetrazione, sempre attenti a prendere solo assaggi che potessero alimentare il piacere, a piccoli passi, sapendo che l’attesa è essa stessa piacere.
“Allarga le ginocchia!”.
Quasi a fatica per il dolore, la posizione sbilanciata verso l'alto per le mani unite sulla testa, per la postura nuova, per la situazione nuova, per quel senso che le stava prendendo alla testa senza capire cosa fosse, allargò le ginocchia, in automatico, ubbidendo all’ordine come se la battaglia interiore vissuta quando era portata a quattro zampe come una cagna, fosse stata vinta da una parte e persa definitivamente dall’altra. Forse dentro conservava ancora qualcosa che la portava a dubitare più di sé stessa e della decisione presa, o forse no. Al momento pensava solo ad ubbidire, presa dal vortice di quella situazione che la trascinava a velocità sempre più elevata.
Simone si chinò e attaccò le pinzette alle grandi labbra.
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