Capitolo 3 matilde

di
genere
etero

Nei giorni seguenti preparai la memoria che consegnai alla Brandi scritta al computer.

Per quanto ricordo, oltre a quelli che le ho ricordato la volta scorsa, La signora Matilde C. mi ha parlato nel tempo di diversi rapporti, più o meno saltuari. Alcuni con persone che conoscevo personalmente, altri con sconosciuti dei quali non mi fornì i nomi. Di seguito riporto quanto a mia conoscenza, nei limiti della mia memoria.
1. Andrea M., architetto, conosciuto durante una mostra a Bari. Relazione breve, durata circa un mese.
2. Franco G., fisioterapista; relazione di due o tre incontri, poi interrotta per motivi non chiariti.
3. "Luca", nome di battesimo soltanto, commesso in una libreria del centro. Probabile flirt più che rapporto stabile.
4. Gianluca F., amico di famiglia, ex collega del marito defunto. Relazione occasionale, probabilmente in concomitanza con un periodo di forte solitudine.
5. "Il ragazzo della palestra", nessun nome certo. Età stimata 25-30 anni. Conosciuto in un centro fitness; lei stessa definiva il rapporto "una distrazione fisica".
6. Maurizio M., medico in pensione, conosciuto tramite amici comuni. Due incontri in albergo; lei stessa ne parlò con ironia, dicendo che "l'età non garantisce l'esperienza".
7. "Sandro", studente universitario. Nessun cognome. Conosciuto in un viaggio a Roma. Episodio isolato, ma lei lo ricordava con affetto.
8. Gianni C., commercialista. Rapporto intermittente, di natura prevalentemente erotica. Si lasciarono dopo una lite di cui non conosco la causa.
9. "L'uomo del bar della stazione", così lo chiamava. Disse solo che lo vedeva quando aveva "voglia di sentirsi guardata senza essere capita".
10. Pietro V., vicino di casa, sposato. Relazione discreta ma non segreta: lei mi confidò che la moglie, forse, ne era al corrente.

Annotazione personale:
Matilde non viveva questi rapporti come colpe o conquiste.
Li considerava parte della propria libertà, forse della propria identità dopo la morte del marito.
Non giudicava nessuno, tantomeno se stessa e io ho sempre fatto lo stesso.


Qualche giorno dopo, prima di uscire di casa mi ritrovai a pensare a Matilde.
Era stata mia.
Dopo anni di sguardi, di racconti sussurrati, di carezze trattenute al momento sbagliato.
E ora non c'era più.
Una sorta di punizione per aver desiderato troppo e troppo tardi.
La prima notte insieme era stata anche l'ultima.
La pelle ancora presente nei miei sensi, le sue parole sparse nella testa -- e poi il vuoto. Un buco bianco, improvviso, dentro cui nulla sembrava trovare posto.
Mi preparai un caffè.
Non era ancora mezzogiorno.
Chiusi gli occhi.
La rividi sul letto.
Nuda. Il mento appena sollevato, la bocca aperta, il seno che seguiva il ritmo del respiro. La sua voce, roca, che mi sussurrava di non fermarmi.
Sentii una stretta precisa all'inguine. Involontaria, come uno scatto nervoso. Era ancora lì, il mio corpo, a desiderarla.
Ancora adesso. Nonostante tutto.
Mi passai una mano tra i capelli, a metà tra rabbia e vergogna.
Ma non riuscii a cancellare quella sensazione.
Il desiderio non se ne andava. Nemmeno davanti alla morte.

Il citofono trillò.
Secco. Due volte.
Mi bloccai.
Andai verso l'ingresso.
«Sono la Brandi. Posso salire?»
Esitai. Solo un istante.
«Certo, venga pure.»
Appoggiai la tazzina sul mobile all'ingresso e tirai un respiro lungo.
Qualunque cosa stesse per chiedermi, sapevo che non sarebbe stata una visita qualunque.
Mentre aspettavo l'ascensore, mi accorsi -- senza volerlo -- che pensavo a lei. All'ispettrice.
Alla sua voce ferma, ai suoi occhi che non tremavano.
E alla camicetta chiusa male, l'altro giorno in ufficio, che lasciava intravedere un lembo chiaro di pelle.
Non me ne ero accorto allora.
Ma ora sì.
Entrò con passo deciso. Posò il casco sul mobile d'ingresso e si guardò attorno, scrutando l'ambiente con lo stesso sguardo con cui, probabilmente, legge i verbali d'autopsia.
Professionale. Attenta. Fredda.
«Mi scusi se non ho avvisato. Sono solo passata per farle qualche altra domanda. Niente di lungo, promesso.»
Annuii, cercando di restare concentrato.
Le chiesi se gradisse un caffè e lei rispose di no.
Mi ritrovai a seguire il modo in cui si toglieva il giubbotto. Il braccio che si piegava con grazia, la camicia di cotone chiaro che le accarezzava le spalle, i jeans che aderivano al corpo senza prepotenza, solo per natura.
Era davvero bella.
Si sedette, aprì il taccuino.
Il suo profumo -- poco più che un'eco di pulito e vento -- si mescolava all'odore di casa.
«Abbiamo avuto accesso a un backup del cellulare della signora Matilde. Alcune chat non erano sul dispositivo, ma sono emerse. Alcune recenti, altre più vecchie. Ne abbiamo selezionate alcune che potrebbero avere rilevanza. Alcuni nomi, per esempio, compaiono anche nell'agenda rossa.»
Io annuii, ma la mia attenzione, in parte, era altrove.
Nel modo in cui, parlando, inarcava leggermente il sopracciglio sinistro.
Nel movimento lento delle dita che sfogliavano le pagine.
Nel tono di voce che, pur restando fermo, ogni tanto sembrava toccare corde più basse, più calde.
«Vorrei solo verificare alcune cose con lei» disse.
E io annuii, ancora.
Lucia incrociò le gambe e sfogliò ancora qualche pagina del suo taccuino.
Il gesto era automatico, sicuro, come se avesse già deciso cosa dirmi ancora prima di entrare.
«Abbiamo finito di sentire i nomi che lei ci ha indicato nella sua memoria. Tutti quelli che lei conosceva personalmente -- o che comunque Matilde le aveva citato in maniera esplicita -- sono stati ascoltati. E le dirò...»
Alzò lo sguardo verso di me.
«Tutti hanno alibi solidi. Verificati. Ospiti presenti, localizzazioni GPS, transazioni, testimonianze incrociate. Nessuno di loro, per il momento, è più nel mirino.»
Inspirai piano, come per liberarmi di un peso che non sapevo di avere sulle spalle.
Lei notò il mio sollievo, ma non lo commentò.
«Resta fuori solo un nome. L'architetto.»
«Ah... sì. Non l'ho mai conosciuto di persona.»
«Lo sappiamo. Ma è una figura un po' più ambigua. Non è ancora tornato in città, almeno secondo quanto ci dicono. Ma due dei suoi colleghi sono in elenco. Contiamo di sentirli entro la settimana.»
Si fermò un attimo. Poi aggiunse:
«Con un po' di fortuna, anche lui finirà tra gli esclusi.»
Mi sfiorò un pensiero amaro.
Per ogni nome escluso, Matilde sembrava più sola.
Lucia abbassò lo sguardo, annotò qualcosa.
Le maniche arrotolate lasciavano intravedere gli avambracci. Forti, definiti, ma non rigidi.
Mi chiesi se si fosse accorta di come la stavo guardando.
Probabilmente sì. Non diede segno di volerlo usare contro di me. Né a favore.
Lucia sfogliò ancora una pagina, poi si fermò.
Il tono cambiò, appena. Più disteso, quasi rassicurante.
«Abbiamo fatto verifiche anche sui suoi movimenti, naturalmente. Parlo di agganci alle celle telefoniche, accessi a reti Wi-Fi, e via dicendo.»
Mi irrigidii appena. Non che avessi qualcosa da nascondere, ma l'idea di essere stato monitorato mi lasciava un senso sottile di violazione.
«Dai tracciamenti -- continuò lei -- risulta che il suo telefono, tra le 13 e le 15:30 di quel giorno, era agganciato a una cella in zona industriale, quasi dieci chilometri dall'appartamento di Matilde. La stessa zona dove ha dichiarato di essere andato per lavoro. Abbiamo verificato anche l'orario dell'ingresso nel parcheggio privato dell'azienda: corrisponde.»
Mi uscì un respiro che non avevo programmato.
Lei alzò gli occhi, accennando un mezzo sorriso. Più cortese che complice, ma umano.
«Quindi per ora -- disse con calma -- non ci sono elementi per pensare che lei fosse presente al momento del delitto. Tecnicamente... è fuori dalla finestra temporale compatibile con l'omicidio.»
Mi limitai ad annuire.
Ma in fondo, lo sapevamo entrambi: una cosa è ciò che si può dimostrare. Un'altra è ciò che si sa -- o si sospetta -- senza prove.
La Brandi tornò a guardare il suo taccuino. Ma stavolta con meno tensione.
«Se ha altre cose da aggiungere... bene. Altrimenti, per oggi direi che ci fermiamo qui.»
Mi sorpresi a volerla trattenere ancora.
Non per rispondere. Non per chiarire.
Solo... per continuare a guardarla.
«C'è una cosa che volevo aggiungere prima di andare,» disse Lucia, riaprendo il taccuino.
«Abbiamo rintracciato una chat, piuttosto esplicita, tra Matilde e un certo Stefano Malderizzi. In uno scambio di messaggi, lei prendeva appuntamento per partecipare a una festa privata.»
Mi voltai appena, curioso.
«Abbiamo approfondito. Si trattava di un evento organizzato da un circolo... diciamo molto riservato. Frequentato da persone dedite al bondage. Incontri selezionati, accesso solo su invito.»
Fece una pausa, poi mi fissò.
«Le aveva mai parlato di questa visita? O di frequentazioni simili?»
Scossi la testa con lentezza.
«No. Di questo, no. Non me ne ha mai parlato.»
Anche nella sua agenda ci sono delle pagine che descrivono queste frequentazioni.
Le leggo alcuni passi e lei mi dice se le viene in mente qualcosa.

"Quella sera nella villa sembrava tutto fuori dal tempo. Un cortile nascosto dietro un cancello di ferro battuto, luci soffuse ovunque, lanterne rosse e musica elettronica a basso volume. Gianni era con me, ma sembrava quasi un'ombra gentile. Non era geloso. O forse sì, ma in modo discreto, come un uomo che aveva scelto di accompagnarmi senza più voler controllare.
Stefano era già lì quando siamo arrivati. Mi ha accolto con un sorriso. Era vestito di nero, come quasi tutti. Io invece avevo scelto solo un lungo cappotto, sotto il quale non c'era nulla. Gianni lo sapeva. Faceva parte del nostro patto.
La casa era divisa in zone. C'erano salotti con cuscini a terra, una stanza con tende pesanti che si aprivano solo per alcuni, e un lungo corridoio dove si affacciavano camere con letti bassi e strumenti appesi ai muri. Non c'era volgarità, solo una specie di tensione elettrica, come se ognuno dei presenti avesse lasciato fuori qualcosa di sé per entrare in quella sospensione.
Stefano mi prese per mano. Mi portò al centro di una sala dove erano sedute forse una decina di persone. Alcune in abiti da sera, altre seminude. Gianni si sedette più lontano, su una poltrona.
Stefano mi tolse il cappotto e rimasi completamente nuda. Indossavo soltanto le mie Louboutin con il tacco a spillo.
Ricordo la sensazione dell'aria fredda sulla pelle, i respiri trattenuti di chi guardava. Mi sentii improvvisamente viva. Oggetto e regina insieme. L'eccitazione era ovunque. Ordinata. Diretta. Era un gioco, sì, ma uno in cui ero io a essere giocata.
Quando vennero usate le corde, quando la mia pelle sentì i nodi stringersi ... non c'era paura. Solo una vertigine profonda. Il piacere di essere vista, esposta.
Stefano fu preciso, controllato. Ogni gesto calibrato. Gianni continuava a guardarmi. Io mi eccitavo sempre più. Non distolse mai lo sguardo ed io rispondevo al suo con un leggero sorriso. Capii che era d'accordo, che era presente, che mi amava anche così.
Non so quanto sia durato. Ma alla fine, quando mi slegarono, sentii qualcosa che non avevo mai provato: la pace dopo l'incendio. Rimasi nuda ancora per un pò, fin quando gli spettatori si allontanarono da quella stanza. Gianni si avvicinò e mi accarezzò i capelli sussurrando: 'Ti ho vista come non ti avevo mai vista. Sei bellissima'.

- Salto un passo e le leggo solo un altro breve estratto. È datato qualche settimana dopo quella prima festa.
La sua voce rimase calma, professionale, ma la tensione nell'aria cambiò.

"Questa volta c'erano più persone. La villa era un'altra, ma l'atmosfera identica. Avevo riconosciuto due volti già visti. Uno, quello di S., mi sorrise da lontano. Mi accorsi che mi stavano aspettando. Gianni non c'era, quella volta. Ero da sola. Ma mi sentivo padrona della scena. Mi fecero sdraiare su un grande tavolo basso, mentre tutti guardavano. Qualcuno parlava a voce bassa. Qualcuno no. Ricordo solo il rumore delle corde, il profumo del cuoio, e la voce di S. che mi chiedeva se mi fidavo."
«Le pagine successive sono... molto più esplicite. Descrivono nel dettaglio le dinamiche di quelle serate, le pratiche, le reazioni.
Si fece silenzio.
Poi aggiunse:
«Altri nomi vengono fuori. Alcuni completi, altri solo con iniziali. Non so ancora se si tratti di persone reali o pseudonimi. Stiamo verificando.
Ma mi serviva sapere se lei, in tutto questo, ci si ritrovava. Se c'era qualcosa che poteva aiutarci a capire meglio.»
Mi dispiace, ma di questo non mi ha mai parlato.
«Bene. Direi che per oggi è tutto.
Dopo aver sentito l'architetto, probabilmente ci risentiremo. Potrebbero esserci nuove domande.»
Annuii. Un cenno breve.
Ero sollevato, sì. Ma anche stanco, svuotato.
E forse proprio in quel vuoto, tra pensieri disordinati, immagini e quell'ultima lettura, mi scappò quella frase.
«Magari, la prossima volta... mi avvisa prima. E... le domande me le fa a cena. Se le va.»
Un silenzio di mezzo secondo.
Quanto basta per rendermi conto della stupidaggine.
Mi schiarii la voce, imbarazzato.
«Scusi. Non volevo. È stata... una sciocchezza.»
L'ispettrice non batté ciglio. Ma sorrise.
Un sorriso appena accennato, come quelli che si danno a un cane che ti si siede accanto senza essere stato chiamato.
«Non si preoccupi.
Aspettiamo solo che il magistrato si convinca completamente della sua estraneità, come lo sono io.
E magari... lo si potrà anche fare.»
Poi indossò di nuovo il giubbotto, prese il casco.
«Buona serata. Resto in contatto.»
E se ne andò.
Lasciando dietro di sé l'odore del vento preso sulla moto.
Rimasi in silenzio, come se quelle parole continuassero a rimbombarmi dentro anche dopo che la voce della Brandi si era spenta.
Non me lo aspettavo.
Matilde andava molto oltre quello che avevo immaginato.
Lei non giocava solo con le parole: viveva davvero tutto. Senza maschere. Senza filtri.
E la cosa che più mi colpiva -- più di tutto -- era la serenità con cui lo faceva.
Mi colse una fitta secca di invidia.
Non tanto per i suoi amanti, né per quelle notti clandestine in ville appartate.
Ma per la sua lucidità. Per la sua libertà così spavalda, così completa.
Io la desideravo, forse. Ma lei... lei la incarnava.
E poi c'era Gianni.
Il marito silenzioso, vent'anni più grande, complice e spettatore.
Matilde lo diceva sempre, tra il serio e il provocatorio: "La lealtà è più erotica della fedeltà."
Lui lo sapeva. E si accontentava di esserci. Di guardare.
Forse la amava così com'era.
E forse era l'unico modo per non perderla.
Mi passai una mano sul viso.
Non riuscivo ancora a decidere se tutto questo mi faceva più male o più bene.

Qualche giorno dopo, una mattina qualunque, il telefono squillò.
Il nome sul display mi fece sorridere prima ancora di rispondere.
«Brandi...» dissi, cercando di sembrare più sveglio di quanto fossi.
«Buongiorno. Disturbo?»
«Mai.»
«Volevo darle una buona notizia.»
La sua voce era rilassata, ma sempre con quella sfumatura diretta che la rendeva inconfondibile.
«Sta per arrivarle una comunicazione ufficiale dalla Procura. Archiviazione.
La sua posizione è definitivamente chiusa.
Anche l'architetto... sentito, verificato. Pulito.
Tutti i nomi che ci aveva indicato sono stati incrociati.
Per adesso, resta fuori da tutto.»
Feci un respiro lento.
«Grazie. Mi ha fatto un gran bel regalo.»
«Non lo dica a me. Lo dica al GIP. È lui che firma.»
Rise piano, ma prima di chiudere aggiunse:
«Sa, una notizia così meriterebbe di essere festeggiata.»
Fece una pausa, breve.
«Se ritiene che possa valere come festeggiamento un invito a cena... io potrei essere d'accordo.»
Il suo tono era ironico, ma il sorriso si sentiva anche attraverso la linea.
Sorrisi anch'io, senza esitare.
«Allora direi che possiamo ufficializzare il festeggiamento... Sabato sera, che ne dice? Conosco un ristorante tranquillo, ottima cucina e zero sbirri in giro.»
Lei rise piano.
«Sabato va benissimo. Aspetto indirizzo e orario.»
Subito dopo mi arrivò un suo messaggio.
" Ore 9:30 via Colombo 36. Va bene?"
Risposi immediatamente:
"Si, sarò puntuale"
scritto il
2025-10-31
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