Serva di famiglia (parte 19)

di
genere
sadomaso

“Camille, dove sei”.
La voce di Michelle era infastidita.
Era entrata in casa e la ragazza non era andata a salutarla.
Si era addormentata, a terra, sfinita dalla fatica e dai colpi di cinghia ricevuti.
Anche Nala stava dormendo.
Camille si risvegliò di colpo e si precipitò ad accogliere Michelle, che la stava cercando per casa.
Arrivò da lei a 4 zampe, di corsa e si precipitò a baciarle i piedi.
“Dov’eri?”
“Scusami Michelle, ero da Nala. Mi aveva chiamata per essere servita.”
Non disse nulla di quanto accaduto. Era evidente, però. Nala, per frustarla, l’aveva fatta spogliare ed aveva sulla schiena ancora alcuni lievi segni della cinghia, quando, sbagliando il colpo per inesperienza, Nala l’aveva colpita col bordo dello strumento.
Michelle qualche tempo addietro avrebbe ripreso la figlia.
Invece quella volta fece finta di nulla.
Camille, che sperava in qualche reazione, ebbe un ulteriore sconforto.
“Seguimi, così come sei”.
La seguì a 4 zampe, fino alla sala.
“Toglimi le scarpe e massaggiami piedi”.
Il tono della voce era tornato quello solito, ma i gesti no, erano nuovi.
“Non con le mani, con la lingua. Giù, lecca”.
Qualche volta si era fatta leccare i piedi, ma mai dopo il suo rientro ed essersi fatta appena togliere le scarpe.
Camille obbedì, si abbassò e, con la testa e lo stomaco in fiamme, iniziò il suo lavoro.
Andò avanti finché non ebbe l’ordine di smettere.
La situazione era definitivamente precipitata e le pareva irrecuperabile.
“Brava tesorina”.
La ragazza insinuò la lingua tra le dita, assorbendo il sapore dei piedi contenuti nelle scarpe.
La voce di Michelle tradiva eccitazione.
La Padrona, osservando la ragazza prostrata mentre le leccava i piedi, non poteva non vedere i segni della frusta sulla schiena.
Non aveva mai frustato nessuno. Aveva più volte dovuto fermare la figlia che aveva fatto riferimento a quello strumento di punizione.
Adesso, avendo la ragazza ai suoi piedi, vedendo quei segni, si sentì bagnare ulteriormente la figa.
Si chiese cosa si potesse provare a frustare una persona.
Mentre si poneva questa domanda, la figa le rispose, bagnandosi.
La domanda successiva che si pose era perché non provare.
“Andiamo in camera, seguimi così”.
Si avviarono ma fecero pochissimi metri.
“Anzi, ferma”.
Si sedette sulla sua schiena cavalcioni.
“Portami in camera”.
Camille era sfinita e, in un modo o nell’altro, rischiando di cadere con la Padrona sopra si sé, anche aiutata da incitamenti a non cedere accompagnati da sculacciate sulle natiche, riuscì nell’impresa.
Michelle ebbe la sensazione che la schiena nuda della serva, non poteva non avere sentito la sua figa bagnata.
La fece mettere in posizione. Senza saperlo era la stessa posizione in cui l’aveva fatta mettere Nala.
Iniziò a frustarla, con altra cinghia.
Il colpo sulla carne, il suono, la reazione, la sottomissione e la passività di Camille, la eccitarono ulteriormente, facendole provare sensazioni che non aveva mai vissuto.
La frustò a lungo fino a che, nuovamente, Camille non si stese a terra implorando, per la secondo volta nella giornata, pietà.
Michelle si fece leccare culo e figa, fino a che non godette di un orgasmo che mai aveva provato, determinato da emozioni nuove e impensate.
Anche lei si stese sul letto per riposarsi.
Fece stendere a terra accanto al letto Camille, nuda, sulla schiena.
A differenza di Nala, Michelle la legò, unendole le caviglie e facendo passare una corda che collegava il collo alla gamba del letto.
La ragazza era immobilizzata ed era chiaro che l’aveva fatta mettere come uno stuoino, uno scendiletto per quando si sarebbe svegliata.
Prima di addormentarsi per riprendersi dall’eccitazione, le disse che quella notte l’avrebbe fatta dormire in quella posizione, così al mattino le avrebbe poggiato sopra i piedi per alzarsi.
Camille pianse.
Si sentì come una naufraga su un’isola deserta.
Agli inizi, quando si approda, quell’isola appare come una salvezza. Consente di mangiare, rifugiarsi, bere e stare al riparo durante le tempeste.
Poi, il tempo che passa segna la persona, ed il rifugio non è più sufficiente.
Allora accade che un giorno ci si scopre ad osservare il mare e la distesa di acqua verso ciò che sembra l’infinito, sembra, ma infinito non è.
L’isola del naufrago, che inizialmente era un rifugio, una salvezza, è divenuta una gabbia.
Così, il naufrago, si trova di fronte ad una decisione: restare ingabbiato sull’isola che si è stretta sempre di più, oppure prendere il mare e rischiare perché, appunto, appare come infinito, ma infinito non è.
Quella notte, dopo aver servito la cena in ginocchio, avrebbe fatto lo scendiletto umano.
L’indomani mattina avrebbe affrontato il mare, e se ne sarebbe andata.
di
scritto il
2025-11-14
1 1 8
visite
3
voti
valutazione
9.7
il tuo voto
Segnala abuso in questo racconto erotico

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Serva di famiglia (parte 18)

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.