Zona Rossa

di
genere
etero

Era il periodo della zona rossa più severa del Covid. Uscire di casa era consentito solo per motivi essenziali: spesa, salute o lavoro indispensabile. Le strade erano vuote, le saracinesche abbassate, le ambulanze un sottofondo costante. Dai balconi pendevano lenzuola con la scritta “Andrà tutto bene” e bandiere tricolori sbiadite dal vento. Io, Giovanna, trentadue anni, single, vivevo da sola in un appartamento al terzo piano di un palazzo anni Settanta in una zona semicentrale. I miei genitori, prima della pandemia, si erano trasferiti in campagna per stare vicino alla nonna malata e mi avevano lasciato la casa perché il mio ufficio era a due passi a piedi. Poi era arrivato lo smart working e, in un certo senso, era stato anche meglio: niente code, niente metro, solo silenzio e videocall. Ma anche tanta, troppa solitudine.
L’unico contatto umano regolare era Pasquale, il vicino del piano di sotto. Cinquantotto anni, divorziato da tempo, sempre vissuto lì. Lo conoscevo da quando ero bambina: per me era sempre stato il “vicino affidabile”, quello che ti portava il panettone buono a Natale, l’uovo di Pasqua enorme “per la piccolina” (anche se ormai ero grande da un pezzo), che ti sistemava la tapparella rotta o ti prestava la chiave inglese senza mai chiedere nulla in cambio. I miei genitori si fidavano ciecamente di lui e, prima di partire, la mamma gli aveva telefonato apposta: «Pasquà, occhio alla mia figlia, eh? Non farla uscire da sola». Lui aveva risposto con quella voce bassa, calda: «Signora, state sereni, ci penso io».
Così, ogni giovedì pomeriggio, citofono: «Giovanna, scendi tra cinque minuti che andiamo?». Io non avevo macchina – l’avevo lasciata ai miei quando si erano trasferiti – e il supermercato più fornito era troppo lontano con le borse pesanti. Pasquale aveva la sua vecchia Punto grigia e faceva la spesa grossa una volta a settimana. Era diventato il mio passaggio fisso, la mia unica piccola avventura.
Una mattina di metà settimana, però, le cose presero una piega diversa.
Ero appena sveglia, capelli arruffati, ancora avvolta nella vestaglia leggera di cotone che arrivava appena sotto il sedere. Sotto avevo solo la canottierina bianca senza reggiseno e i pantaloni lunghi del pigiama, di un cotone chiaro, sottile, quasi velato in controluce. Non portavo mai mutandine per dormire: troppo caldo, troppo fastidioso. Il tessuto aderiva alla pelle, disegnava le curve del sedere, lasciava intravedire la linea profonda tra le natiche quando mi muovevo.
Bussarono alla porta. Tre colpi decisi ma educati.
Andai ad aprire senza pensarci. Era Pasquale, in tuta grigia da casa, capelli ancora umidi di doccia.
«Scusa il disturbo, Giovà… m’è finito il caffè. Ne avresti una tazzina da prestarmi?»
Lo guardai, la voce ancora impastata. Invece di andare a prendere il pacchetto, dissi: «Entra, te lo preparo io. Tanto sono sola, lo beviamo insieme».
Esitò un secondo, guardò il corridoio vuoto dietro di sé, poi entrò. «Sicura? Non ti disturbo?» «No, anzi. Mi fai compagnia».
Chiuse la porta con un clic morbido. Restammo fermi un attimo nell’ingresso, come se avessimo fatto qualcosa di proibito.
«Siediti pure», dissi indicando i due sgabelli alti vicino alla penisola della cucina. Si tolse le ciabatte, venne avanti e si sedette, le mani grosse sul marmo, le spalle larghe che occupavano tutto lo spazio.
Io restai in piedi dall’altro lato, tra lui e i fornelli. Mi girai per preparare la moka, gli diedi le spalle. Sentii i suoi occhi su di me: sulla vestaglia corta, sui pantaloni chiari che in quella luce lasciavano intravedire la pelle nuda sotto, sul modo in cui la stoffa si tendeva quando mi alzavo sulle punte. Non mi voltai, ma lo sentivo. E mi piaceva. In quelle settimane di isolamento mi ero sentita invisibile; essere guardata così, con apprezzamento semplice, maschile, mi faceva sentire di nuovo viva, desiderata. Non pensavo ci fosse altro dietro. Solo uno sguardo gentile che mi scaldava dentro.
Parlammo del più e del meno mentre il caffè gorgogliava. Dei miei colleghi in videocall, del suo reparto tutto maschi («Peccato, nemmeno un calendario di donne nude», disse con un sorriso ironico). Scoppiammo a ridere insieme, una risata bassa, complice, che sciolse l’aria.
Quando il caffè fu pronto lo versai nelle tazzine e le portai sul vassoio. Mi chinai appena: la vestaglia si aprì sul davanti, la canottierina si tese sul seno libero. Lui mi guardò dritto, senza più nasconderlo. Mi piaceva. Non mi aspettavo nulla di più.
Bevemmo piano. Poi mi chiese se quel giorno sarei andata con lui per la spesa. Annuì con la testa. «Perfetto, ci vediamo fra un’ora e mezza, così ti prepari con calma». «Sì, mi faccio una doccia. Ci vediamo sotto il portico». «Certo. Prenditi tutto il tempo».
Sparecchiò da solo, lavò le tazzine mentre io andai in bagno. Non chiusi la porta a chiave – non l’avevo mai fatto.
Sotto la doccia mi insaponai lentamente, passando le mani su ogni centimetro di pelle. Mi soffermai sui seni, sulla pancia morbida, tra le gambe. Verso la fine presi il rasoio e sistemai i peli dell’intimità: li accorciai, lasciai solo una striscia corta e curata lungo le labbra. Lo feci per me stessa, perché mi piaceva guardarmi nuda allo specchio e sentirmi bella, ordinata, curata. In quarantena mi ero lasciata andare; quel giorno volevo coccolarmi.
Uscii, asciugai lo specchio appannato e mi guardai a lungo. Mi piacque ciò che vidi: la pelle arrossata, i capezzoli duri, la rasatura fresca. Sorrisi al mio riflesso. Mi sentivo desiderabile, anche se solo per me stessa.
Mi vestii senza fretta: mutandine brasiliane lilla senza cuciture – le feci scivolare piano lungo le gambe, sentendo il tessuto fresco sulla pelle appena curata –, jeans elasticizzato che mi fasciava i fianchi e il sedere, maglia bianca morbida, felpa nera con cappuccio e cerniera. Niente reggiseno: il mio seno è sodo, sta su da solo, e mi piaceva la sensazione del cotone direttamente sulla pelle.
Scesi puntuale. Pasquale era già lì, appoggiato alla Punto, mascherina abbassata sul mento. Mi guardò dalla testa ai piedi, lento, discreto, con quel piccolo sorriso negli occhi. «Pronta?» «Sì, andiamo».
In macchina parlammo della lista della spesa. Arrivati al supermercato mi lasciò vicino ai carrelli, parcheggiò e mi raggiunse. Facemmo tutto insieme, spingendo lo stesso carrello: pane, affettati, carne, pasta, detersivi. Ogni tanto le nostre spalle si sfioravano. Mi piaceva quella compagnia semplice, i suoi sguardi che ogni tanto scivolavano sui miei jeans o sulla felpa aperta. Mi facevano sentire vista, apprezzata.
A un certo punto mi ricordai degli assorbenti interni. «Vado un attimo a prendere una cosa, ci vediamo in cassa». Lui annuì: «Metto anche le tue sul rullo».
Tornai con il pacchetto, un po’ imbarazzata ma non troppo. Lo appoggiai sul nastro, cercando di nasconderlo dietro la pasta. Lui stava imbustando le sue cose: vidi di sfuggita un pacchetto di preservativi Durex che infilò rapido nella busta. Sorrisi dentro di me: chissà con chi si vedeva. Non mi scandalizzavo, mi fece tenerezza.
Pagammo, caricammo la macchina, partimmo. In auto, per scherzare, mi provocò: «Nella lista non avevi messo gli assorbenti… ti vergogni?». Risposi subito: «Nella tua non c’erano i preservativi». Scoppiammo a ridere. Lui si giustificò con un po’ di imbarazzo: era divorziato, aveva esigenze. Il discorso divenne sempre più diretto: ammise di essere andato anche a pagamento, che costava tanto. Io, senza pensarci troppo, buttai lì: «Se lo facessi io, 50 euro sarebbe un prezzo onesto». Lui annuì serio: «Anch’io penso che sia accettabile».
E lì finì. Silenzio tranquillo fino a casa.
Pioveva piano. Invece di fermarsi davanti al portone, entrò nel garage sotterraneo. Parcheggiò al suo posto, chiuse la basculante con un rumore metallico lento. L’aria si fece subito più chiusa, ovattata, illuminata solo dalla luce gialla dei neon.
Presi le buste, ma lui restò seduto, le mani sul volante, lo sguardo fisso davanti. Prese dal portafoglio una banconota da cinquanta euro e la posò sul cruscotto, al centro, tra noi.
Raggelai.
Il cuore mi partì in gola. Stava davvero proponendomelo?
Non dissi nulla. Non ero schifata. Ero sorpresa, confusa, ma una parte di me stava già pensando di accettare. Sentii la cerniera dei suoi pantaloni abbassarsi, lenta, decisa. Non tirò fuori nulla, ma quel suono fu un punto di non ritorno.
“Se dico di no ora sarà imbarazzante per sempre”, pensai.
Allungai la mano, presi la banconota, la piegai in due e me la infilai in tasca dei jeans.
Lui inspirò forte. Capì.
Si sporse verso di me, abbassò completamente la cerniera della mia felpa con un fruscio lungo. Le sue mani grandi, callose, entrarono sotto la maglia bianca, afferrarono i miei seni nudi con decisione. Li strinsero forte, quasi con voracità, come se li aspettasse da tempo. Le dita pizzicarono i capezzoli già duri, li torsero, li fecero pulsare di un dolore buono che mi arrivò dritto tra le gambe.
Io restai pietrificata sul sedile, il respiro corto. Mi lasciai fare. Il consenso era evidente: i soldi erano nella mia tasca.
Una mano continuò a tormentarmi il seno sinistro con durezza, quasi cattiveria. L’altra scese lenta, sbottonò il jeans, abbassò la zip. Entrò a fatica nel tessuto attillato, si fece spazio fino a trovare le mutandine lilla. Le dita cicciotte sfiorarono con una dolcezza incredibile le labbra, seguirono la striscia di peli che avevo curato quella mattina sotto la doccia, la percorsero dal basso verso l’alto, lente, reverenti, come se stessero accarezzando qualcosa di prezioso.
Sopra stringeva con rabbia, giù accarezzava con tenerezza infinita.
Ad un certo punto le dita si fermarono al centro, trovarono l’ingresso già umido e cominciarono a spingere dentro. Prima solo la punta di un dito, lento. Io non dissi nulla, ma il mio corpo rispose: mi mossi verso di lui sul sedile, inarcai la schiena, aprii di più le cosce per facilitare il movimento, per farmi penetrare sempre più a fondo.
Lui capì. Infilò prima un dito intero, poi un secondo, con calma ma deciso. Le dita callose mi riempirono, scivolarono dentro e fuori piano, curvandosi per toccare quel punto che mi faceva tremare.
Mi stava davvero piacendo. Tanto. Troppo. Ormai ero umida da per tutto: il tessuto sottile delle mutandine era fradicio, e persino l’interno dei jeans si era bagnato, caldo e appiccicoso contro la pelle.
Non riuscivo a parlare, nemmeno ad ansimare forte. L’unica cosa che si sentiva era il mio respiro affannoso, corto, spezzato. Girai lo sguardo verso il suo pantaloncino: la sagoma era evidente, dura, tesa contro il tessuto. Era eccitato. Molto.
Pensai che ormai era arrivato il momento di fare qualcosa anch’io. Non potevo restare pietrificata per sempre, lasciandogli fare tutto quello che voleva. Dovevo decidermi, sembrare una ragazza che sa quello che fa, anche se dentro l’imbarazzo mi bruciava le guance.
Allungai la mano, tremante, e l’appoggiai sulla sua grandezza. Era davvero duro, caldo persino attraverso il tessuto. Lui continuò a penetrarmi con dolcezza, e io cominciai a toccarlo sopra i boxer, stringendo piano, sentendo la forma sotto le dita. La cosa cominciava a piacermi davvero; tutta la titubanza, la vergogna, calò all’improvviso. Mi sentivo audace, decisa.
Lui si fermò di colpo, tirò fuori le dita da dentro di me, bagnate, lucide. Se le portò alla bocca e le leccò piano, gustandosi i miei umori con un ghigno di soddisfazione che mi fece arrossire ancora di più.
Finito di assaporarmi, fece spostare il sedile indietro con una leva. Capii: era il segnale per farmi stare più comoda… e per farmi cominciare davvero quello per cui avevo preso i soldi.
Mi girai verso di lui, il cuore che batteva forte. Cominciai a toccargli la durezza con più sicurezza, fino a quando trovai il coraggio: abbassai l’elastico dei suoi boxer. Sbucò fuori.
Non era tanto lungo, devo ammetterlo, ma di circonferenza era davvero grosso, spesso, venoso. Subito pensai che sarebbe stato impegnativo, ma non mi tirai indietro. Lo presi in mano: ci stava perfettamente, anche se largo da far fatica a chiudere le dita. Aveva tanti peli non curati intorno, ma era pulito, circonciso, la cappella liscia e già lucida.
La mia mano cominciò a muoversi su e giù, lenta ma decisa. Lui buttò la testa all’indietro, iniziò ad ansimare di piacere. Io lo guardavo, incredula di essere lì, in quella situazione, ma continuai senza paura. Con l’altra mano gli massaggiai le palle, grandi, dure, piene.
Ormai avevo accettato tutto. Piano piano abbassai la testa, sempre più vicina, cercando il momento giusto, un po’ di coraggio. L’odore morbido, maschile, mi arrivava già. Ero vicinissima, la bocca aperta, quando sentii la sua mano sulla nuca che mi spinse giù con decisione.
Soffocai un attimo: era completamente dentro, grosso, che mi riempiva la bocca fino a far male le labbra.
Non potevo più ripensarci. Lui tolse la mano, mi lasciò fare. Presi a muovermi con velocità costante, decisa, non troppo veloce all’inizio. Dopo un po’ la bocca cominciò a farmi male, la mandibola a tirare per quanto era spesso, ma non volevo arrendermi. Pensai solo: “Non posso fare brutta figura adesso”. Era stupido, lo so, ma avevo paura di sbagliare, di non essere all’altezza.
Aumentai l’intensità, seguendo i suoi ansiti sempre più forti. Capii che ci stavamo avvicinando al finale. Mi mossi più veloce, resistendo al dolore, fino a quando lo sentii irrigidirsi.
Un verso rauco, profondo, e la mia bocca si riempì completamente, calda, densa. Mi fermai, restai lì attaccata finché non sentii l’ultima goccia, le ultime pulsazioni.
Il gusto non mi piaceva, era forte, amaro. Mi alzai piano, cercando di nascondere il disgusto sul viso. Lui mi prese le guance con una mano, mi guardò dritto negli occhi e disse, autoritario: «Ora manda giù».
Non ci pensai due volte. Deglutii, sentendo tutto scendere. La situazione mi eccitò ancora di più, un brivido finale tra le gambe. Aprii la bocca, tirai fuori la lingua timida, per fargli vedere che avevo obbedito.
Lui sorrise soddisfatto, si avvicinò e mi diede un piccolo bacio sulle labbra. Poi uscì dalla macchina, sistemandosi i pantaloni.
Io mi rimisi a posto i capelli con lo specchietto, riallacciai jeans e felpa. Scendemmo. Mi fece uscire dal garage, mi passò le buste della spesa. «Buona sera, Giovanna. Ci vediamo fra qualche giorno per la spesa».
Annuii, la voce ancora persa. «Buona sera».
Tornata a casa, chiusi la porta, posai le buste sul tavolo e mi distesi sul letto, vestita. Rimasi senza parole, fissando il soffitto.
Ero ancora molto, molto bagnata.

Ringrazio tutti i lettori che continuano a scriverci, facendoci complimenti e critiche costruttive sui nostri racconti.
Scusate se rispondo lentamente alle e-mail, ma solo oggi ne sono arrivate tantissime : tra saluti, racconti delle vostre esperienze e richieste di pubblicarle qui.
Vi ringrazio davvero tanto per chi voglia scrivermi: lascio qui la mia e-mail.
u6753739252@gmail.com
Instagram: sara_gubbioracconti
di
scritto il
2025-12-22
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