Schiava in carcere (parte 3)

Scritto da , il 2023-01-10, genere sadomaso

Vincenza era una donna cui la vita aveva imposto più anni rispetto a quelli che
effettivamente aveva e più esperienze rispetto a quelle che le sue spalle potevano sopportare.
Lo sguardo duro rifletteva le cicatrici interne. Era una donna sola, abituata a non fare affidamento su nessuno se non su persone che dovevano dipendere da lei per soldi o per minacce.
Adorava vedere il timore reverenziale in coloro che aveva di fronte ed era abituata a dare ordini e, soprattutto, a vederli eseguiti.
Strano e diverso invece il rapporto che voleva da quella bella donna che le aveva baciato i piedi.
Così come con gli uomini coi quali aveva fatto sesso, la eccitava vedere il desiderio di omaggiare il suo potere. Non aveva mai frequentato uomini del suo stesso livello, avendo invece privilegiato i servizi sessuali di coloro che, a lei inferiori, si prodigavano per darle piacere, anche umiliandosi.
Non dava ordini sessuali, non voleva schiavi sessuali. La eccitava guidare i detentori di cazzo al proprio soddisfacimento. Le piaceva essere lei a scopare il maschio e non viceversa.
Arianna, dopo il primo atto di sottomissione, non sapeva come comportarsi. Non le era piaciuto prostrarsi ai piedi di quella donna dallo sguardo di pietra, che le faceva tanta paura.
Così le restò lontana, anche perché le angherie per qualche giorno cessarono.
Quando venne costretta, in doccia, a soddisfare sessualmente due detenute dopo essere stata picchiata, si rese conto che la “protezione” era finita.
Non sapeva come comportarsi. Tuttavia quei giorni di tranquillità, nei quali vedeva gli sguardi cattivi verso di lei cui non seguiva azione alcuna, le diedero respiro e la fecero anche cominciare a dormire bene, cosa che da tempo non accadeva.
Decise di andare nuovamente da Enza. Non sapeva come comportarsi, come approcciarsi a quella donna e chiese solo di essere ricevuta.
La donna era seduta mentre lei rimase in piedi. Le parlò senza però avere riscontro alcuno, come se nulla avesse detto o, peggio, come se davanti a quella donna non ci fosse nessuno.
Decise di inginocchiarsi e di umiliarsi nuovamente ai suoi piedi.
Notò un minimo cenno di reazione che ebbe l’effetto di incoraggiarla appena.
Da quella donna dipendeva la sua tranquillità. Non sopportava più di avere paura ad ogni passo, di temere ogni qual volta, in doccia, qualcuna le si avvicinasse oppure che si aprisse una porta. Dietro ad ogni angolo lei vedeva una minaccia.
La protezione iniziale ricevuta da Enza ebbe l’effetto di collocarla ulteriormente al di fuori da ogni contesto e le altre detenute avevano perso qualsiasi considerazione verso di lei, visto che nemmeno era in grado di difendersi da sola.
La vedevano come una preda inerme, priva di alcuna difesa e, quindi, eccitante e divertente.
Capiva che le donne che si facevano rispettare, anche punite per le loro reazioni, alla fine godevano di considerazione e rispetto. Lei non ce la fece mai ad ottenere il rispetto e sarebbe stata sempre in balia delle aggressioni altrui.
Così fu quasi liberatorio il coraggio di chinarsi a terra, togliere le scarpe a quella donna potente e cominciare a leccarle i piedi, passando la lingua anche tra le dita ignorando il sapore che necessariamente andava ad incontrare lungo il percorso.
Non pensava più da tempo a quella strada appena fuori dalle mura del carcere che
quotidianamente, in una vita precedente, percorreva sulla sua Porsche.
Quella strada era sparita da tempo e non la vedeva nemmeno quando si soffermava ad
osservare dalla finestra.
La tregua durò solo mezza giornata. Pochissimo, troppo poco.
Cominciò a capire cosa voleva da lei Vincenza che, inaspettatamente, non le aveva mai dato ordini, limitandosi a ricevere il gesto di sottomissione.
Arianna capì che non avrebbe ricevuto alcuna disposizione ma, invece, avrebbe dovuto essere lei a sottomettersi, senza conoscere i limiti di questo insorgendo rapporto, dovendo invece capire i gusti di Enza dalle sue reazioni agli atti servili.
Appena vide qualcuna avvicinarsi a lei troppo minacciosamente senza tuttavia toccarla, decise di tornare da Vincenza.
Ormai aveva iniziato a capire le regole del gioco.
Appena entrata in cella si mise a 4 zampe e la raggiunse muovendosi sinuosamente, come sapeva fare per eccitare.
Aveva sempre usato il suo corpo per legare a sé gli uomini, per avere da loro favori o anche solo piacere estremo.
Fu molto eccitante nel suo procedere in quella umiliante postura, osservata con eccitazione dalle altre due donne nella stessa cella, invidiose di quanto stava per accadere.
Vincenza la vide arrivare ma continuò a parlare, come nulla fosse.
La eccitava vedere quella bella donna, sola, disperata, impaurita, che dipendeva dal suo capriccio per avere un minimo di tranquillità.
Fu Arianna, che lei chiamava Michelle per il suo accento francese e per il gusto di scegliere il nome di altra persona, come fosse cosa sua, la sua cagna, a divenire intraprendente e a salire con la lingua lungo la caviglia e la gamba, fino a fermarsi tra le sue cosce ed omaggiarla con un orgasmo.
Dopo averle fatto raggiungere il piacere decise di dimostrarle maggiormente la sua
devozione, avendo definitivamente capito che la sua pace dipendeva da quanto quella
donna fosse soddisfatta.
Restò accucciata a terra, stesa, offrendo il suo corpo ai piedi di colei che ormai considerava la sua Padrona.
Capì anche che lei avrebbe solo dovuto offrirsi, lasciando poi a Vincenza la scelta se approfittarne o meno.
Appagata dall’orgasmo, mentre fumava, le poggiò sopra i piedi, usandola come comodo ed eccitante cuscino.
Arianna cominciò a pensare a sé stessa col nuovo nome, Michelle, così come tutte ormai la chiamavano.
Le amiche strette di Vincenza, invece, cominciarono a chiamarla schiava o cagna. Solo loro potevano permetterselo anche se tutte le altre sapevano che era solo una schiava.
La considerazione verso di lei era svanita del tutto. Era solo un bel corpo ai piedi di una donna temuta, unica sua ancora di salvezza.
La stessa Padrona non aveva stima di lei se non come animaletto di compagnia.
Quando era libera adorava avere cani di piccola taglia. Le piaceva la loro devozione.
Ben sapendo che la sottomissione di Michelle fosse di mero interesse, la divertiva la sua finta devozione, la sua forzata sottomissione.
Come in tutte le cose nuove, dopo un periodo di assestamento, si raggiunge sempre un equilibrio, frutto delle reciproche conoscenze anche se, in questo caso, la conoscenza era solo da parte di Michelle verso i gusti della Padrona che avrebbe dovuto soddisfare.
Quelle poche ore giornaliere di umiliazione cominciarono a pesare sempre meno posto che facevano da contraltare alla tranquillità, alla possibilità di consumare pasti senza vedersi il vassoio gettato a terra con conseguente digiuno.
Ormai dormiva sonni tranquilli.
Quando osservava oltre le finestre osservava le persone che passavano a piedi, magari abbracciati o sorridenti. Alcuni litigavano ed altri stavano in silenzio.
Pensava alle occasioni perse, alla vita sentimentale mai cercata e quindi non goduta. Aveva però smesso di guardare oltre il muro di cinta in maniera tale da provare dolore dentro le pieghe dell’anima. La rassegnazione è un potente strumento per evitare la sofferenza e lei vi faceva ampio ricorso.
Nei mesi ormai trascorsi dalla sua incarcerazione, aveva visto arrivare altre detenute. Alcune erano donne che avevano vissuto la strada e sapevano reagire ed imporsi, trovando anche alcune conoscenze.
Altre erano come lei, donne che fuori avevano altra vita e ora catapultate in quello che prima consideravano un non mondo, al quale proprio mai avevano pensato. Tuttavia, dopo le prime angherie, erano riuscite a conquistarsi un minimo di rispetto, aderendo ad alcuni gruppi che le davano protezione.
Lei era stata incapace di riconoscere i gruppi e di fare una scelta. Aveva sbagliato tutto. Ora, osservando le altre nuove arrivate, aveva capito dove era stato il suo errore ma ora, dopo avere perso il rispetto di tutte, non avrebbe più avuto la possibilità di uscire dalla sua situazione.
Persino le nuove arrivate, che prima appartenevano al suo stesso mondo, non avevano rispetto di lei. La guardavo con sufficienza e senza considerazione, ormai integrate nella nuova mentalità secondo la quale con le perdenti non ci si deve avere nulla a che fare e, anzi, disprezzarle per la loro debolezza.
Gettò la sigaretta fuori dalla grata. Aveva sempre odiato quel vizio e le persone che puzzavano di fumo. Aveva iniziato a fumare da tempo, così come aveva iniziato anche a lasciarsi andare nel corpo, finchè la sua Padrona le fece capire che voleva avere una schiava bella, non come tutte le altre lì dentro e, così, la sua protezione sarebbe dipesa anche dalla sua bellezza che, se avesse perso, l’avrebbe privata di quella garanzia di tranquillità che la faceva dormire serena.
Non guardò nemmeno il mozzicone raggiungere terra in quanto avrebbe dovuto recarsi a strisciare ai piedi della sua Padrona.

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