Moglie ceduta - roulette russa (parte 7)
di
Kugher
genere
sadomaso
Le ore e i minuti sfuggono e si amplificano, fino ad allargarsi o restringersi, facendo perdere la cognizione del tempo misurato solo con la luce solare.
Stesa nella paglia di quella stalla, incatenata e sporca, arrivò a dividere i pensieri di sé stessa con la fame che, nuovamente, si era affacciata a tormentarla.
Il gradino sceso l’aveva collocata ad un piano che non pensava avrebbe raggiunto ma che, una volta toccato, il tempo la portò all’abitudine dello stesso, fino a farlo proprio e a confrontarlo con le proprie esigenze erotiche.
Lo sporco del suo corpo le ricordava la soddisfazione delle sue fantasie che, da quando era arrivata in quella realtà per lei collocata fuori dal tempo e dallo spazio quotidiani, avevano ricevuto un'accelerazione fortissima, anche oltre le sue iniziali aspettative.
Eppure né lei né suo marito avevano non solo fatto resistenza, ma nemmeno trovava fuori luogo l’impostazione data dai loro Padroni anche se, a dir del vero, avevano agito senza avere anticipato la qualità del trattamento.
La fame e la catena che la bloccava al muro, le ricordavano ogni secondo la sua posizione di totale schiavitù per l’arco temporale ne quale sarebbe stata a disposizione dei Padroni.
L’eccitazione le faceva sopportare gli stimoli e le facevano sentire maggiormente il potere su di lei, sempre più oggetto in mani altrui, quale soddisfacimento del suo desiderio.
Il pensiero del marito le si affacciava raramente, più concentrata su sé stessa e sulle proprie emozioni e sensazioni, ignorando che Franco, in quel momento, stava divertendo i Padroni nel giardino. Sulla schiena, a 4 zampe, aveva una sella in cuoio e, a turno, i Padroni lo cavalcavano a sfinimento, ignorando la sua fatica ed il suo dolore e, anzi, colpendolo col frustino fino a che l’animale non si convinceva che il dolore della frusta era più forte della fatica e, così, barcollando, procedeva con il peso del Padrone o della Padrona di turno sulla sua schiena.
Quando Monica sentì il passo pesante di un Padrone avvicinarsi, non seppe se provasse sollievo, eccitazione o timore per essere strappata dal giaciglio dei suoi pensieri, essendosi scoperta ad avere la mente libera da ogni tensione quotidiana e totalmente concentrata nel suo ruolo temporaneo.
Sicuramente il battito del cuore, che aveva aumentato in velocità, le confermò che la tensione sentita era concentrata nella bocca dello stomaco e, da lì, alla figa che sentì iniziare a pulsare e a bagnarsi.
Non seppe quale fu la reazione del Padrone quando, entrando, la trovò prostrata, con le braccia tese in avanti e la fronte a contatto con la paglia sporca.
La vista, che aveva quale unico orizzonte il terreno, non le fece vedere ciò che invece avvertì l’udito, e cioè il Padrone che non ebbe reazioni che lo portarono a fermarsi ad osservarla.
Sentì che le veniva staccata la catena ed agganciata altra catena che, a differenza della precedente, la legava al potere dell’uomo invece che al muro, anch’esso, tuttavia, espressione del potere ceduto ad altri.
Il breve rallentamento dovuto al dolore alle ginocchia nel procedere a 4 zampe sulla terra dura, venne subito rimediato col primo colpo di frustino che, secco, impietoso e forte, la colpì sulla natica.
Trovò sollievo una volta giunta nel prato.
Il dolore non le impedì di provare forte eccitazione nel vedere il marito cavalcato dalla Padrona più pesante ed incitato a procedere impietosamente con colpi sulle natiche che, alla vista, evidenziavano solo segni rossi recenti, qualcuno già violaceo, che narrava il dolore subito dall’uomo, a sua volta autonoma fonte di eccitazione per la cagna che veniva condotta sotto il gazebo dove c’erano gli altri Padroni.
La luce del sole e l’aperitivo sui tavoli posti tra le poltrone, le fecero capire più o meno l’ora quasi serale, facendole poi pensare quanto fosse inutile quell’informazione se non per confermarle da quanto tempo non ingeriva cibo.
Il contenuto della ciotola, svuotata troppe ore addietro, aveva saziato appena la sua fame di eccitazione ma non sicuramente le esigenze caloriche del corpo.
Fu, inizialmente, un colpo alla sua vanità l’eleganza dei Padroni davanti ai quali, nuda e sporca, lei stava come un cane.
Osservava le scarpe delle Padrone, provando invidia per quelle bellissime calzature e raffrontandole con le sue riposte in un armadio a parete troppo lontano.
Più forte il divario, maggiore la forza della sensazione di sottomissione volta al raggiungimento della sua soddisfazione di essere oggetto in mano a sconosciuti.
Trovò naturale omaggiare quelle persone che le apparivano troppo superiori e, portata ai piedi di una Padrona, iniziare a leccare quelle calzature sotto lo sguardo divertito della donna la quale, non paga, spostava il piede per osservare i suoi sforzi di inseguirlo con la lingua.
Non si stupì né arretrò quando la Padrona le infilò in bocca la punta della decolletè della gamba accavallata, spingendola fino al momento in cui non riuscì più a farla entrare.
Un Padrone si sedette sulla sua schiena intimandole di non cedere assolutamente sotto il suo peso.
Il tono la portò ad irrigidire il proprio corpo oltre il limite che pensava raggiungibile, fungendo da sedia per l’uomo a cavalcioni che le spingeva la testa verso il piede della Padrona per accertarsi che non potesse uscire mentre, con l’altra mano, calava con forza il frustino sulla natiche e coscia destra.
“Succhia bestia”.
Trovò la definizione calzante, vedendo e considerando sé stessa quale animale, in un vortice di emozioni e sensazioni sempre più forti, amplificati dal sempre maggiore divario tra la posizione sua e dei Padroni, nutriti, puliti, eleganti, autoritari.
Scoprì anche il peso del corpo altrui sul proprio schiacciato a terra.
Il Padrone restò seduto fino al momento in cui, sfinita, iniziò a tremare, sentendo, con sollievo, l’uomo che si alzava poco prima della sua rovina a terra, spaventata non dalla propria fatica ma dall’idea che il suo cedimento potesse trascinare a terra anche il Dominante. Sapeva che la sua funzione era servire e soddisfare a costo delle sue sofferenze.
Il piede posato con forza sulla schiena schiacciandola a terra e la frusta, le sottolinearono la sua debolezza che, paradossalmente, avvertì come un difetto suo nel servire.
Si rese conto che quello era il suo unico pensiero, servire e soddisfare, provando piacere nel pensare che quegli sconosciuti potessero essere fieri di lei, oggetto dal quale si pretende senza alcuna riconoscenza.
Era ancora frastornata dalla fatica nell’impegno a reggere sulla schiena e dal dolore delle frustate quando si sentì la scarpa di un Padrone sul collo che la schiacciava con forza nella terra del prato. Non fece resistenza alcuna ma, anzi, agevolò l’operazione della Padrona che le ammanettò i polsi dietro alla schiena mentre era stesa a terra.
Vide i 4 Padroni tutti seduti sulle poltrone e si chiese dove fosse il marito, non potendolo vedere, dietro di sé, accucciato a terra, divenuto inutile con ancora indosso la sella, quale promessa di ulteriori utilizzi o, perché no, per essere dimenticato lì senza la voglia dei Padroni di liberarlo dalla bardatura.
Capì la sua funzione quando, ridendo, un Padrone le lanciò, abbastanza lontano da lei, una pizzetta dalla quale aveva già asportato un pezzo coi denti.
Nessuno le disse nulla ma il modo in cui accadde e la fame che la divorava, la spinsero a strisciare a terra, in quella posizione difficoltosa, dolorosa e, sicuramente, eccitante e divertente per i Padroni.
Non seppe quanto andarono avanti con quel gioco crudele e umiliante.
Perse il conto delle risate e delle frasi che la incitavano a muoversi chiamandola bestia, animale, cagna, verme, e si trovò a strisciare con maggiore velocità in quanto stavano iniziando ad annoiarsi.
Non seppe nemmeno se le frustate e i calci che le arrivarono erano dettati dalla volontà di farla accelerare oppure dal mero divertimento e sadismo.
Non seppe neppure quanto poté mangiare durante quel gioco, convinta che gli sforzi per raggiungere il cibo, a volte già masticato e sputato, richiedevano un dispendio di energie superiori a quelle ingoiate.
Il prato era morbido, curato e lei si sentiva di avere asportato tutta la terra che, ora, colorava il suo corpo, evidenziando il suo stato di “niente”, di “animale”, di “cosa” utile solo per il divertimento.
Sicuramente ebbe la conferma di avere eccitato e divertito i Padroni, quando questi ordinarono al marito di portarla a lavare, utilizzando la canna a disposizione per annaffiare il giardino.
L’acqua fredda ed il sapone ebbero il potere di rinfrancare ma non di restituire quella dignità che le era stata tolta a beneficio della eccitazione sua e dei Padroni.
Nemmeno si chiese se quella situazione avesse ottenuto il risultato di eccitare anche il marito, in quanto maggiormente concentrata sul piacere proprio e sulla soddisfazione di quello dei Padroni.
Non fece opposizione ma, anzi, agevolò l’apposizione ai capezzoli, offerti, per i morsetti radiocomandati.
Per tutto il tempo, peraltro breve, dell’operazione, restò inginocchiata, quasi timorosa di sporcarsi nuovamente le ginocchia, con la testa china, i polsi idealmente ammanettati ancora dietro la schiena e i capezzoli offerti.
Dovette, stando inginocchiata, succhiare il cazzo di un Padrone per volta, comodamente seduto sulla poltrona da giardino.
Il morsetto radiocomandato aveva la funzione, stringendosi ed allentandosi, di regolare la velocità del pompino a seconda del piacere del Padrone.
Quando l’uomo si riteneva soddisfatto, veniva fatta girare a 4 zampe e penetrata come una cagna fino a godere nella figa.
Il secondo Padrone la usò nel medesimo modo ma la volle scopare nel culo fino a goderle dentro.
Terminata la sua utilità, venne, con una spinta del piede, fatta accucciare a terra dalla cui posizione poté assistere al marito chiamato a soddisfare sessualmente le Padrone.
Stesa nella paglia di quella stalla, incatenata e sporca, arrivò a dividere i pensieri di sé stessa con la fame che, nuovamente, si era affacciata a tormentarla.
Il gradino sceso l’aveva collocata ad un piano che non pensava avrebbe raggiunto ma che, una volta toccato, il tempo la portò all’abitudine dello stesso, fino a farlo proprio e a confrontarlo con le proprie esigenze erotiche.
Lo sporco del suo corpo le ricordava la soddisfazione delle sue fantasie che, da quando era arrivata in quella realtà per lei collocata fuori dal tempo e dallo spazio quotidiani, avevano ricevuto un'accelerazione fortissima, anche oltre le sue iniziali aspettative.
Eppure né lei né suo marito avevano non solo fatto resistenza, ma nemmeno trovava fuori luogo l’impostazione data dai loro Padroni anche se, a dir del vero, avevano agito senza avere anticipato la qualità del trattamento.
La fame e la catena che la bloccava al muro, le ricordavano ogni secondo la sua posizione di totale schiavitù per l’arco temporale ne quale sarebbe stata a disposizione dei Padroni.
L’eccitazione le faceva sopportare gli stimoli e le facevano sentire maggiormente il potere su di lei, sempre più oggetto in mani altrui, quale soddisfacimento del suo desiderio.
Il pensiero del marito le si affacciava raramente, più concentrata su sé stessa e sulle proprie emozioni e sensazioni, ignorando che Franco, in quel momento, stava divertendo i Padroni nel giardino. Sulla schiena, a 4 zampe, aveva una sella in cuoio e, a turno, i Padroni lo cavalcavano a sfinimento, ignorando la sua fatica ed il suo dolore e, anzi, colpendolo col frustino fino a che l’animale non si convinceva che il dolore della frusta era più forte della fatica e, così, barcollando, procedeva con il peso del Padrone o della Padrona di turno sulla sua schiena.
Quando Monica sentì il passo pesante di un Padrone avvicinarsi, non seppe se provasse sollievo, eccitazione o timore per essere strappata dal giaciglio dei suoi pensieri, essendosi scoperta ad avere la mente libera da ogni tensione quotidiana e totalmente concentrata nel suo ruolo temporaneo.
Sicuramente il battito del cuore, che aveva aumentato in velocità, le confermò che la tensione sentita era concentrata nella bocca dello stomaco e, da lì, alla figa che sentì iniziare a pulsare e a bagnarsi.
Non seppe quale fu la reazione del Padrone quando, entrando, la trovò prostrata, con le braccia tese in avanti e la fronte a contatto con la paglia sporca.
La vista, che aveva quale unico orizzonte il terreno, non le fece vedere ciò che invece avvertì l’udito, e cioè il Padrone che non ebbe reazioni che lo portarono a fermarsi ad osservarla.
Sentì che le veniva staccata la catena ed agganciata altra catena che, a differenza della precedente, la legava al potere dell’uomo invece che al muro, anch’esso, tuttavia, espressione del potere ceduto ad altri.
Il breve rallentamento dovuto al dolore alle ginocchia nel procedere a 4 zampe sulla terra dura, venne subito rimediato col primo colpo di frustino che, secco, impietoso e forte, la colpì sulla natica.
Trovò sollievo una volta giunta nel prato.
Il dolore non le impedì di provare forte eccitazione nel vedere il marito cavalcato dalla Padrona più pesante ed incitato a procedere impietosamente con colpi sulle natiche che, alla vista, evidenziavano solo segni rossi recenti, qualcuno già violaceo, che narrava il dolore subito dall’uomo, a sua volta autonoma fonte di eccitazione per la cagna che veniva condotta sotto il gazebo dove c’erano gli altri Padroni.
La luce del sole e l’aperitivo sui tavoli posti tra le poltrone, le fecero capire più o meno l’ora quasi serale, facendole poi pensare quanto fosse inutile quell’informazione se non per confermarle da quanto tempo non ingeriva cibo.
Il contenuto della ciotola, svuotata troppe ore addietro, aveva saziato appena la sua fame di eccitazione ma non sicuramente le esigenze caloriche del corpo.
Fu, inizialmente, un colpo alla sua vanità l’eleganza dei Padroni davanti ai quali, nuda e sporca, lei stava come un cane.
Osservava le scarpe delle Padrone, provando invidia per quelle bellissime calzature e raffrontandole con le sue riposte in un armadio a parete troppo lontano.
Più forte il divario, maggiore la forza della sensazione di sottomissione volta al raggiungimento della sua soddisfazione di essere oggetto in mano a sconosciuti.
Trovò naturale omaggiare quelle persone che le apparivano troppo superiori e, portata ai piedi di una Padrona, iniziare a leccare quelle calzature sotto lo sguardo divertito della donna la quale, non paga, spostava il piede per osservare i suoi sforzi di inseguirlo con la lingua.
Non si stupì né arretrò quando la Padrona le infilò in bocca la punta della decolletè della gamba accavallata, spingendola fino al momento in cui non riuscì più a farla entrare.
Un Padrone si sedette sulla sua schiena intimandole di non cedere assolutamente sotto il suo peso.
Il tono la portò ad irrigidire il proprio corpo oltre il limite che pensava raggiungibile, fungendo da sedia per l’uomo a cavalcioni che le spingeva la testa verso il piede della Padrona per accertarsi che non potesse uscire mentre, con l’altra mano, calava con forza il frustino sulla natiche e coscia destra.
“Succhia bestia”.
Trovò la definizione calzante, vedendo e considerando sé stessa quale animale, in un vortice di emozioni e sensazioni sempre più forti, amplificati dal sempre maggiore divario tra la posizione sua e dei Padroni, nutriti, puliti, eleganti, autoritari.
Scoprì anche il peso del corpo altrui sul proprio schiacciato a terra.
Il Padrone restò seduto fino al momento in cui, sfinita, iniziò a tremare, sentendo, con sollievo, l’uomo che si alzava poco prima della sua rovina a terra, spaventata non dalla propria fatica ma dall’idea che il suo cedimento potesse trascinare a terra anche il Dominante. Sapeva che la sua funzione era servire e soddisfare a costo delle sue sofferenze.
Il piede posato con forza sulla schiena schiacciandola a terra e la frusta, le sottolinearono la sua debolezza che, paradossalmente, avvertì come un difetto suo nel servire.
Si rese conto che quello era il suo unico pensiero, servire e soddisfare, provando piacere nel pensare che quegli sconosciuti potessero essere fieri di lei, oggetto dal quale si pretende senza alcuna riconoscenza.
Era ancora frastornata dalla fatica nell’impegno a reggere sulla schiena e dal dolore delle frustate quando si sentì la scarpa di un Padrone sul collo che la schiacciava con forza nella terra del prato. Non fece resistenza alcuna ma, anzi, agevolò l’operazione della Padrona che le ammanettò i polsi dietro alla schiena mentre era stesa a terra.
Vide i 4 Padroni tutti seduti sulle poltrone e si chiese dove fosse il marito, non potendolo vedere, dietro di sé, accucciato a terra, divenuto inutile con ancora indosso la sella, quale promessa di ulteriori utilizzi o, perché no, per essere dimenticato lì senza la voglia dei Padroni di liberarlo dalla bardatura.
Capì la sua funzione quando, ridendo, un Padrone le lanciò, abbastanza lontano da lei, una pizzetta dalla quale aveva già asportato un pezzo coi denti.
Nessuno le disse nulla ma il modo in cui accadde e la fame che la divorava, la spinsero a strisciare a terra, in quella posizione difficoltosa, dolorosa e, sicuramente, eccitante e divertente per i Padroni.
Non seppe quanto andarono avanti con quel gioco crudele e umiliante.
Perse il conto delle risate e delle frasi che la incitavano a muoversi chiamandola bestia, animale, cagna, verme, e si trovò a strisciare con maggiore velocità in quanto stavano iniziando ad annoiarsi.
Non seppe nemmeno se le frustate e i calci che le arrivarono erano dettati dalla volontà di farla accelerare oppure dal mero divertimento e sadismo.
Non seppe neppure quanto poté mangiare durante quel gioco, convinta che gli sforzi per raggiungere il cibo, a volte già masticato e sputato, richiedevano un dispendio di energie superiori a quelle ingoiate.
Il prato era morbido, curato e lei si sentiva di avere asportato tutta la terra che, ora, colorava il suo corpo, evidenziando il suo stato di “niente”, di “animale”, di “cosa” utile solo per il divertimento.
Sicuramente ebbe la conferma di avere eccitato e divertito i Padroni, quando questi ordinarono al marito di portarla a lavare, utilizzando la canna a disposizione per annaffiare il giardino.
L’acqua fredda ed il sapone ebbero il potere di rinfrancare ma non di restituire quella dignità che le era stata tolta a beneficio della eccitazione sua e dei Padroni.
Nemmeno si chiese se quella situazione avesse ottenuto il risultato di eccitare anche il marito, in quanto maggiormente concentrata sul piacere proprio e sulla soddisfazione di quello dei Padroni.
Non fece opposizione ma, anzi, agevolò l’apposizione ai capezzoli, offerti, per i morsetti radiocomandati.
Per tutto il tempo, peraltro breve, dell’operazione, restò inginocchiata, quasi timorosa di sporcarsi nuovamente le ginocchia, con la testa china, i polsi idealmente ammanettati ancora dietro la schiena e i capezzoli offerti.
Dovette, stando inginocchiata, succhiare il cazzo di un Padrone per volta, comodamente seduto sulla poltrona da giardino.
Il morsetto radiocomandato aveva la funzione, stringendosi ed allentandosi, di regolare la velocità del pompino a seconda del piacere del Padrone.
Quando l’uomo si riteneva soddisfatto, veniva fatta girare a 4 zampe e penetrata come una cagna fino a godere nella figa.
Il secondo Padrone la usò nel medesimo modo ma la volle scopare nel culo fino a goderle dentro.
Terminata la sua utilità, venne, con una spinta del piede, fatta accucciare a terra dalla cui posizione poté assistere al marito chiamato a soddisfare sessualmente le Padrone.
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