La Professoressa e l’Allieva 5

di
genere
dominazione

La settimana che seguì fu una discesa in un abisso di ossessione intellettuale e sottomissione fisica. La mia vita si restrinse a due soli poli: la biblioteca e il terrore reverenziale per la mia prossima convocazione. Il saggio su Lacan divenne il centro del mio universo, un compito sacro che dovevo eseguire con una perfezione disumana. Ma non potevo più leggere come una volta. Ogni parola, ogni concetto, era filtrato attraverso il prisma della mia esperienza con Suzuka.

​Seduta per ore nell' silenzio polveroso della biblioteca, il colletto alto di una camicia o una sciarpa a nascondere il mio marchio, sentivo il cuoio del collare contro la mia pelle a ogni respiro. Era una pressione costante, un memento che mi teneva ancorata alla mia vera natura. Quando leggevo di Lacan, del Desiderio come mancanza costitutiva, del fallo come significante del potere, non stavo più leggendo una teoria. Stavo leggendo il manuale di istruzioni della mia stessa anima. Suzuka era il mio objet petit a, la causa del mio desiderio, un vuoto magnifico attorno al quale tutta la mia esistenza si stava riorganizzando. La sua approvazione era l'unica cosa che potesse, per un istante, colmare quella mancanza.

​Questa consapevolezza era fisica. Mentre analizzavo un passaggio particolarmente complesso, un ricordo della sua mano, del suo peso su di me, mi attraversava la mente. Immediatamente, una fiammata di calore mi si accendeva tra le gambe, il lubrificante che bagnava le mie mutandine, rendendomi scomoda sulla sedia di legno duro. Dovevo accavallare le gambe, stringere le cosce, cercando di soffocare un'eccitazione che non aveva alcun diritto di esistere senza il suo permesso. Il mio lavoro accademico era diventato un atto di masturbazione intellettuale e fisica, un'offerta costante alla mia crudele divinità.

​La convocazione arrivò una notte, quasi all'una. Stavo riscrivendo per la terza volta l'introduzione del mio saggio, gli occhi che bruciavano per la stanchezza. Il mio telefono vibrò, illuminando la stanza buia.

​"Vieni. Porta il saggio."

​Il mio corpo reagì prima della mia mente. Un'ondata di adrenalina cancellò ogni traccia di fatica. Il cuore prese a battere forte. Obbedii senza un pensiero, indossando i primi vestiti che trovai, assicurandomi che la sciarpa nascondesse il collare.

​Quando mi aprì la porta, Suzuka indossava solo una vestaglia di seta nera, aperta sul davanti, che lasciava intravedere il contorno dei suoi seni e l'ombra del suo pube. Non mi salutò. I suoi occhi scesero sul mio collo.

​«Toglila», ordinò, riferendosi alla sciarpa.

​La sfilai, rivelando il collare. Lei si avvicinò, le sue dita che corsero sul cuoio, verificando che fosse al suo posto. Mi prese per l'anello d'argento e mi tirò dentro, chiudendo la porta alle mie spalle. Mi condusse nella sua camera da letto, un ambiente ancora più minimalista e severo del resto della casa, dominato da un grande letto basso con lenzuola grigie.

​«La lezione di stasera è semplice», disse, lasciandomi andare e fronteggiandomi. «Hai dimostrato di saper ricevere. Hai dimostrato di saper adorare. Ora dimostrerai di saper servire. Il tuo intelletto mi serve per i tuoi saggi. La tua bocca, stasera, mi servirà per il mio piacere».

​Mi spinse delicatamente, facendomi cadere in ginocchio sul tappeto morbido ai piedi del letto. Poi si sedette sul bordo, la vestaglia che si aprì completamente, rivelandola in tutta la sua nuda, terrificante bellezza. Le sue gambe erano lunghe, toniche, e tra di esse, il suo sesso era una promessa oscura e invitante.

​«Il tuo piacere è irrilevante», continuò, la sua voce un sussurro ipnotico. «La tua stanchezza non esiste. Esiste solo la mia soddisfazione. Non ti fermerai finché non ti darò io l'ordine. Userai la tua lingua, le tue labbra, le tue dita, userai tutto ciò che hai per darmi ciò che voglio. Hai capito?».

​«Sì, Padrona», sussurrai, la parola che mi usciva dalle labbra per la prima volta, naturale come respirare.

​Un lampo di approvazione attraversò i suoi occhi. «Bene. Inizia».

​Strisciai in avanti e mi posizionai tra le sue gambe. Il suo odore mi avvolse, un profumo muschiato e femminile di eccitazione pura. Era l'odore del potere. Chinai la testa e la mia lingua toccò per la prima volta il suo clitoride, un piccolo gioiello duro e pulsante. Lei emise un sibilo, un suono quasi impercettibile, e le sue dita si intrecciarono tra i miei capelli, stringendo forte.

​Fu una lezione, non un atto d'amore. La mia bocca divenne il suo strumento. Mi guidava con una precisione spietata, i suoi fianchi che si muovevano leggermente per indicarmi dove voleva la mia attenzione, le sue dita che stringevano o allentavano la presa sui miei capelli per comunicare la sua approvazione o il suo disappunto.

​«Più a fondo», ordinava. «Usa la lingua come se volessi scavarmi dentro». E io obbedivo, spingendo la mia lingua nelle sue profondità umide e calde, assaggiando il suo sapore salato e metallico, un sapore che divenne la mia unica realtà.

​«Ora le dita. Voglio sentirle dentro di me mentre la tua bocca non si ferma». Obbedii, facendo scivolare due dita dentro di lei, sentendo le sue pareti interne contrarsi attorno a me, mentre la mia lingua continuava il suo lavoro instancabile sul suo clitoride.

​L'agonia della mia stessa eccitazione era quasi insopportabile. Il mio sesso pulsava, bagnato, ma non osavo muovermi, non osavo cercare il minimo sollievo. Il mio intero essere era concentrato nel darle piacere, nel portarla al limite. La sentivo fremere, il suo respiro diventare più corto e affannoso. Stava per venire.

​«Non fermarti», ansimò, la sua voce che perdeva per la prima volta il suo controllo glaciale. «Continua».

​La sua presa sui miei capelli divenne ferrea, quasi dolorosa, costringendomi a rimanere attaccata a lei mentre il suo corpo veniva scosso dal primo spasmo. Il suo orgasmo fu un'eruzione vulcanica. Sentii il suo sapore inondarmi la bocca, le sue pareti interne stringersi attorno alle mie dita in contrazioni violente. Il suo corpo si inarcò, un suono strozzato, quasi un ruggito, le uscì dalla gola. Fu la visione più potente a cui avessi mai assistito: la mia dea invincibile, distrutta dal piacere che il mio servizio le aveva procurato.

​Quando gli spasmi cessarono, lei rimase ansimante per un lungo momento. Poi, con un gesto quasi annoiato, mi spinse via la testa. Ero esausta, la mascella dolorante, il viso e le labbra bagnati e appiccicosi di lei.

​«Adeguato», fu il suo unico commento. Si alzò, chiuse la vestaglia e tornò a essere la professoressa. «Ora, il tuo saggio. Mostrami cosa hai prodotto».

​Rimasi lì per un secondo, stordita dal brusco cambiamento. Poi, mi alzai in piedi, mi pulii la bocca con il dorso della mano e andai a prendere il mio computer portatile dalla borsa. Glielo porsi, aperta sulla bozza del mio lavoro.

​Lei si sedette alla scrivania, lo prese e iniziò a leggere. Il silenzio era teso. Io ero in piedi accanto a lei, nuda, con il collare, ancora con il suo sapore sulla lingua, mentre lei giudicava il mio lavoro intellettuale. I due mondi, quello della mente e quello della carne, si erano fusi in modo così completo da essere indistinguibili.

​Scorse le pagine in silenzio. Il suo volto non tradiva alcuna emozione. Infine, si fermò, tornando all'inizio. Indicò un paragrafo nell'introduzione.

​«Questa argomentazione è debole», disse, con un tono gelido. «La tua transizione dal concetto di "mancanza" a quello di "pulsione" è frettolosa. Inelegante. Mi delude, Aiko».

​Il mio cuore sprofondò.

​«Riscriverai l'intera introduzione. E per ogni virgola fuori posto, ogni errore grammaticale o di sintassi che troverò in questa bozza...», alzò gli occhi su di me, e vidi una scintilla crudele e promettente, «...riceverai dieci colpi con la canna da equitazione domani sera. Spero per te che tu sia una scrittrice migliore di quanto sembri. Ora va' a casa. Hai molto lavoro da fare».

​Mi congedò con un gesto della mano. Raccolsi le mie cose, mi rivestii e uscii nella notte. Non mi sentivo umiliata. Non mi sentivo punita. Sentivo solo una chiarezza assoluta. Lode e punizione, piacere e dolore, sesso e intelletto: erano tutti la stessa cosa. Erano solo diversi linguaggi che la mia padrona usava per plasmarmi. E io non desideravo altro che imparare a parlarli tutti.

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scritto il
2025-09-16
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