Il gioco del dottore

di
genere
gay

"Eravamo tutti nudi, in fila," raccontò Luca, il fratello maggiore del mio amico, appena tornato dalla visita militare. C'era un sacco di gente ad ascoltarlo, ma i nostri occhi, i miei e quelli di mio cugino Maurizio, erano fissi su di lui.
​"Il medico ti controllava per vedere se eri idoneo," continuò Luca, abbassando la voce, "ma la parte che tutti aspettavano era l'ultima, la verifica sulla concentrazione. Ti prendeva il cazzo in mano. Così, con la massima serietà. Ti fissava negli occhi e ti chiedeva di concentrarti, per vedere se ti saresti distratto. Eravamo lì, a cercare di non farci venire un'erezione mentre quel vecchio bastardo ti teneva il cazzo."
​Per me e Maurizio quella storia assurda fu la scintilla.
​Quella stessa sera, il racconto ci era rimasto in testa. "Dobbiamo fare la visita," dissi io, e Maurizio non fece una piega.
​Iniziammo a giocare al dottore. Non sapevamo esattamente cosa facessero gli altri che giocavano al dottore, ma il nostro gioco aveva regole precise: il paziente doveva spogliarsi completamente.
​Il dottore iniziava con le solite cose: il controllo del cuore, della pancia. Ma la parte che contava, quella ispirata a quella fottuta leggenda, era la più importante.
​"Ora la parte andrologica," dicevo, assumendo un tono professionale.
​Maurizio si sdraiava sul letto, nudo e impaziente. Mi avvicinavo, e, con un tocco che era ancora incerto e molto superfluo, prendevo il suo cazzo in mano. Lo tenevo per un istante, per la lunghezza di un respiro, poi lasciavo. Quella brevissima presa era la nostra conferma che stavamo davvero giocando al "gioco degli adulti."
​Poi le parti si invertivano. Appena ero io il paziente e mi spogliavo, sentivo la stessa eccitazione. Era il turno di Maurizio di prendermi il cazzo in mano.
​Il gioco si ripeteva: una volta ero io il dottore, e subito dopo, il paziente. Era un tocco timido, ma era la nostra introduzione all'intimità. Era il nostro segreto, nato da una storia assurda sentita in un pomeriggio d'estate.
​Quel tocco timido durò per settimane, ma alla fine la curiosità e l'eccitazione crebbero troppo.
​Un giorno, anziché tenere il cazzo un attimo, iniziai a segarlo. La sorpresa fu totale, ma l'imbarazzo durò un attimo, sostituito da un'urgenza travolgente. Il gioco era finito per sempre. Ormai non avevamo più bisogno delle "visite" o delle "concentrazioni" finte. Il rito si era trasformato in un'abitudine più urgente: le seghe reciproche, fatte dove capitava.
​Il nostro rapporto si stava avvicinando a nuove scoperte. Maurizio aveva iniziato a pormi domande. Non si trattava più di recitare una parte, ma di vera curiosità. Incominciò a chiedermi se ero vergine e altre domande, come se volesse farsi un'idea, anche se era ovvio che lo fossi.
​Un giorno, dopo che avevo già fatto una sega a lui e lui l'aveva fatta a me, la nostra consueta sessione si interruppe.
​Alla fine della sega, Maurizio mi chiese di girarmi. "Devo verificare la tua verginità," disse, con un tono che mischiava serietà clinica e desiderio.
​Ormai aveva preso la regia delle operazioni. Non ho esitato.
​Mi voltai subito, sentendo il calore del suo sguardo sul mio sedere nudo. Maurizio si avvicinò e mi infilò un dito, facendolo scorrere un po' all'interno, esplorando con meticolosità.
​Dopo un istante di tensione, dichiarò: "Sì, sei vergine."
​Ritirò il dito, ma l'eco di quel tocco rimase. Il mio ano, mai esplorato, era stato violato. Era stato un gesto audace, eppure non mi aveva respinto. Anzi.
​Perché mi sono voltato e mi sono fatto infilare un dito nel culo? Mi chiesi, mentre mi rivestivo in fretta per nascondere la mia eccitazione. Certo che poi chi si fa infilare un dito nel culo è pronto pure a prendere un cazzo. Quel pensiero, che mi colpì con la forza di una verità lampante, trasformò l'attesa in una necessità.
Qualche pomeriggio dopo eravamo a casa sua, e io mi ero chiuso in bagno, concentrato su un bisogno intimo e privato, quando Maurizio bussò. Gli aprii e richiusi subito la porta, riducendo lo spazio a un universo stretto e privato. Iniziai a farmi il bidet. Fu allora che Maurizio mi chiese se poteva lavarmi lui. Il mio consenso fu immediato. Quando mi lavò, le sue dita si mossero con una familiarità che non era più esplorazione, ma abitudine. Quel tocco – il dito che scivolava dentro – non era una richiesta, ma un gesto ormai consolidato, la conferma silenziosa che la mia "zona proibita" era diventata il suo territorio, e il mio ruolo ricettivo si stava stabilizzando in una routine accettata. Il confine tra cura e sessualità si era definitivamente dissolto in quella piccola stanza.
​​L'incontro successivo è sul letto matrimoniale. Ho mentito raccontando un episodio del giorno prima: il mio compagno di banco mi ha chiesto di toccargli i genitali, e io gli ho detto di no, è una provocazione che sto lanciando a Maurizio in un momento di crescente intimità per spingere l'azione.
​Maurizio coglie immediatamente l'amo. Sposta l'attenzione dalla mia presunta moralità alla mia condizione fisica, dichiarando di voler "controllare" il mio ano, per vedere se è ancora "vergine". La richiesta trasforma l'atto in un esame, una giustificazione per penetrare oltre il confine. Eravamo nudi, e dopo avermi fatto una sega, Maurizio usò lo sperma come unguento per la preparazione. Lo sentii usare il dito, un massaggio intenso e profondo. L'intenzione era chiara: l'ano doveva essere dilatato, caldo e pronto.
​Il climax arrivò con la sua domanda: "E se infilo il cazzo?"
​La mia risposta non fu un invito, ma la constatazione di una verità imminente, un'auto-assoluzione: "Se infili il cazzo non sono più vergine." Era un consenso passivo, che lasciava a lui la responsabilità della decisione finale. Lo sentii salire sopra di me, il peso del suo corpo. Quando la pienezza mi invase, l'atto che cancellava ogni ambiguità era compiuto.
​Il mio corpo si adattò. La sensazione di pienezza si trasformò in un piacere viscerale e ineluttabile. Il ritmo divenne frenetico. I nostri gemiti si fusero in un unico suono potente. Quando Maurizio eiaculò dentro di me, il suo grido fu un trionfo.
​Mentre riprendevamo fiato, gli chiesi, spinto dalla logica della reciprocità: "E tu non lo vuoi fare?"
​La sua risposta fu immediata e tagliente: "No, io voglio restare vergine." Capii: il suo desiderio era di azione e dominanza. La mia successiva frase, "E allora mi sacrificai," fu l'accettazione finale della non-reciprocità. Il nostro rapporto si cristallizzò in quel Patto Segreto. Maurizio continuava a farmi seghe con la stessa passione, ma io a lui mai più seghe. Il mio ruolo era stato definito: il ricettivo. Gli davo il culo molto volentieri, accettando il mio nuovo ruolo e la sua scelta. Il "gioco del dottore" dell'infanzia era morto.
​Ma quel patto non era destinato a durare. Quando conoscemmo due ragazze, la dinamica svanì rapidamente. L'attrazione romantica e sessuale che sentivamo per loro prese il sopravvento, e il Patto Segreto con Maurizio non ci venne più voglia di rinnovarlo. L'esperienza intensa e asimmetrica si concluse, dimostrandosi non un cambiamento di orientamento, ma un capitolo esplorativo che si era chiuso naturalmente con la fine della nostra adolescenza.
Maurizio si era fidanzato con Claudia e io con Rachele, quando fini la storia con Claudia Maurizio si fidanzò con Rachele.
Guardo spesso una foto, ci siamo io, Maurizio, Claudia e Rachele, e penso che Maurizio ci ha dato diverse passate di cazzo a tutti e tre.


scritto il
2025-10-23
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