Finalmente Padrona, di nuovo

di
genere
sadomaso

Cinzia adorava dormire con la finestra aperta. Già la sera, al momento di coricarsi, immaginava quando, al mattino successivo, il sole caldo estivo sarebbe entrato nella camera, in quella particolare posizione che a quell’ora passa tra gli alberi del viale della rumorosa città metropolitana.
Non la svegliò il sole, anzi, quando il sole incontrò il suo viso, lo trovò già sveglio ed arrossato, eccitato mentre le dita scorrevano a velocità alternata nella sua figa bagnata.
Cazzo, sarà la primavera, sarà che finalmente aveva accantonato nella mente quel coglione di suo marito, liberandosene come aveva fatto quando se ne era andato un anno addietro, lasciando libera la casa delle sue cose e delle sue tensioni in un pomeriggio in cui lei non c’era.
Non voleva godere, non voleva arrivare all’orgasmo liberatorio. Odiava l’orgasmo che cercava sempre di rinviare il più possibile. Le piaceva stare eccitata, fermarsi sull’orlo del piacere estremo e aspettare che il fuoco si placasse da solo, magari con la doccia gelata del mattino prima di andare in ufficio, per poi aspettare che quel fuoco, sotto la brace, ricominciasse ad ardere in attesa di altro.
Basta dita, basta attesa. Aveva rinviato troppo l’orgasmo procurato da altra persona, dal suo contatto, dal suo calore della pelle e dal suo respiro corto ed eccitato dietro al quale c’erano accelerati battiti cardiaci.
Già, basta rinviare il cazzo, adesso gli mancava, lo voleva, adesso che si era dimenticata di quello di suo marito ne voleva uno, che entrasse, la sbattesse, ma come voleva lei, le desse il piacere alla velocità che lei avrebbe scelto col ritmo che lei gli avrebbe imposto.
La doccia gelata in quella mattina di luglio ebbe solo l’effetto di smorzare ciò che avrebbe trovato sfogo più tardi, perché lei oggi avrebbe avuto un cazzo dentro, lo voleva.
Si mise il profumo più eccitante che aveva. Non era quello più costoso, ma era quello che le scaldava le narici e le stimolava gli umori della figa, il profumo che da anni si metteva ogni qual volta avrebbe scopato. Piaceva a lei quel profumo così come le piaceva il tailleur scuro sulla camicetta bianca che si era scelta per quella mattinata nella quale, finalmente, avrebbe avuto dentro nuovamente un cazzo, un cazzo giovane.
Le sembrava che anche sulla metropolitana la guardassero diversamente, lei si guardava diversamente, lei si sentiva ancora eccitata e le sembrava di emanare odore di sesso che gli altri non potevano non avvertire.
Negli ultimi mesi lei e Monica, quella della contabilità, si sfioravano continuamente, anche con gli occhi, con gli sguardi, con le anche e sulle braccia quando senza motivo lei doveva indicare un numero inutile, su un foglio utile solo perchè ospitava quel numero che le avrebbe consentito il contatto, che le avrebbe consentito di chinarsi su Monica e farle vedere la scollatura e sentire il profumo e, così, sentire quello della pelle giovane della ragazza.
Cazzo quanto la eccitava la massa rossa dei capelli di quella tipa. Se la immaginava tra le cosce con i suoi capelli tenuti stretti tra le mani.
Si era liberata del ricordo del marito da più tempo di quanto pensasse, quando aveva iniziato a flirtare con quella rossa che la eccitava.
Aveva flirtato anche con il fidanzato di Monica, davanti a lei e lei davanti a lui, in un gioco a rimpiattino che consisteva nel mostrarsi invece che di nascondersi, il gioco del vedere e allontanarsi, dell’annusare e allontanarsi, del toccare e allontanarsi, senza scappare ma con la promessa tacita del prossimo tocco.
Era tempo di rompere gli argini, di passare il Rubicone, di fare l’ultimo passo e aprire l’ultima porta, per poi chiuderla alle spalle, mentre ordina ai due giovani di spogliarsi davanti a lei, lei ammirata da quel cazzo che presto, finalmente, avrebbe avuto dentro dopo un anno di niente, niente, un anno buttato via col niente nella figa.
Il ragazzo eccitato era inginocchiato e piegato indietro, con la testa appoggiata al bracciolo della poltrona di pelle marrone scuro, con la sua faccia utilmente sepolta sotto le natiche di Cinzia che si faceva leccare il culo godendo della fatica del ragazzo nel respirare.
L’eccitazione della Padrona era alimentata dalla lingua della rossa tra le sue cosce, inginocchiata davanti a lei.
Cazzo che figata, la lingua del ragazzo nel culo e quella della sua fidanzata in figa.
In mano aveva il cordino col quale aveva legato le palle dello schiavo, in quel momento tirate verso l’alto. Non capiva se i lamenti erano dovuti al male ai testicoli o alla difficoltà di respirare sotto il suo culo, ma non importava la cosa. I lamenti si confondevano con quelli della rossa, frustata dalla cintura nera che aveva tenuto chiusa la giacchetta del tailleur.
Le sembrava che con le frustate la schiava leccasse meglio e così le aumentava in forza ed in frequenza.
Forse le frustate non muovevano meglio la lingua della rossa, ma sicuramente eccitavano lei che era arrivata sull’orlo ormai non più rinviabile.
Era tempo di godere, di godere di cazzo, col cazzo dentro.
Il ragazzo, al quale era stato ordinato di stendersi a terra, sia a parole sia col piede che spingeva, aveva il cazzo svettante, dal quale, sedutasi cavalcioni, si fece penetrare mentre ancora aveva il cordino legato alle palle e che tirava mentre lo scopava.
La rossa, accovacciata sulla faccia del fidanzato, le leccava il collo e le tette, guidata dalle mani della Padrona strette nella massa enorme di capelli rossi. Cinzia voleva farsi portare più su, sempre più su, per salire sulla scala del piacere i cui gradini venivano fatti di corsa, a due a due, tanta era la fretta di arrivare alla cima del palazzo, i cui ultimi gradini vennero percorsi con gli occhi chiusi e il respiro affannato e irregolare, tirando forte il cordino e godendo mentre lo schiavo emetteva un forte lamento per il dolore che la spinse oltre il limite dell’orgasmo, il cui piacere sale dalla figa alla bocca dello stomaco per esploderle nella testa reclinata indietro.
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2025-05-05
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