La moglie del Presidente golpista (parte 5, epilogo)
di
Kugher
genere
sadomaso
Non le bastava, non le bastava mai. Si rendeva conto che era come una diga rotta. Non riusciva a fermarsi e non aveva intenzione di farlo, prendendo sempre più confidenza con sé stessa e disprezzo per quelle persone umiliate, forte dell’impunità che si sentiva addosso per essere la moglie del Presidente.
Forse nel precedente despota vedeva l’attuale, che odiava perché non l’aveva mai considerata ed amata e, così, scaricava su quella famiglia la sua rabbia. Ma, questa, era una valutazione che non si era mai posta.
Pretendeva che quegli essere inferiori scendessero sempre più nella scala dell’umiliazione. Li voleva fisicamente e moralmente ai suoi piedi.
Esseri inferiori. Così li vedeva e considerava e, come tali, li trattava.
Aveva aumentato anche la frequenza con la quale scendeva nelle segrete, abbassando sempre più le precauzioni iniziali, sentendosi sicura e forte dinanzi a quei vermi umani.
Mentre prima si faceva accompagnare da qualche guardia, che pagava profumatamente per il suo silenzio, cominciò a scendere da sola, o a fare allontanare la guardia quando pretendeva atti forti e, soprattutto, sessuali, non volendo che la guardia vedesse.
Mai paga, fece stendere sulla schiena madre e figlia, vicine. L’uomo doveva stare in ginocchio poco lontano ed osservare.
Camminò sui corpi stesi a terra, usandoli come tappeti, più e più volte, provando sempre maggiore eccitazione e rammaricata per non avere pensato prima a quel gioco.
Ad ogni discesa dai corpi, si recava davanti all’uomo inginocchiato e, sollevatasi la gonna, si faceva leccare il culo, per riprendere poi il suo giro.
Sessualmente era stanca della lingua delle donne sulla sua figa che la portavano al meritato e dovuto orgasmo.
Adesso voleva un cazzo, un cazzo vero.
Ordinò a Nasha di succhiare il cazzo del marito fino a farlo diventare duro mentre era steso sul bordo del letto.
Quando raggiunse una consistenza ritenuta congrua, con una frustata fece spostare la donna e si sedette sul membro duro, non a cavalcioni, ma come fosse una sedia, tenendo i piedi poggiati a terra.
“Cagnetta giovane, vieni qui tra le mie cosce”.
Allargò le gambe e pretese che Lewa le leccasse il clitoride mentre lei stava seduta sull’uomo col cazzo dentro.
La donna chiuse gli occhi. Appoggiò le mani sul letto dietro all’uomo per offrire meglio la sua figa alla leccata.
Era estasiata. Un cazzo ed una lingua servile. Il tutto condito dall’eccitazione che l’umiliazione altrui le dava.
Ogni tanto, senza motivo alcuno se non quello dettato dalla ricerca continua di piacere e rivalsa, dava una frustata all’altra donna posta inginocchio, costretta ad assistere a quello spettacolo che sembrava non avesse mai fine e che dovevano fermare.
Come era solito in quei casi, aveva fatto uscire la guardia affinché non assistesse all’atto sessuale.
I prigionieri, esasperati dalle continue ed infinite angherie, avevano studiato le abitudini della loro aguzzina e delle guardie, ed avevano programmato di sopraffarla, approfittando della sua eccessiva sicurezza.
Attesero un tempo sufficiente per consentire alle guardia di allontanarsi, chiudere non solo la porta che conduceva alle celle, ma anche quella in alto, in cima alle scale, quella porta che separava il loro inferno dalla vita vera, agiata, la vita dei Padroni quali loro erano stati.
Tre contro una, anche se deboli e affamati non potevano non avere la meglio.
La catturarono e legarono. Benché avessero concordato di non farle male per non indisporre l’attuale despota, Lewa non resistette e, impossessatasi della frusta, la colpì ripetutamente finché l’uomo non riuscì ad intervenire.
Speravano di negoziare la libertà, la loro libertà per la vita della moglie del Presidente che avrebbero tenuta come ostaggio fino a che non fossero arrivati nello Stato confinante, dove potevano ancora vantare potenti amicizie.
Il Presidente avviò una trattativa tirandola per le lunghe, facendo vedere che non voleva cedere per interessi personali, mostrando al popolo che lui era integerrimo.
Era importante che il despota restasse nelle mani del governo di quel Paese in cui era stato un tiranno crudele.
L’ordine di attaccare le prigioni e di liberare l’ostaggio fu dato dopo avere pagato un militare di fiducia affinché, nei tafferugli, lo liberasse definitivamente dell’ingombro di quella moglie ormai inutile, unico ostacolo per la cospicua eredità.
Forse nel precedente despota vedeva l’attuale, che odiava perché non l’aveva mai considerata ed amata e, così, scaricava su quella famiglia la sua rabbia. Ma, questa, era una valutazione che non si era mai posta.
Pretendeva che quegli essere inferiori scendessero sempre più nella scala dell’umiliazione. Li voleva fisicamente e moralmente ai suoi piedi.
Esseri inferiori. Così li vedeva e considerava e, come tali, li trattava.
Aveva aumentato anche la frequenza con la quale scendeva nelle segrete, abbassando sempre più le precauzioni iniziali, sentendosi sicura e forte dinanzi a quei vermi umani.
Mentre prima si faceva accompagnare da qualche guardia, che pagava profumatamente per il suo silenzio, cominciò a scendere da sola, o a fare allontanare la guardia quando pretendeva atti forti e, soprattutto, sessuali, non volendo che la guardia vedesse.
Mai paga, fece stendere sulla schiena madre e figlia, vicine. L’uomo doveva stare in ginocchio poco lontano ed osservare.
Camminò sui corpi stesi a terra, usandoli come tappeti, più e più volte, provando sempre maggiore eccitazione e rammaricata per non avere pensato prima a quel gioco.
Ad ogni discesa dai corpi, si recava davanti all’uomo inginocchiato e, sollevatasi la gonna, si faceva leccare il culo, per riprendere poi il suo giro.
Sessualmente era stanca della lingua delle donne sulla sua figa che la portavano al meritato e dovuto orgasmo.
Adesso voleva un cazzo, un cazzo vero.
Ordinò a Nasha di succhiare il cazzo del marito fino a farlo diventare duro mentre era steso sul bordo del letto.
Quando raggiunse una consistenza ritenuta congrua, con una frustata fece spostare la donna e si sedette sul membro duro, non a cavalcioni, ma come fosse una sedia, tenendo i piedi poggiati a terra.
“Cagnetta giovane, vieni qui tra le mie cosce”.
Allargò le gambe e pretese che Lewa le leccasse il clitoride mentre lei stava seduta sull’uomo col cazzo dentro.
La donna chiuse gli occhi. Appoggiò le mani sul letto dietro all’uomo per offrire meglio la sua figa alla leccata.
Era estasiata. Un cazzo ed una lingua servile. Il tutto condito dall’eccitazione che l’umiliazione altrui le dava.
Ogni tanto, senza motivo alcuno se non quello dettato dalla ricerca continua di piacere e rivalsa, dava una frustata all’altra donna posta inginocchio, costretta ad assistere a quello spettacolo che sembrava non avesse mai fine e che dovevano fermare.
Come era solito in quei casi, aveva fatto uscire la guardia affinché non assistesse all’atto sessuale.
I prigionieri, esasperati dalle continue ed infinite angherie, avevano studiato le abitudini della loro aguzzina e delle guardie, ed avevano programmato di sopraffarla, approfittando della sua eccessiva sicurezza.
Attesero un tempo sufficiente per consentire alle guardia di allontanarsi, chiudere non solo la porta che conduceva alle celle, ma anche quella in alto, in cima alle scale, quella porta che separava il loro inferno dalla vita vera, agiata, la vita dei Padroni quali loro erano stati.
Tre contro una, anche se deboli e affamati non potevano non avere la meglio.
La catturarono e legarono. Benché avessero concordato di non farle male per non indisporre l’attuale despota, Lewa non resistette e, impossessatasi della frusta, la colpì ripetutamente finché l’uomo non riuscì ad intervenire.
Speravano di negoziare la libertà, la loro libertà per la vita della moglie del Presidente che avrebbero tenuta come ostaggio fino a che non fossero arrivati nello Stato confinante, dove potevano ancora vantare potenti amicizie.
Il Presidente avviò una trattativa tirandola per le lunghe, facendo vedere che non voleva cedere per interessi personali, mostrando al popolo che lui era integerrimo.
Era importante che il despota restasse nelle mani del governo di quel Paese in cui era stato un tiranno crudele.
L’ordine di attaccare le prigioni e di liberare l’ostaggio fu dato dopo avere pagato un militare di fiducia affinché, nei tafferugli, lo liberasse definitivamente dell’ingombro di quella moglie ormai inutile, unico ostacolo per la cospicua eredità.
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