Capitolo 4 matilde

di
genere
etero

Mancavano tre giorni alla cena con la Brandi.
Una strana inquietudine mi assalì.
Non era paura, né vero imbarazzo.
Era come se, dopo tutto quello che era successo, una cena normale rischiasse di sembrare fuori posto.
Per tre giorni non la chiamai.
Non scrissi.
Mi ripetevo che sarebbe stato meglio così, che era giusto darle spazio.
La verità è che avevo paura che cambiasse idea.
Il sabato sera, poco dopo le 21, scesi di casa.
Salito in macchina, accesi il motore. Le mandai un messaggio:
"Sono in macchina. Sarò lì alle 21:30 precise. Ti do uno squillo e scendi."
Lo rilessi due volte, indeciso sul tu. Inviai.
Nessuna risposta, solo le spunte blu di avvenuta lettura.
Arrivato sotto il suo portone riscrissi:
"Sono giù. Quando vuoi."
Questa volta la riposta arrivò rapida:
"Arrivo."
La vidi arrivare dallo specchietto, pochi secondi prima che bussasse al finestrino.
Bellissima, cazzo.
Camminava con passo leggero, i capelli sciolti sulle spalle, mossi appena dalla brezza.
Indossava i soliti jeans -- aderenti, perfetti -- ma con un paio di tacchi alti che ne cambiavano l'andatura.
Femminile, sicura.
La camicia bianca, leggermente aperta fino a far intravedere il pizzo bianco del reggiseno, le illuminava il viso in un modo che non avevo mai notato prima.
E poi la borsa.
Non l'avevo mai vista con una borsa.
Ma quella sera ce n'era una -- nera, di pelle, essenziale -- che sembrava fatta apposta per lei.
Semplice. Bellissima, come lei.
Non feci in tempo a scendere dall'auto.
Quasi saltellando, con un'energia leggera, arrivò alla mia portiera.
Mi rivolse un "Ciao" accompagnato da un sorriso sincero.
Sembrava davvero contenta di vedermi.
Salì in macchina senza esitazioni.
Mi girai verso di lei.
La guardai per qualche istante, incantato.
«Ciao» dissi infine, un po' in ritardo, con la voce più bassa del solito.
Lei si sistemò la borsa sulle gambe, poi si voltò verso di me.
«Allora... dove mi porti?»
Lo disse senza fretta, quasi con malizia.
Ma con quella leggerezza che sapeva usare anche quando interrogava qualcuno: diretta, senza appesantire.
«Il posto ti piacerà» dissi, accennando un sorriso.
«E poi... è vicinissimo. Meno di un chilometro da qui.»
Lei mi guardò di lato, con un'espressione quasi sorpresa.
«Davvero? Allora è il classico ristorante che ti tieni per le occasioni speciali.»
Non risposi.
Mi limitai a mettere in moto.
Nel breve tragitto non parlammo molto. Ma il silenzio non era imbarazzato.
Era come se ciascuno stesse prendendo le misure dell'altro, ma con una complicità già scritta.
Arrivammo in pochi minuti.
Parcheggiai a metà di una strada tranquilla.
Scendemmo insieme.
Lei si avvolse nel giubbotto leggero, mentre io facevo scattare la chiusura centralizzata.
«È lì, dietro l'angolo»
dissi, indicandole con un cenno del capo.
Camminammo fianco a fianco lungo il marciapiede.
Non ci sfiorammo, ma sentivo il ritmo dei suoi passi, la sua presenza, come se fosse già entrata nella mia pelle.
Quando girammo l'angolo, il piccolo ristorante comparve tra due piante di alloro, con l'insegna discreta e calda.
Lei rallentò un attimo.
«È perfetto» sussurrò, più per sé che per me.
In quel momento capii che la serata era appena cominciata davvero.
Ci accomodammo al tavolo che avevo prenotato.
Un angolo, non troppo illuminato. Il ristorante era raccolto, elegante ma senza pretese.
Lei si tolse il giubbotto e lo poggiò con calma sullo schienale, rivelando ancora meglio quella camicia bianca che le illuminava il viso.
Appena seduti, decisi di rompere subito il ghiaccio.
«Posso farti una domanda personale?»
Lei mi guardò con una finta aria di allarme.
«Solo se non è illegale.»
«Come mai sei single?» chiesi, con un mezzo sorriso.
Scoppiò a ridere.
«E chi ti dice che lo sia?» rispose, stringendosi nelle spalle, poi bevve un sorso d'acqua.
Mi colse di sorpresa.
«Touché» dissi, alzando le mani in segno di resa.
Poi, vedendomi leggermente in imbarazzo, abbassò un po' la voce e aggiunse con sincerità:
«In realtà... non è semplice coltivare qualcosa con il mio lavoro. Gli orari, i turni, le urgenze. Ti porti addosso tutto, anche quando torni a casa. E poi... i colleghi sono bravi a parlare di omicidi, intercettazioni e verbali. Ma appena si tratta di sentimenti, evaporano.»
Si fermò un attimo, osservandomi.
«Sai cosa dicono le mie amiche? Che ho un radar per le cause perse. O per quelli che spariscono appena mi arriva una chiamata alle tre di notte. A volte mi chiedo se non sia una specie di selezione naturale.»
Fece un sorriso, ma era amaro solo in superficie.
«E poi, diciamolo... agli uomini una donna che fa il mio lavoro fa un po' paura. Non tutti, certo. Ma a parecchi si.»
La osservavo mentre parlava. Non recitava.
Lucia Brandi stava semplicemente raccontando la verità, come la vedeva lei.
E in quel momento mi resi conto che dietro alla voce sicura, alla divisa mentale, alla precisione di ogni parola, c'era una donna che, a modo suo, stava cercando qualcosa.
Forse non lo sapeva nemmeno lei.
«Ecco... ora che ho risposto alla tua domanda personale... tocca a te.»
Mi fissò, divertita.
«Perché tu, invece, sei single?»
Mi sistemai sulla sedia.
Poi abbassai lo sguardo sul bicchiere, come se lì dentro ci fosse la risposta giusta.
«Non lo so» dissi, sincero.
«O meglio, potrei dirti che ho avuto tre storie importanti. Finite tutte male. Una per logorio, una per orgoglio, e una... per mancanza di coraggio.»
Lei non mi interruppe. Sembrava davvero interessata.
«Poi a cinquantacinque anni cominci a pensare che l'idea di coppia, quella classica, è come un vestito che non ti sta più come una volta. Ti piace, te lo ricordi addosso... ma oggi ti stringe.»
Lucia annuiva lentamente.
Io proseguii, quasi più per me stesso che per lei.
«Dopo l'ultima storia, ho smesso di cercare. Non perché mi piaccia stare solo. Ma perché il prezzo da pagare per non esserlo... mi sembrava troppo alto.»
Feci un piccolo sorriso, ironico.
«E poi, diciamolo... un uomo solo a cinquantacinque anni viene visto in due modi. O come uno che ha sbagliato tutto, o come uno che non vuole impegnarsi.»
Lucia Brandi sorrise.
«Sai una cosa? Mi sembra che siamo più simili di quanto pensassi.»
Alzò il calice di vino che ci avevano appena versato.
«Alle cause perse, allora.»
«Alle selezioni naturali» aggiunsi io, battendo il bicchiere sul suo.
Poi ci guardammo, e fu uno di quei momenti in cui il tempo si ferma per qualche secondo, dove capisci che sta succedendo qualcosa.
Durante tutta la cena, non ci fu nemmeno un accenno a Matilde, né al caso, né all'indagine.
Niente.
Come se fosse stato un tacito accordo, un patto non dichiarato tra due esseri umani stanchi di analizzare tutto, perfino il dolore.
Parlammo di noi. Delle rispettive delusioni, dei successi piccoli e grandi che a volte si notano solo col senno di poi.
Ambedue d'accordo su una cosa: che le delusioni sono sempre di più ma, spesso sono i piccoli successi che si ricordano meglio.
In fondo va bene così.
«A quest'età non si vince, si regge» disse lei con un sorriso amaro ma fiero.
«E reggere, a volte, è già una vittoria» risposi io.
Sorridemmo.
Dopo cena fecero una passeggiata. Senza una meta. Le luci della città sembravano più gentili quella sera. Camminavano vicini, ma senza sfiorarci, come chi ha ancora pudore di ciò che sente.
Quando tornammo alla macchina era già l'una passata.
Ce ne accorgemmo con sorpresa, ridendo entrambi.
«Cavolo, è volata...»
«Il tempo non vola mai quando ti annoi.»
Nessuna parola in quel tratto finale. Solo il rumore dei passi, qualche macchina lontana, e quell'attimo di sospensione che precede le scelte.
Ci fermammo davanti a casa sua.
Eravamo come due adolescenti che hanno paura di dire qualcosa di troppo, ma anche di non dire nulla.
Mi avvicinai e le diedi un bacio.
Un bacio pieno, vero, profondo. Di quelli che arrivano dopo tante parole, ma che valgono più di tutte. Lei rispose con la stessa passione.
Ci staccano e lei mi accarezzò la guancia.
Lo fece con una dolcezza istintiva, non calcolata. Come se fosse una cosa normale, naturale.
«Ti farei salire» disse, guardandomi negli occhi,
«ma non voglio rovinare niente.»
«Neanch'io voglio rovinare niente» risposi.
Poi la baciai sulla fronte. Ebbi solo la forza di dire.
«Buonanotte, Lucia.»
Lei non disse nulla. Ma mentre saliva le scale, rimasi fermo a guardarla sparire sulle scale.
Una volta in auto, rimasi fermo ancora per un pò. Le mani sul volante e lo sguardo perso.
Presi il telefono e scrissi solo due parole:
«Buonanotte, Lucia»
Dopo poco arrivò la risposta. Pochi secondi, in realtà. Come se lei stesse aspettando.
«Buonanotte. È stata una bella serata e domani chiamami!»
scritto il
2025-10-31
1 4 4
visite
3
voti
valutazione
8.3
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Capitolo 3 matilde

racconto sucessivo

Capitolo 5 matilde
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.