Primo pompino di Sara
          
            
              di
Panny
            
            
              genere
prime esperienze
            
          
        
        
          Mi chiamo Sara, ho diciotto anni e frequento l’ultimo anno di superiori. Non sono il tipo di ragazza che si nota: occhiali spessi, capelli castani sempre raccolti in una coda disordinata, un viso anonimo che si perde tra i banchi. Nessuno mi guarda due volte, e io mi sono abituata a stare nell’ombra, a osservare senza essere osservata.
Quel giorno, però, tutto è cambiato per una stupida scommessa. Eravamo in pochi in classe – i “recupero” come noi, quelli che saltano le lezioni inutili – e Mattia, il ragazzo più figo della scuola, con i suoi capelli neri arruffati e quel sorriso da stronzo che faceva impazzire tutte, ha proposto un gioco. “Verità o penitenza”, ha detto, ridendo. Io, per chissà quale motivo, ho accettato la penitenza senza pensarci troppo. Non volevo sembrare una codarda.
«Vieni con me», mi ha sussurrato all’orecchio, prendendomi per un polso. Il cuore mi batteva forte mentre lo seguivo lungo il corridoio deserto, fino ai bagni dei maschi al piano terra. La scuola era quasi vuota, i rumori lontani, e l’idea di essere lì con lui mi faceva tremare le gambe.
Solo quando ha chiuso la porta a chiave e si è slacciato la cintura ho capito. «La penitenza è questa, Sara. Un pompino. Le scommesse si mantengono, no?»
Sono rimasta paralizzata. «Io… non so fare… non voglio…», ho balbettato, la voce che mi usciva in un filo. Ma lui mi ha guardata con quegli occhi scuri, un ghigno lento sulle labbra. «Dai, non fare la bambina. È solo un gioco. E poi, chi lo saprà mai?»
Non so come, ma mi sono ritrovata in ginocchio sul pavimento freddo del bagno. Mattia si era abbassato i jeans, e il suo cazzo – grosso, venoso, già duro – mi stava davanti agli occhi. Ho deglutito, le guance in fiamme. Non avevo mai toccato un ragazzo, figuriamoci… questo. Con mani tremanti l’ho preso, sentendo il calore sotto le dita. Lui ha sospirato, impaziente.
«Succhialo, Sara. Apri la bocca».
Ho obbedito, timida, impacciata. Le labbra si sono chiuse intorno alla cappella, e il sapore salato mi ha riempita la bocca. Ho provato a muovermi piano, su e giù, ma non sapevo cosa fare. Lui ha ridacchiato, poi ha afferrato i miei capelli e ha spinto. Tutto in una volta. Il suo cazzo mi ha riempito la gola, troppo grosso, troppo profondo. Ho avuto un conato, gli occhi che si sono riempiti di lacrime per lo sforzo, ma non piangevo. Solo il riflesso.
«Brava, così», ha mormorato, tenendomi la testa ferma. In quel momento la porta si è aperta. Passi. Qualcuno è entrato, si è avvicinato al lavandino. L’acqua ha iniziato a scorrere. Io ero lì, in ginocchio, con la bocca piena, il cuore che mi scoppiava nel petto. Mattia mi ha guardata, un dito sulle labbra. Silenzio. Ha spinto ancora più a fondo, il suo cazzo che mi ostruiva la gola, e io ho trattenuto il respiro, le lacrime che mi rigavano le guance.
Il ragazzo si è lavato le mani, ha chiuso il rubinetto, è uscito. La porta ha sbattuto. Solo allora Mattia ha ripreso a muoversi, afferrandomi la testa con entrambe le mani. «Ora sì che ci siamo. Impegnati, Sara. Fai la brava. Succhialo come una troietta».
Le sue parole mi hanno colpita come schiaffi, ma non ho fermato. Anzi, qualcosa dentro di me si è acceso. Ogni tanto si chinava, mi sputava in faccia – un filo caldo sulla guancia – o in bocca, mentre il suo cazzo entrava e usciva. «Ingoia», ordinava, e io lo facevo, obbediente. Poi, dolce ma deciso, mi dava qualche schiaffetto sulla guancia. Non forte, ma abbastanza da farmi arrossire, da stupirmi. Perché mi piaceva?
Ho continuato, sempre più goffa, sempre più bagnata tra le gambe senza capire perché. Lui gemeva, la presa sui miei capelli si stringeva. «Ci sono, Sara… apri bene…»
È venuto con un grugnito basso, riversandomi tutto in bocca. Caldo, denso, salato. Mi ha tenuto la testa giù, obbligandomi a ingoiare ogni goccia. «Brava. Tutta».
Quando ha finito, si è ritratto, si è sistemato i jeans. Io ero ancora in ginocchio, la bocca gonfia, il viso umido di saliva e lacrime. Mi ha guardata dall’alto, un sorriso soddisfatto. «Ormai non è più vergine, quella tua boccuccia». Poi ha aperto la porta ed è uscito, lasciandomi lì.
Mi sono alzata piano, le gambe molli. Mi sono sciacquata la faccia al lavandino, ho sistemato i capelli. Sono tornata in classe, ho preso lo zaino senza dire una parola a nessuno. Fuori, il sole era caldo, ma dentro di me bruciava altro. Camminavo verso casa, le mutandine fradice, il cuore che batteva ancora forte.
Non ero più la stessa Sara. E, in fondo, non volevo più esserlo.
u6753739252@gmail.com
        
        Quel giorno, però, tutto è cambiato per una stupida scommessa. Eravamo in pochi in classe – i “recupero” come noi, quelli che saltano le lezioni inutili – e Mattia, il ragazzo più figo della scuola, con i suoi capelli neri arruffati e quel sorriso da stronzo che faceva impazzire tutte, ha proposto un gioco. “Verità o penitenza”, ha detto, ridendo. Io, per chissà quale motivo, ho accettato la penitenza senza pensarci troppo. Non volevo sembrare una codarda.
«Vieni con me», mi ha sussurrato all’orecchio, prendendomi per un polso. Il cuore mi batteva forte mentre lo seguivo lungo il corridoio deserto, fino ai bagni dei maschi al piano terra. La scuola era quasi vuota, i rumori lontani, e l’idea di essere lì con lui mi faceva tremare le gambe.
Solo quando ha chiuso la porta a chiave e si è slacciato la cintura ho capito. «La penitenza è questa, Sara. Un pompino. Le scommesse si mantengono, no?»
Sono rimasta paralizzata. «Io… non so fare… non voglio…», ho balbettato, la voce che mi usciva in un filo. Ma lui mi ha guardata con quegli occhi scuri, un ghigno lento sulle labbra. «Dai, non fare la bambina. È solo un gioco. E poi, chi lo saprà mai?»
Non so come, ma mi sono ritrovata in ginocchio sul pavimento freddo del bagno. Mattia si era abbassato i jeans, e il suo cazzo – grosso, venoso, già duro – mi stava davanti agli occhi. Ho deglutito, le guance in fiamme. Non avevo mai toccato un ragazzo, figuriamoci… questo. Con mani tremanti l’ho preso, sentendo il calore sotto le dita. Lui ha sospirato, impaziente.
«Succhialo, Sara. Apri la bocca».
Ho obbedito, timida, impacciata. Le labbra si sono chiuse intorno alla cappella, e il sapore salato mi ha riempita la bocca. Ho provato a muovermi piano, su e giù, ma non sapevo cosa fare. Lui ha ridacchiato, poi ha afferrato i miei capelli e ha spinto. Tutto in una volta. Il suo cazzo mi ha riempito la gola, troppo grosso, troppo profondo. Ho avuto un conato, gli occhi che si sono riempiti di lacrime per lo sforzo, ma non piangevo. Solo il riflesso.
«Brava, così», ha mormorato, tenendomi la testa ferma. In quel momento la porta si è aperta. Passi. Qualcuno è entrato, si è avvicinato al lavandino. L’acqua ha iniziato a scorrere. Io ero lì, in ginocchio, con la bocca piena, il cuore che mi scoppiava nel petto. Mattia mi ha guardata, un dito sulle labbra. Silenzio. Ha spinto ancora più a fondo, il suo cazzo che mi ostruiva la gola, e io ho trattenuto il respiro, le lacrime che mi rigavano le guance.
Il ragazzo si è lavato le mani, ha chiuso il rubinetto, è uscito. La porta ha sbattuto. Solo allora Mattia ha ripreso a muoversi, afferrandomi la testa con entrambe le mani. «Ora sì che ci siamo. Impegnati, Sara. Fai la brava. Succhialo come una troietta».
Le sue parole mi hanno colpita come schiaffi, ma non ho fermato. Anzi, qualcosa dentro di me si è acceso. Ogni tanto si chinava, mi sputava in faccia – un filo caldo sulla guancia – o in bocca, mentre il suo cazzo entrava e usciva. «Ingoia», ordinava, e io lo facevo, obbediente. Poi, dolce ma deciso, mi dava qualche schiaffetto sulla guancia. Non forte, ma abbastanza da farmi arrossire, da stupirmi. Perché mi piaceva?
Ho continuato, sempre più goffa, sempre più bagnata tra le gambe senza capire perché. Lui gemeva, la presa sui miei capelli si stringeva. «Ci sono, Sara… apri bene…»
È venuto con un grugnito basso, riversandomi tutto in bocca. Caldo, denso, salato. Mi ha tenuto la testa giù, obbligandomi a ingoiare ogni goccia. «Brava. Tutta».
Quando ha finito, si è ritratto, si è sistemato i jeans. Io ero ancora in ginocchio, la bocca gonfia, il viso umido di saliva e lacrime. Mi ha guardata dall’alto, un sorriso soddisfatto. «Ormai non è più vergine, quella tua boccuccia». Poi ha aperto la porta ed è uscito, lasciandomi lì.
Mi sono alzata piano, le gambe molli. Mi sono sciacquata la faccia al lavandino, ho sistemato i capelli. Sono tornata in classe, ho preso lo zaino senza dire una parola a nessuno. Fuori, il sole era caldo, ma dentro di me bruciava altro. Camminavo verso casa, le mutandine fradice, il cuore che batteva ancora forte.
Non ero più la stessa Sara. E, in fondo, non volevo più esserlo.
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