Il Bull e la coppia schiava (parte 2)

di
genere
sadomaso

Nel parcheggio sotterraneo si sentiva il ritmico cadere di una goccia di acqua che infrangeva il silenzio. L’ultimo rumore era consistito dalla porta antincendio sbattuta dopo che i tacchi di una estranea l’avevano oltrepassata per uscire dall’area, consegnando quel piano a Matteo e a Monica che, nella solitudine ritrovata, dovettero inginocchiarsi davanti a colui che quella sera sarebbe stato il Padrone delle loro emozioni.
Il dito di Simone che aveva indicato il pavimento ai suoi piedi era eloquente come il dorso della sua mano offerta al bacio di Monica. Matteo, il marito, fu costretto a stare nell’identica posizione ma più distante, quale osservatore, anticipando il suo ruolo per tutta la serata.
L’uomo ebbe così modo, da una posizione quasi privilegiata, di osservare la moglie dare quel bacio che testimoniava la sua completa cessione con quel primo contatto tra i corpi.
Vide Monica abbassare lievemente la testa e ricevere una carezza, sul capo e sulla guancia, che aveva il sapore dell’atto dedicato ad un cane o, meglio, alla propria schiava.
Matteo si pose istintivamente la domanda se il capo chinato della moglie fu un gesto istintivo, tipico di chi riconosce l’autorità altrui o, meglio, la sudditanza propria, o se fu la conseguenza di uno sguardo proveniente da quegli occhi dominanti che lui non riusciva ad osservare.
L’eccitazione volle fargli pensare che la risposta esatta fosse la prima, mentre il lato lucido avrebbe preferito la seconda, segno di un gioco e non di un disconoscimento del marito.
Il Padrone (da tempo i coniugi avevano smesso di chiamarlo Bull, anche tra di loro) appose al collo di Monica una fettuccia di seta nera, alta due centimetri.
Un oggetto di un colore che avrebbe potuto sembrare un completamento del vestito ma che, ad un occhio attento e alle loro emozioni, appariva chiaro essere il collare.
Fu un gesto leggero del dito ad ordinare alla schiava di baciare il cazzo del Padrone ancora protetto dai vestiti ma in evidente reazione alla situazione.
Più tardi, Matteo aveva un ronzio fisso nella testa mentre, attraverso la vetrina, osservava la moglie seduta sul divanetto di quel bar.
Prima che il Padrone e lei entrassero, aveva sentito l’ordine di non accavallare mai le gambe né di appoggiarsi allo schienale.
La presenza di altri avventori non impediva a Matteo di verificare, attraverso il vetro, l’esecuzione dell’ordine, mentre Simone beveva il fresco aperitivo dell’unico bicchiere posato sul tavolino.
L’uomo, in piedi, all’esterno, in evidente attesa, cercava di rubare ogni fotogramma di quella scena che a lui era offerta come in un film muto. Si sforzava di osservare le labbra dei protagonisti che, però, gli sembravano ferme in una scena in cui l’uomo era comodamente seduto intento a godersi un drink, mentre la donna, la sua compagna di vita, seduta sul bordo del divanetto nella posizione voluta da altri. L'unico segnale dei suoi pensieri erano le mani tormentate in grembo.
I dialoghi, anche se ci fossero stati, sarebbero stati supportati dal niente, posto che non avevano nulla in comune se non la condivisione delle emozioni contrapposte a cui quella sera sarebbero andati incontro, in quel viaggio verso l’ignoto della loro anima.
Matteo, lo schiavo, si chiese se sua moglie, la schiava, in quel momento lo stesse pensando mentre era condannato ad attenderli, in piedi, spettatore solitario di una scena lontana.
“bip bip”.
Aveva visto il Padrone prendere il cellulare e scrivere qualcosa che già sapeva essere destinata a lui. Il cuore prese a battergli ancor prima di sentire il segnale del messaggio recapitato sul suo telefono.
“Aspettaci all’auto, cane”.
L’ultima parola lo colpì allo stomaco, come se l’ordine non bastasse a segnare la distanza dei due ruoli.
Unico segno di vita era la goccia che, nel garage sotterraneo, costantemente lasciava traccia sonora il cui ritmo ogni tanto veniva sovrastato dallo stridio degli pneumatici e dei tacchi di coloro che, una volta parcheggiato, rimbombavano nel locale prima di far sbattere la porta antincendio.
Le sensazioni di Matteo presero rinnovato vigore quando sentì prima la porta sbattere e, poi, il rumore di tacchi che evidentemente, per peso e cadenza, appartenevano a persone di diverso sesso.
Il rumore era in evidente avvicinamento verso l'area nella quale era parcheggiata l’auto, alla cui guardia era stato destinato per quel tempo che era rimasto indefinito, avendo eseguito l’ordine di non portare l'orologio e di non controllare il telefono, in quanto il tempo della coppia era ormai consegnato ad altri.
Il battito del suo cuore aumentò proporzionalmente all’avvicinarsi dei tacchi ed ebbe un picco verso l’alto quando vide sua moglie camminare appena dietro al Padrone che teneva in mano il guinzaglio nero collegato al collare di seta.
La donna lo seguiva docilmente.
Matteo si chiese ancora se il capo fosse chino per la conseguenza di un ordine o per l’imposizione delle sensazioni che la moglie stava provando in quel momento.
La vide attenta alle azioni dell'uomo che la possedeva attraverso quella striscia di pelle intrecciata.
Il turbinio di pensieri e di emozioni gli procurò comunque eccitazione ulteriore quando vide il dito indice del Padrone che gli stava mostrando il luogo nel quale avrebbe dovuto posare le sue ginocchia quale conferma di una resa.
Dopo che il Padrone ebbe perso interesse verso di lui che aveva assunto la posizione inginocchiata, Matteo si accorse che la moglie, oltre al guinzaglio, era impedita anche nei movimenti delle braccia avendo i polsi ammanettati dietro alla schiena.
Gli fu consentito di alzarsi non certo per restituirgli dignità, ma per condannarlo al servizio consistente nell'apertura della portiera, che dovette richiudere appena dopo che la moglie ed il Padrone ebbero preso posto sul sedile posteriore.
Nel salire Monica fece in modo di fargli vedere la condizione dei suoi polsi. Ebbe la sensazione che il gesto venne compiuto non per condividere il suo stato, ma per fargli capire che ora lei apparteneva ad un altro, provando piacere nell’immaginare la sua umiliazione.
“Portami a casa vostra”.
L’ordine secco rimbombò nelle orecchie di Matteo.
“Portami”, non “portarci”.
Non avevano previsto che la serata sarebbe proseguita nel loro intimo regno.
di
scritto il
2024-09-13
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