Sulla pelle di Eva Capitolo VI

di
genere
confessioni

Le vie del centro erano già vestite di luci, anche se mancavano ancora tre settimane a Natale. Come sempre, mi ero mossa in anticipo per i regali: un’abitudine, quasi un rito. Quell’anno non faceva eccezione.
Mi ero concessa una pausa, seduta al tavolino di un bar. Il crodino tra le dita, lo sguardo distratto. Al bancone, un uomo non aveva smesso di fissarmi da quando ero entrata. Rozzo, con quell’aria da arricchito di provincia che si aggira nei quartieri più esclusivi delle grandi città, a caccia di attenzioni. Eppure, c’era qualcosa nel suo modo di guardare, una sicurezza, forse, o solo l’abitudine a ottenere ciò che voleva.
Non era sgradevole. Anzi, a un’analisi rapida, sembrava uno che con le donne ci sapesse fare. Ci volle qualche minuto, poi misi da parte la timidezza e, con un sorriso appena accennato, ricambiai il suo sguardo. Ma subito dopo lo distolsi, un po’ imbarazzata, quando lui sollevò il calice in un gesto di saluto.
Fu allora che notai il suo sguardo abbassarsi. Mi colse la curiosità, quella sottile inquietudine che nasce quando ci si sente osservati in modo diverso. Abbassai gli occhi anch’io, e mi accorsi che la minigonna in tessuto stretch si era sollevata più del previsto. Il tassello leopardato delle mutandine era lì, esposto, come una dichiarazione involontaria a una disponibiltà che non avevo manifestato.
Non sapevo da quanto fossi in quella condizione. Ma tutto tornava: gli sguardi insistenti dei passanti, i camerieri che si erano fermati al mio tavolo più del necessario. Senza volerlo, avevo dato spettacolo.
Piena di vergogna, visto che avevo già pagato, mi alzai. Ma prima di raggiungere l’uscita, l’uomo al bancone mi afferrò per un braccio mentre gli passavo accanto. Mi chiese se poteva offrirmi da bere. Gli risposi, timida, mentendo che mio marito mi stava aspettando fuori dal bar. Non dovevo essere stata molto convincente, perché insistette. E io, neppure del tutto sicura, intimidita dalla sua arroganza, non mi scostai. Lui ne approfittò e fece scivolare una mano davanti, sotto l’orlo della mini che nella fretta non avevo sistemato. Mi ritrovai due dita a premere contro il cavallo degli slip, rivelando quanto fossi umida. Ero stata in bagno prima di sedermi al tavolino, ma mancava la carta igienica e non avevo potuto nettarmi come si deve. O forse c’era anche un altro motivo.
Non ho idea del perché non lo avessi fermato. Forse perché avevo entrambe le mani occupate, tra la borsa, la giacca e le buste dello shopping. Forse era la situazione, il posto, un locale pubblico pieno di gente. Forse il fatto che uno sconosciuto potesse approcciarmi così mi aveva colta di sorpresa, o forse mi aveva intrigato. Fu fin troppo facile per lui intuire la mia vulnerabilità in quel momento, e quanto poco mi proteggesse quel sottile velo di tessuto. Bastò un gesto appena, uno spostamento lieve, per scostare gli slip e lasciar scivolare un dito dentro di me, come se il mio corpo non aspettasse altro.
La mia carne già tenera, messa a nudo in un attimo e le sue dita si unirono in un lento valzer a cui non seppi, non volli sottrarmi, solo l’urto accidentale di un altro cliente a interromperlo, e un attimo di lucidità ritrovata, mi diede la forza di allontanarmi.
Prima di uscire gettai un ultimo sguardo verso di lui, trovandolo intento ad annusarsi le dita che fino a qualche attimo prima aveva tenuto dentro di me.
Affrettai il passo verso la metropolitana, cercando di riprendermi dall’imbarazzo e da ciò che era appena accaduto. Mi squillò lo smartphone. Non riconobbi il numero, non era salvato in rubrica. Di solito non rispondevo agli sconosciuti, per evitare i call center, ma quella volta feci un’eccezione.
Rimasi sorpresa nel sentire la voce del cliente di mio marito, quello che aveva firmato il contratto per la fornitura di vini alla sua catena di ristoranti solo dopo una cena in un locale notturno e una mia performance “artistica”. Il ricordo di quella serata mi fece arrossire.
Non solo mi aveva vista ballare. Non solo, per lui e i suoi accompagnatori, mi ero spogliata. Ma, presa dall’enfasi, inebriata dal ritmo e dal mio bisogno di espormi, avevo chiuso il numero con un finale esplosivo, portando su quel palco, davanti a tutti i presenti – tra cui lo stesso Aldo – una delle pratiche più intime e private per una donna.
Memore di quella serata, solo sentire la sua voce mi fece arrossire. Gli chiesi come avesse avuto il mio numero. Forse era stato Aldo, ma lui rimase sul vago, parlando di un suo collaboratore molto efficente.
Mi informò che quella sera sarebbe stato in città per un evento e chiese se io e mio marito avremmo gradito essere suoi ospiti. Mi suonò strano. Aldo, come ho detto, era a Vienna da un nuovo potenziale cliente, il manager di un grande albergo che, proprio dietro sua raccomandazione, lo aveva contattato per una fornitura di merlot. Mio marito, che da sempre sognava di portare la sua etichetta oltre i confini nazionali, non se l’era fatto ripetere due volte ed era volato a Vienna quella stessa mattina.
Quando glielo feci presente, l’uomo parve sorpreso. Anche se nella sua voce c’era una nota di poca sincerità. Non si perse d’animo e mi propose, con disinvoltura, di essere comunque sua ospite per la serata. C’era un evento nella villa di un grosso finanziatore e non gli andava di presentarsi da solo.
Fui tentata. Le serate di gala mi avevano sempre fatto sognare: abiti eleganti, cucina pregiata, luci soffuse. Ci misi un po’ a rispondere. Cercai di rifiutare, ma fu così insistente, così generoso di complimenti e lusinghe, che non riuscii a dire di no. Lui ne fu entusiasta e mi disse che sarebbe passato a casa nostra per le 21 e prima di chiudere la telefonata si raccomando di chiamarlo per nome almeno per quella sera, Antonio.
Quando attaccai, mi assalì un altro dubbio. Era probabile che l’uomo conoscesse l’indirizzo dell’azienda vinicola di mio marito, ma come faceva ad avere anche quello di casa? Poi, guardando l’orologio sul display del mio smartphone, mi prese il panico. Avevo solo tre ore prima dell’appuntamento, e conoscendo l’uomo in questione ero certa che non avrebbe tardato di un solo minuto. Abbandonai l’idea della metro e corsi a prendere un taxi.
Fu un vero record per me: farmi la doccia, depilarmi, truccarmi, scegliere il vestito, la biancheria da indossare sotto, le scarpe e gli accessori. E fui pronta ben dieci minuti prima dell’arrivo del mio ospite. Mio marito Aldo sarebbe allibito per quel mio risultato, visto che gli facevo perdere la pazienza ogni volta che uscivamo anche solo per una passeggiata al parco, e ci mettevo ore per prepararmi.
Dovevo ringraziare Michele, mio cognato. Vistami in preda al panico, in ansia, mi aveva fatto da consulente e aiutato a scegliere, in cambio aveva chiesto di essere presente per tutto il tempo, non ebbi il tempo di contrattare i termini e accettai senza riserve o limiti
Mi guardai allo specchio della camera. L’effetto dell’insieme era piuttosto appagante.
Michele mostrava a suo modo di gradire il mio outfit ,se ne stava steso sul letto trastullandosi con la biancheria che avevo indossato e dietro suo consiglio poi scartato, era stato tutto molto imbarazzante ed ebbi più volte la certezza che dietro il suo intento di prestarsi ad essere utile ci fosse l’intento di vedermi e rivedermi nuda ,ma non importava.
Nello specchio rifletteva una versione di me bellissima, elegante ,seducente, forte.
Tutto era perfetto, trucco ,capelli ,gioielli.
L’abito a sirena nero, sembrava di seta liquida, mi scivolava addosso come una carezza trattenuta. Era stretto fino alle ginocchia da un lato, e aperto con un lungo spacco sulla coscia sinistra, che arrivava quasi alla vita. La schiena, fino a lambire il solco delle natiche, restava completamente nuda. Il vestito era stato disegnato e tagliato sulla mia figura da un sarto di Roma, e aveva costato un occhio della testa a mio marito. Non era rigido, non mi costringeva, ma sembrava pensato per seguire ogni mio movimento, per amplificarlo, per delineare ogni curva del mio corpo, per esaltare ogni dettaglio, per rivelarne accennandolo appena anche un piccolo segreto come il piercing a pendente con cui avevo decorato l’ombellico.
Sotto, indossavo un minuscolo g-string nero di finissima seta e pizzo, anche quello ,come molta della mia biancheria intima, fatto su misura in una boutique di Praga. Sul pannello anteriore, negato alla vista di chiunque non avessi voluto far partecipe, si celava un gioiello segreto: tre piccole pietre luccicanti, tre solitari preziosi dal taglio perfetto, che avevano alzato ,e di molto, il prezzo in maniera assurda, ma che ne esaltavano il design rendendolo unico.
Per valorizzare le gambe appena depilate, avevo scelto calze autoreggenti nere con dettagli in pizzo, mentre ai piedi portavo sandali neri con punta chiusa e tacco sottile, eleganti e silenziosi, perfetti per una serata invernale. Ogni passo, ogni gesto, quella sera si accingeva ad essere parte di una scena di un film, di cui sarei stata protagonista.
Alle 21 in punto il campanello suonò. Il mio ospite era arrivato. Lasciai Michele al suo gioco solitario e corsi verso la porta d’ingresso. Presi il soprabito e la pochette nera in velluto che avevo scelto come abbinamento. Dentro avevo solo le chiavi di casa, un rossetto, un pacchetto di salviettine umide e lo smartphone.
Esitai un attimo, fissando il pomello, domandandomi se stavo facendo la cosa giusta. Ma poi, il riflesso nello specchio mi convinse che sarebbe stato uno spreco di energie – e una mancata possibilità – restare a casa. Il mio esibizionismo, silenzioso ma presente, reclamava spazio.
Aprii la porta e mi ritrovai davanti un ragazzone di colore in giacca e cravatta un elegante completo viola. Rimasi sorpresa, ma anche compiaciuta. Era davvero un bel ragazzo, fisico atletico, dai modi educati, e parlava un italiano perfetto, con un leggero accento francese che lo rendeva ancora più intrigante.
Si presentò come Philippe. Mi disse che sarebbe stato il mio autista per quella sera. Gli chiesi dove fosse Antonio. Mi rispose che c’era stato un piccolo contrattempo, ma mi rassicurò: mi avrebbe raggiunta direttamente a casa del suo ospite.
L’auto su cui salii era un’auto di lusso. Grazie ad Aldo non ce la passavamo male, ma dubitai che mio marito potesse permettersi un mostro del genere. Dentro c’era spazio da starci più che comodi, e io non persi occasione per mettermi comoda.
Ci volle più di un’ora per raggiungere la villa dove si teneva la serata di gala. Notai che il mio driver passava più tempo a spiarmi dallo specchietto retrovisore che a guardare la strada. Fui tentata, più volte, di agevolargli il compito. Di offrirgli, con un gesto appena accennato, uno spicchio di ciò che si celava sotto il mio abito elegante. Ma restai composta. O almeno, così sembrava.
Solo quando arrivammo a destinazione, e lui mi aprì la portiera dell’auto, colsi l’occasione. Fingendomi distratta nel recuperare la pochette rimasta sul sedile, offrii al mio autista una visione più ampia di quanto celasse l’abito. Fu un gesto calibrato, non troppo accennato, ma sufficiente perché potesse sbirciare tra le mie gambe e far vibrare l’aria tra noi.
Poi mi ricomposi, educata, come se nulla fosse. Appena in piedi, fui fuori dal veicolo, il soprabito stretto tra le braccia e il passo deciso, un pò imbarazzata corsi via, come se la scena appena vissuta non mi appartenesse. Sentivo il suo sguardo bruciante ancora addosso mentre mi allontanavo, e in quel momento, più che mai, sapevo di essere vista.
La villa era imponente, immersa nel verde, con un vialetto illuminato da lanterne basse e discrete. L’ingresso principale, incorniciato da colonne in pietra chiara, si apriva su un salone ampio, affrescato, dove il marmo e il velluto sembravano dialogare in ogni angolo. Camerieri in guanti bianchi si muovevano silenziosi tra gli invitati, offrendo flute di champagne e tartine che sembravano miniature d’arte.
La festa era già iniziata. Musica soffusa, luci calde, conversazioni ovattate. Gli invitati erano eleganti, composti, alcuni decisamente altolocati. In pochi non mi notarono. Qualcuno cercò persino un approccio, con sorrisi educati e domande di circostanza. Ma bastava che accennassi al nome del mio anfitrione, il signor Antonio, perché si ritraessero con discrezione. Forse per rispetto, forse per timore. Di certo, non per indifferenza.
Passato il primo momento, mi ritrovai sola. Il soprabito era già al guardaroba, la pochette tra le mani, e da quasi un’ora tenevo un calice di champagne che non riuscivo a finire. Non perché non fosse buono, ma perché nessuno dei presenti sembrava capace di attrarre la mia curiosità. Le conversazioni mi scivolavano addosso, i sorrisi mi sembravano scolpiti, e io, dentro quell’abito che mi faceva sentire esposta e intoccabile, cominciavo ad annoiarmi.
Fu allora che, senza volerlo, mi ritrovai a pensare a Philippe. Al suo accento francese, al modo in cui mi aveva guardata dallo specchietto retrovisore, al silenzio complice che si era creato tra noi. Mi sarebbe piaciuto scambiare due chiacchiere con lui. Nulla di più. O forse sì. Ma in quel momento, tra i cristalli e i velluti, era l’unico pensiero che mi sembrava vivo.
Poi, come in un trucco di magia, Antonio comparve dal nulla. Ne fui lieta, sollevata. Mi salutò con un entusiasmo che si sarebbe addiceva più a un parente stretto o a un amico di vecchia data. Mi abbracciò, mi baciò sulle guance, e mi fece arrossire quando mi attirò a sé, cingendomi la vita con una certa foga. Mi portò in giro per il salone, presentandomi a tutti, tessendo le mie lodi con una generosità quasi teatrale: sulla mia bellezza, sulla mia eleganza, sul mio portamento. Sospesi l’indignazione nel sentire la sua mano posarsi con troppa confidenza sul mio fianco, scivolare appena più in basso mentre mi accompagnava tra gli invitati, indugiando sulle mie natiche o nel solco tra esse. In fondo, era grazie a lui se stavo vivendo quella serata così elegante. E quello, mi dissi, era un piccolo prezzo da pagare.
Quando arrivammo sul balcone al piano superiore, forse superò un limite che mi ero imposta per quella sera. Mi chiese di mostrarmi in tutta la mia bellezza, di fargli vedere davvero l’abito che indossavo. Mi fece fare una lenta piroetta, e io, quasi per inerzia, obbedii. Quando notò lo spacco sul fianco, sorrise con malizia e mi chiese se sotto non fossi completamente nuda. Non mi lasciò nemmeno il tempo di rispondere. Cercò da solo la risposta, sollevando l’orlo del vestito con un gesto rapido, troppo sicuro.
Provai a protestare, a fermarlo, ma lui mi zittì con un sorriso e una frase sussurrata all’orecchio. Mi chiese di avere pazienza. Intanto, altri ospiti passavano, alcuni rallentavano e guardavano la scena divertiti, qualcuno si voltava indignato. Io restavo lì, con il fiato sospeso e il corpo esposto a metà, mentre lui teneva ancora da parte il lembo di seta e mi esaminava, come se fosse suo diritto farlo.
Come quel pomeriggio al bar, con uno sconosciuto, anche lì – sul balcone, tra le luci soffuse e il brusio distante della festa – le dita di Antonio si posarono sulla parte più intima del mio corpo. Non cercava solo il contatto. Voleva saggiare il tessuto, la consistenza, valutarne la fattura, ogni dettaglio. Come se l’intimo che indossavo fosse un oggetto da collezione, un segreto da decifrare.
E io non feci nulla per impedirglielo.
Rimasi immobile, il fiato appena sospeso, mentre lui sfiorava ciò che avevo scelto con cura, ciò che avevo nascosto sotto la seta per sentirmi esposta solo a metà. Era un gesto che superava il confine, ma non lo infrangeva del tutto. E in quel momento, tra il velluto della notte e il gelo del marmo del balcone su cui Antonio mi aveva fatta appoggiare, gli sguardi indiscreti dei presenti, non sapevo più se mi sentivo invasa o complice.
Poi, come un richiamo improvviso, il suo nome risuonò tra la folla. Antonio si voltò, cercando chi lo avesse chiamato. Quando lo riconobbe, non esitò. Decise che era più importante di me. Mi lasciò lì, sola, ancora appoggiata al marmo freddo del balcone, sospesa a metà tra vergogna e desiderio.
Non disse nulla. Non si scusò. Semplicemente si allontanò, con quel passo sicuro che aveva sempre avuto, lasciando dietro di sé il profumo del suo entusiasmo e il peso del mio silenzio.
Decisi di allontanarmi da quel posto. Non sopportavo gli sguardi pieni di giudizio di tutti quelli che incrociavo, molti dei quali avevano assistito alla scena degradante sul balcone. Mi sentivo esposta, svuotata, come se l’abito che indossavo non bastasse più a proteggermi.
Mi ritrovai sul retro della villa, dove erano parcheggiate tutte le auto e si trovavano i driver. Non so perché fossi lì. Forse cercavo qualcosa. Forse cercavo qualcuno. E poi lo vidi.
Philippe.
Era appoggiato alla sua auto, parlava con altri due ragazzi di colore, e vederlo mi diede un senso di conforto inatteso. Non mi guardava con giudizio, non mi chiedeva nulla. Era lì, semplicemente, e la sua presenza mi sembrò più vera, più autentica, di tutto quello che avevo lasciato dentro la villa.
Philippe mi vide e, come se avesse letto qualcosa nel mio sguardo, si staccò dagli altri e mi venne incontro. Mi chiese se stavo bene. Risposi di sì, d’istinto, ma poi ritrattai subito, abbassando lo sguardo. Gli dissi che forse avevo commesso un errore ad accettare l’invito del signor Antonio.
Lui non disse nulla per un momento. Si accese una sigaretta, me ne offrì una. Rifiutai con un sorriso stanco — non fumo, gli dissi. Allora mi chiese se volevo fare un giro in auto, solo per prendere aria. Gli chiesi se non gli avrebbe creato problemi, non volevo metterlo nei guai. Ma lui scrollò le spalle, sicuro, e con un mezzo sorriso disse che il signor Antonio poteva fottersi, se non sapeva come trattare una signora come me.
Quelle parole mi colpirono più di quanto avrei voluto ammettere. Non per la volgarità, ma per la semplicità con cui mi aveva restituito dignità.
Rimasi sorpresa, e un po’ delusa, quando mi fece accomodare sul sedile posteriore. Avrei voluto stare accanto a lui, davanti, così da poter parlare, da sentire la sua voce senza doverla cercare. Il lungolago era stupendo, illuminato dalle luci delle case e delle strade, ma da sola, lì dietro, mi riempiva di malinconia.
Philippe, ancora una volta, sembrò accorgersi del mio stato. Mi guardò dallo specchietto e mi chiese se poteva fare qualcosa per me. Risposi di sì, d’istinto, ma poi mi corressi. Gli dissi sorprendendomi , che si poteva fare molto, se solo fosse venuto dietro a farmi compagnia.
Lo dissi piano, quasi per gioco, ma dentro di me non c’era niente di leggero. Era un bisogno, un desiderio sottile, che non avevo previsto. E mentre lui spegneva il motore e apriva la portiera, sentii che qualcosa stava cambiando.
Philippe fermò l’auto in uno spiazzo che affacciava sul lago. L’atmosfera era romantica, quasi da favola.
Quando lo vidi scendere per raggiungermi, ebbi quasi un ripensamento. Non sapevo dove ci avrebbe portato tutto quello, e mi spaventava. Eppure, volevo viverlo. Volevo sentire. Rimasi in silenzio.
Salì sul sedile accanto a me, senza dire nulla. Chiuse la portiera con un gesto lento, come se volesse proteggere quel piccolo spazio dal resto del mondo. Per un attimo restammo immobili. Io guardavo fuori, lui guardava me. Poi mi sfiorò la mano, e quel contatto fu sufficiente.
Non ci fu fretta. Nessuna parola inutile. Solo il suono del tessuto che si muoveva, il respiro che cambiava ritmo, la pelle che cercava altra pelle. Mi lasciò il tempo di decidere, di accogliere, di cedere. E io lo feci. Non per bisogno, ma per scelta.
Con gesti rapidi e leggeri, il mio abito si aprì, diventando un panno prezioso su cui offrirmi a lui. Le sue mani erano attente, rispettose, ma non esitavano. Mi accarezzò come se volesse conoscere ogni centimetro del mio corpo, non possederlo. E quando mi baciò, lo fece senza invadere, come se avesse capito che avevo bisogno di essere vista, non solo toccata.
Con attenzione schiuse le mie gambe, si pose al centro di esse e, dopo aver spostato di lato gli slip, svelò appena il mio sesso. Ci si dedicò con lingua e bocca, con una passione che non avevo mai subito. L’estasi era piena, e io ero pronta all’amplesso.
Ma prima che lui, liberatosi dei pantaloni e mostratomi cosa aveva da offrirmi, desse consistenza al suo desiderio e al mio, ebbi un attimo di ripensamento. La mia mente tornò a mio marito Aldo, che fino a quel momento non avevo mai tradito. O meglio, mai così a fondo.
Philippe mi rassicurò. Mi disse che non stavo facendo nulla di male, che stavo vivendo la mia femminilità, e che quello che si accingeva a fare era qualcosa che io sentivo il bisogno di vivere. Fu come leggermi dentro.
Fu un amplesso silenzioso, intenso, fatto di sguardi e sospiri. Alternato da momenti di rudezza e profonda tenerezza, di pretese e concessioni reciproche, di forza e delicatezza. Ci offrimmo a vicenda, senza negare nulla l’uno all’altra, fino all’estasi che ci colse innumerevoli volte.
La notte ci avvolgeva, il lago brillava in lontananza, e le luci delle auto di passaggio ci illuminavano a tratti. E io, per la prima volta da tempo, non mi sentii né moglie né ospite. Solo donna. Solo corpo. Solo voce.
Quando tutto finì, non ci fu imbarazzo. Solo sorrisi, lunghi baci appassionati, e infine il silenzio complice di chi ha condiviso qualcosa di naturale, di primitivo.
Era quasi l’alba quando arrivai a casa. Philippe mi fece scendere dall’auto. Per tutto il viaggio eravamo rimasti separati — lui alla guida, io seduta dietro — e quella distanza aveva riacceso il mio desiderio.
Avevo cercato in ogni modo di attirarlo a me, indulgendo in comportamenti espliciti, gesti che manifestavano senza pudore la mia voglia di sentirlo ancora una volta dentro di me. Ma lui era stato più disciplinato, più resiliente di ogni mio tentativo. Mi aveva guardata mentre mi davo piacere da sola, pratica che avevo riscoperto piacevole, soprattutto se fatta in presenza di qualcun altro. Per qualcun altro.
Sul vialetto di casa, sotto la finestra della camera da letto mia e di Aldo, gli saltai al collo e lo baciai con passione. Gli chiesi se ci saremmo rivisti. Mi lasciò nel dubbio. Mi disse che non poteva saperlo, ma che nella tasca dei suoi pantaloni aveva qualcosa che gli avrebbe ricordato di me: i miei slip, ancora pregni del mio odore.
Rimasi lì, sul vialetto, finché la sua auto non fu che un puntino luminoso in lontananza. La finestra della cucina, nella casa dei miei vicini, era accesa. Mi chiesi se avessero visto qualcosa, ma non me ne importava. Entrai. Salendo le scale pensai a come giustificare l’assenza di quel capo prezioso a mio marito. Non mi venne in mente nulla. Né me ne curai troppo.
In camera mia, steso sul letto, trovai Michele. Completamente nudo. Addormentato. Circondato, ancora una volta, da decine dei miei capi intimi più elaborati e intriganti. Su ognuno aveva lasciato un chiaro segno della sua devozione.
Non mi curai nemmeno di lui. Mi spogliai del vestito che era stato testimone di quella serata, e nuda indossando solo le autoreggenti e le scarpe mi stesi accanto a lui.
Repressi la l’urgenza di svuotare la vescica ero troppo stanca per andare in bagno e poi serenamente mi addormentai profondamente.
scritto il
2025-10-28
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