Il burbero e la vedova
di
Ripe (with decay)
genere
sentimentali
Sapevo che non se la passava troppo bene. Comprensibile, visto che era rimasta vedova.
Stavo finendo dei lavori in casa della coppia quando lui era mancato. Avevo ripreso a bazzicare di tanto in tanto per consentirle di viverci decentemente, ma non osavo avanzare richieste economiche che sapevo in parte inesigibili. Ci eravamo alla fine accordati per una rateizzazione che non facesse male a nessuno dei due.
Da certe allusioni buttate lì per caso capii come il defunto soffrisse il vizio del gioco. Lei non si era opposta per non guastare il rapporto anche se monitorava con attenzione. Non c’era pericolo che potesse rovinare la famiglia, non fino alla sua morte.
L’assicurazione sul mutuo aveva chiuso la metà restante del marito. Ma rimanevano tutte le altre spese vive. E con due figli nel bel mezzo degli studi lei aveva difficoltà a farvi fronte.
“Vede”, si lamentava, “dovrei rimettere a posto qui e qui, ma come faccio?”.
Non erano problematiche che riguardassero i lavori eseguiti da me. “Non è niente di così difficile”, la rassicurati.
La tipa lavorava da casa – è un bel risparmio ammetteva – e stava preparando il caffè. “Buon per lei che è un uomo e certi lavori li sa fare”. Poi, mentre porgeva la tazzina, chiese timidamente: “Si intende di mobili?”.
“Bè, in verità sì”.
La cosa cadde lì.
Eravamo d’accordo che sarei tornato un mese dopo ad eseguire un’altra piccola tranche e a prendere qualche soldo. Ma al momento di darmi quelle poche centinaia di euro si lasciò sfuggire che aveva fuso la macchina e che ormai le conveniva cambiarla. Altra spesa imprevista. Aveva gli occhi lucidi mentre me lo confessava.
“Non si preoccupi”, la rassicurai. “Io sono solo, ho meno necessità a cui far fronte purtroppo”.
Non mi ero mai sposato, né impegnato in alcun modo. Non avevo figli. Bastavo a me stesso. Ma devo dire che superati i cinquanta tale condizione cominciava a pesarmi. Ero senza radici: solo il lavoro. Iniziavo a starmi stretto.
“Perché dice purtroppo?”.
L'avrei detta risentita. Non capiva che entrambi avevamo i nostri problemi. Problemi diversi, ma pur sempre problemi.
“Ha due bravi ragazzi, una bella casa…”
“Da finire di pagare i muri e i lavori”, mi corresse.
“Solo alle tasse e alla morte non c’è rimedio”.
Avevo poco da fare quel giorno, ma rimasi fino quasi a pranzo.
La verità è che quella donna mi piaceva. Era sensibile, intelligente, volitiva nella disgrazia. Forse a volte cedeva troppo al lamento, ma non lo ritenevo un segno di debolezza. La sua compagnia era qualcosa a cui non volevo rinunciare.
“Se lo ricorda quel problema dei mobili” disse con imbarazzo.
“Non ha risolto?”. Questo argomento mi consentiva di guadagnare ancora qualche minuto prima di essere costretto ad andare via.
Scosse il capo. “Ma non ho i soldi, non ho i soldi” quasi gridò. “Per me è inammissibile. Ho sempre fatto fronte ai miei impegni, e adesso…”
“Non si preoccupi in anticipo. Vediamo qual è il problema”.
Mi condusse in camera da letto. Riguardava l’armadio. Con le sue manie di grandezza il marito aveva voluto commissionare i lavori ad un falegname, che naturalmente non ci sentiva dall’orecchio della misericordia. Niente spiccioli, niente cammello.
Io ascoltavo e guardavo ma l’occhio non faceva che cadermi su quel letto vuoto per metà. Non c’è niente di più triste di un letto matrimoniale che la morte ha separato.
“Quanto potrebbe costarmi?”
“Pensavo fosse meno laborioso. Così sui due piedi non saprei”.
“Non posso rimanere ancora a lungo accampata, ma non posso pagarla”.
Diventai con mia sorpresa audace in modo azzardato. “Esistono altri modi per pagare un uomo”.
Non la prese bene. Aveva impiegato un po' per elaborare la proposta, e pochissimo per capirne l’indecenza. E da lì era montata la furia. “Lei… lei… è impazzito? Mio marito è morto da poco, e ciò che ha detto è inaccettabile”.
Avrebbe potuto denunciarmi per molestie, o minacciare di farlo. Invece glissò sull’argomento. Divenni io molto argomentativo. “Non sto chiedendo un rapporto completo, se è ancora così legata a suo marito. Mi basta usare la lingua”.
Era un secolo che non avevo a che fare con donne. Avevo smesso di interessarmene. Ma l’unica che mi provocava l’antico gusto dell’eccitazione era questa davanti a me.
“Lei mi piace, e da morire”.
Era vero. Benché non fosse bella, io la trovavo meravigliosa. Volto lungo, mento deciso, fianchi larghi, da madre e amante.
“Non le chiedo una risposta immediata. Se decide, ha il mio numero di telefono. Prima il lavoro, poi il pagamento”. Forse non avevo scelto le parole più adatte.
Mi accompagnò alla porta con grande compostezza. “Se ne vada, la prego”.
Pensai che non l’avrei mai più rivista. Invece, una settimana dopo, mi recapitò un messaggio. Venga, diceva quel messaggio.
Feci quello che dovevo fare. Lei era imbarazzata, sprofondava nella vergogna. Aveva un visino così spaurito e dolce che io mi sentivo esplodere. Una sola espressione non avevo mai visto dipinta su quel volto, quella che per anni era stata di esclusivo appannaggio del defunto marito. Non me ne sarei andato senza.
“Dove?”. Le parole le uscivano a fatica di bocca.
Anche a me. Indicai il divano. Mentre ci si dirigeva piombai alle sue spalle, le affondai l’erezione contro le natiche e chiuse la mani a coppa sui suoi seni. La sentii fremere: i suoi capezzoli erano già duri. Si afflosciò contro lo schienale, protendendo i glutei sul bordo dei cuscini. Era nuda.
Accarezzai la morbidezza vellutata della sua pelle. Poi, con il cuore in tumulto per la voglia, l’assaggiai. La sua fica aveva un gusto indecifrabile, dolceamaro. Mi piacque da morire. Ero così digiuno che mangiai con una frenesia da affamato cronico. Capii che lei stava imponendosi il silenzio per non farmi capire quanto in realtà provasse piacere.
Il marito era morto ormai da un anno, e doveva aver rinunciato a qualunque forma di soddisfazione sessuale perché quando giunse al culmine gridò, si inarcò con uno scatto e mi inondò la faccia del suo orgasmo.
Aveva rispettato i patti, ma io non volevo andarmene a mani vuote. Mi misi cavalcioni e mi masturbai fino a venirle addosso. Anche per me l’astinenza era stata troppo lunga.
Ci lasciammo senza una parola. Ora ero sicuro che non ci sarebbe stato un seguito. Mi ero per sempre privato della compagnia estemporanea di quella donna speciale per poterla conoscere intimamente. Il mio pentimento fu assoluto e totale. A lungo meditai di chiamarla per chiedere di dimenticare quanto accaduto, che avrei proseguito i lavori senza pretendere l’inaccettabile. Desistetti.
Fu di nuovo lei con mia grande sorpresa a concedermi una seconda opportunità. Vieni. Nient’altro. Ma quel passaggio al tu aprì il mio cuore come se la primavera avesse fatto sbocciare un sconfinato campo di fiori.
Quando ci incontrammo lei era ancora un po' ritrosa, ma sorrise maliziosa per tutto il tempo. Io scherzavo come uno scemo, lei rideva. Alla fine della giornata di lavoro ebbi il mio premio.
Gli intervalli dei nostri incontri si fecero sempre più brevi, sempre più concitati. Io mi accontentavo di darle quel poco di piacere che potevo. Io ero il suo benefattore, lei la mia benefattrice.
Divenni ingordo. Mi sentivo morire se passava troppo tempo dall’ultima volta che avevo infilato la testa in mezzo alle sue cosce, che avevo passato la lingua sulla sua fica.
Poi un giorno trovai la mia roba vicino alla porta. Per confermare l’abitudine avevo fatto in modo di lasciare dell’attrezzatura in quella casa, cosicché lei non potesse rifiutarmi. Invece scoprii che lo stava facendo. Mi rassegnai.
Per l’occasione non volle neppure le mie prestazioni professionali. Con la morte nel cuore mi accinsi a godere con lei e di lei per l’ultima volta.
Mi sentii acchiappare sotto le ascelle e tirar via da in mezzo alle sue gambe con una forza che non avrei mai immaginato. “Ora basta” ordinò. “Scopami, scopami!”. Ubbidii senza farmelo ripetere.
Da quel giorno smisi di andare a farle i lavoretti e a riscuotere pagamenti in natura. Mi sono trasferito da lei perché ora lei è la mia compagna. L’amore lo facciamo a letto – nel nostro letto.
Siamo così convinti che ho ceduto in usufrutto l’appartamento in cui per anni ho abitato solo come un cane a mia sorella. Ha due figli e una casa in affitto troppo piccola per le esigenze di una coppia con bambini piccoli.
E i figli della mia compagna? Si sono abituati alla mia presenza. Lo so che non mi chiameranno mai papà, ma non avanzo simili pretese. Mi vogliono bene e io ne voglio a loro.
E mentre il tempo passa io ammiro la mia donna e la trovo sempre più bella, la desidero sempre di più.
Nutro ogni tanto il rammarico di non averla conosciuta prima. Ma forse è meglio così. Forse se ci fossimo incontrati troppo presto ora avremmo smesso di stare insieme.
Stavo finendo dei lavori in casa della coppia quando lui era mancato. Avevo ripreso a bazzicare di tanto in tanto per consentirle di viverci decentemente, ma non osavo avanzare richieste economiche che sapevo in parte inesigibili. Ci eravamo alla fine accordati per una rateizzazione che non facesse male a nessuno dei due.
Da certe allusioni buttate lì per caso capii come il defunto soffrisse il vizio del gioco. Lei non si era opposta per non guastare il rapporto anche se monitorava con attenzione. Non c’era pericolo che potesse rovinare la famiglia, non fino alla sua morte.
L’assicurazione sul mutuo aveva chiuso la metà restante del marito. Ma rimanevano tutte le altre spese vive. E con due figli nel bel mezzo degli studi lei aveva difficoltà a farvi fronte.
“Vede”, si lamentava, “dovrei rimettere a posto qui e qui, ma come faccio?”.
Non erano problematiche che riguardassero i lavori eseguiti da me. “Non è niente di così difficile”, la rassicurati.
La tipa lavorava da casa – è un bel risparmio ammetteva – e stava preparando il caffè. “Buon per lei che è un uomo e certi lavori li sa fare”. Poi, mentre porgeva la tazzina, chiese timidamente: “Si intende di mobili?”.
“Bè, in verità sì”.
La cosa cadde lì.
Eravamo d’accordo che sarei tornato un mese dopo ad eseguire un’altra piccola tranche e a prendere qualche soldo. Ma al momento di darmi quelle poche centinaia di euro si lasciò sfuggire che aveva fuso la macchina e che ormai le conveniva cambiarla. Altra spesa imprevista. Aveva gli occhi lucidi mentre me lo confessava.
“Non si preoccupi”, la rassicurai. “Io sono solo, ho meno necessità a cui far fronte purtroppo”.
Non mi ero mai sposato, né impegnato in alcun modo. Non avevo figli. Bastavo a me stesso. Ma devo dire che superati i cinquanta tale condizione cominciava a pesarmi. Ero senza radici: solo il lavoro. Iniziavo a starmi stretto.
“Perché dice purtroppo?”.
L'avrei detta risentita. Non capiva che entrambi avevamo i nostri problemi. Problemi diversi, ma pur sempre problemi.
“Ha due bravi ragazzi, una bella casa…”
“Da finire di pagare i muri e i lavori”, mi corresse.
“Solo alle tasse e alla morte non c’è rimedio”.
Avevo poco da fare quel giorno, ma rimasi fino quasi a pranzo.
La verità è che quella donna mi piaceva. Era sensibile, intelligente, volitiva nella disgrazia. Forse a volte cedeva troppo al lamento, ma non lo ritenevo un segno di debolezza. La sua compagnia era qualcosa a cui non volevo rinunciare.
“Se lo ricorda quel problema dei mobili” disse con imbarazzo.
“Non ha risolto?”. Questo argomento mi consentiva di guadagnare ancora qualche minuto prima di essere costretto ad andare via.
Scosse il capo. “Ma non ho i soldi, non ho i soldi” quasi gridò. “Per me è inammissibile. Ho sempre fatto fronte ai miei impegni, e adesso…”
“Non si preoccupi in anticipo. Vediamo qual è il problema”.
Mi condusse in camera da letto. Riguardava l’armadio. Con le sue manie di grandezza il marito aveva voluto commissionare i lavori ad un falegname, che naturalmente non ci sentiva dall’orecchio della misericordia. Niente spiccioli, niente cammello.
Io ascoltavo e guardavo ma l’occhio non faceva che cadermi su quel letto vuoto per metà. Non c’è niente di più triste di un letto matrimoniale che la morte ha separato.
“Quanto potrebbe costarmi?”
“Pensavo fosse meno laborioso. Così sui due piedi non saprei”.
“Non posso rimanere ancora a lungo accampata, ma non posso pagarla”.
Diventai con mia sorpresa audace in modo azzardato. “Esistono altri modi per pagare un uomo”.
Non la prese bene. Aveva impiegato un po' per elaborare la proposta, e pochissimo per capirne l’indecenza. E da lì era montata la furia. “Lei… lei… è impazzito? Mio marito è morto da poco, e ciò che ha detto è inaccettabile”.
Avrebbe potuto denunciarmi per molestie, o minacciare di farlo. Invece glissò sull’argomento. Divenni io molto argomentativo. “Non sto chiedendo un rapporto completo, se è ancora così legata a suo marito. Mi basta usare la lingua”.
Era un secolo che non avevo a che fare con donne. Avevo smesso di interessarmene. Ma l’unica che mi provocava l’antico gusto dell’eccitazione era questa davanti a me.
“Lei mi piace, e da morire”.
Era vero. Benché non fosse bella, io la trovavo meravigliosa. Volto lungo, mento deciso, fianchi larghi, da madre e amante.
“Non le chiedo una risposta immediata. Se decide, ha il mio numero di telefono. Prima il lavoro, poi il pagamento”. Forse non avevo scelto le parole più adatte.
Mi accompagnò alla porta con grande compostezza. “Se ne vada, la prego”.
Pensai che non l’avrei mai più rivista. Invece, una settimana dopo, mi recapitò un messaggio. Venga, diceva quel messaggio.
Feci quello che dovevo fare. Lei era imbarazzata, sprofondava nella vergogna. Aveva un visino così spaurito e dolce che io mi sentivo esplodere. Una sola espressione non avevo mai visto dipinta su quel volto, quella che per anni era stata di esclusivo appannaggio del defunto marito. Non me ne sarei andato senza.
“Dove?”. Le parole le uscivano a fatica di bocca.
Anche a me. Indicai il divano. Mentre ci si dirigeva piombai alle sue spalle, le affondai l’erezione contro le natiche e chiuse la mani a coppa sui suoi seni. La sentii fremere: i suoi capezzoli erano già duri. Si afflosciò contro lo schienale, protendendo i glutei sul bordo dei cuscini. Era nuda.
Accarezzai la morbidezza vellutata della sua pelle. Poi, con il cuore in tumulto per la voglia, l’assaggiai. La sua fica aveva un gusto indecifrabile, dolceamaro. Mi piacque da morire. Ero così digiuno che mangiai con una frenesia da affamato cronico. Capii che lei stava imponendosi il silenzio per non farmi capire quanto in realtà provasse piacere.
Il marito era morto ormai da un anno, e doveva aver rinunciato a qualunque forma di soddisfazione sessuale perché quando giunse al culmine gridò, si inarcò con uno scatto e mi inondò la faccia del suo orgasmo.
Aveva rispettato i patti, ma io non volevo andarmene a mani vuote. Mi misi cavalcioni e mi masturbai fino a venirle addosso. Anche per me l’astinenza era stata troppo lunga.
Ci lasciammo senza una parola. Ora ero sicuro che non ci sarebbe stato un seguito. Mi ero per sempre privato della compagnia estemporanea di quella donna speciale per poterla conoscere intimamente. Il mio pentimento fu assoluto e totale. A lungo meditai di chiamarla per chiedere di dimenticare quanto accaduto, che avrei proseguito i lavori senza pretendere l’inaccettabile. Desistetti.
Fu di nuovo lei con mia grande sorpresa a concedermi una seconda opportunità. Vieni. Nient’altro. Ma quel passaggio al tu aprì il mio cuore come se la primavera avesse fatto sbocciare un sconfinato campo di fiori.
Quando ci incontrammo lei era ancora un po' ritrosa, ma sorrise maliziosa per tutto il tempo. Io scherzavo come uno scemo, lei rideva. Alla fine della giornata di lavoro ebbi il mio premio.
Gli intervalli dei nostri incontri si fecero sempre più brevi, sempre più concitati. Io mi accontentavo di darle quel poco di piacere che potevo. Io ero il suo benefattore, lei la mia benefattrice.
Divenni ingordo. Mi sentivo morire se passava troppo tempo dall’ultima volta che avevo infilato la testa in mezzo alle sue cosce, che avevo passato la lingua sulla sua fica.
Poi un giorno trovai la mia roba vicino alla porta. Per confermare l’abitudine avevo fatto in modo di lasciare dell’attrezzatura in quella casa, cosicché lei non potesse rifiutarmi. Invece scoprii che lo stava facendo. Mi rassegnai.
Per l’occasione non volle neppure le mie prestazioni professionali. Con la morte nel cuore mi accinsi a godere con lei e di lei per l’ultima volta.
Mi sentii acchiappare sotto le ascelle e tirar via da in mezzo alle sue gambe con una forza che non avrei mai immaginato. “Ora basta” ordinò. “Scopami, scopami!”. Ubbidii senza farmelo ripetere.
Da quel giorno smisi di andare a farle i lavoretti e a riscuotere pagamenti in natura. Mi sono trasferito da lei perché ora lei è la mia compagna. L’amore lo facciamo a letto – nel nostro letto.
Siamo così convinti che ho ceduto in usufrutto l’appartamento in cui per anni ho abitato solo come un cane a mia sorella. Ha due figli e una casa in affitto troppo piccola per le esigenze di una coppia con bambini piccoli.
E i figli della mia compagna? Si sono abituati alla mia presenza. Lo so che non mi chiameranno mai papà, ma non avanzo simili pretese. Mi vogliono bene e io ne voglio a loro.
E mentre il tempo passa io ammiro la mia donna e la trovo sempre più bella, la desidero sempre di più.
Nutro ogni tanto il rammarico di non averla conosciuta prima. Ma forse è meglio così. Forse se ci fossimo incontrati troppo presto ora avremmo smesso di stare insieme.
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