Il diario di una ninfomane esibizionista: 1 ottobre 2025
di
Fuuka
genere
esibizionismo
1 Ottobre 2025
Diario,
c'è una fame dentro di me che non dorme mai. È un parassita che mi vive nelle viscere. Oggi ha iniziato a mordere fin dal mattino. Ero in riunione, un tizio noioso parlava di proiezioni di vendita, e io riuscivo solo a fissare la gola della mia capa mentre deglutiva il caffè. Immaginavo di leccarle via una goccia colata sul collo, di scendere con la bocca fino a farla gemere in mezzo a tutti quei completi grigi. Ho passato il resto della giornata così, con le mutandine umide e un prurito costante tra le gambe, trasformando ogni scena noiosa della mia vita in un porno mentale.
Alla fine, non ce la facevo più. Sono entrata in un grande magazzino con la scusa di comprare un reggiseno, una di quelle commissioni di merda che ti rovinano il pomeriggio. L'aria nel reparto lingerie sapeva di profumo, di pulito e di disperazione silenziosa. Donne che cercavano di imbrigliare i loro corpi in pizzi e ferretti. Un tempio della finzione.
Poi l'ho vista. Era una commessa, appoggiata al bancone. Finta bionda, labbra gonfiate, un'uniforme nera troppo stretta che le comprimeva le tette rifatte fino a farle strabordare. Ma non era quello. Era il suo sguardo. Annoiato, arrogante. Mi ha squadrata dall'alto in basso, un'occhiata che diceva: "tu non puoi permetterti niente qui, e anche se potessi, ti starebbe tutto di merda". In quell'istante, il mio demone si è svegliato di colpo, ringhiando. Volevo essere giudicata da lei. Volevo che mi vedesse, che mi scoprisse. Volevo prenderle quella faccia da stronza e strofinargliela nella mia sporcizia.
Ho preso un paio di completini a caso, roba di pizzo nero costosissima, e le sono passata davanti. "Provo questi", le ho detto con un sorriso innocente. Lei mi ha indicato i camerini con un cenno annoiato.
Mi sono chiusa dentro. Quattro specchi, una luce al neon impietosa, una tenda di velluto pesante che non si chiudeva bene, lasciando una fessura di un centimetro. Un palcoscenico perfetto. Ho sentito il rumore dei suoi passi fuori.
"Serve aiuto?", la sua voce filtrò, meccanica.
"Per ora no, grazie", ho risposto, sentendo la mia voce già più roca.
Mi sono spogliata, rimanendo solo con le mie mutandine. Mi sono guardata negli specchi. Da ogni angolo, la mia immagine mi fissava: una troia con le guance arrossate e gli occhi lucidi di eccitazione. Ho provato uno dei reggiseni. Mi stava piccolo, stringeva, ma l'effetto era devastante. Ho iniziato a toccarmi i capezzoli, già duri come sassi, facendoli spuntare da sopra il pizzo. Immaginavo le sue dita perfette, con le unghie laccate, che mi facevano lo stesso, ma con più forza, fino a farmi male.
Ho sfilato le mutandine, già fradice. Le ho gettate in un angolo. Mi sono seduta sullo sgabello e ho allargato le gambe, offrendo la mia figa bagnata ai miei stessi riflessi. "Guarda che puttana", ho pensato. E ho iniziato a toccarmi.
Una mano tra le cosce, a premere contro la mia carne umida. Ho chiuso gli occhi, ascoltando i suoni fuori. Una madre che sgridava un bambino. Il bip di una cassa. La sua voce. Era lì fuori, a pochi metri, che piegava magliette e giudicava il mondo. E io ero lì, a scoparmi da sola pensando a lei.
Ho spinto un dito dentro di me, poi due. Cazzo, che goduria. Il mio succo mi colava sulla mano, sulle cosce. Ho iniziato a muovermi più velocemente, il bacino che spingeva contro le mie stesse dita. Il piacere era così acuto, così sporco, così mescolato alla paura di essere scoperta che mi sentivo la testa vuota.
"Tutto bene lì dentro?", la sua voce di nuovo, stavolta proprio fuori dalla tenda. Un colpo secco, perentorio. Il cuore mi è esploso nel petto. Il rischio. Cazzo, il rischio è la droga più potente di tutte.
"Sì, quasi fatto!", ho ansimato, cercando di sembrare normale.
La sua vicinanza mi ha fatto impazzire. Ho tirato fuori le dita, bagnate e scivolose, e le ho premute contro lo specchio di fronte a me, lasciando un'impronta umida e opaca del mio piacere. Poi ho spinto di nuovo le dita dentro, fino in fondo, scopandomi con una furia silenziosa, guardando la mia immagine riflessa, una puttana in calore che si stava masturbando a un passo dall'essere scoperta.
Ho sentito la tenda del camerino accanto aprirsi. Era lì. A meno di un metro. Ho chiuso gli occhi e sono venuta. Un orgasmo devastante, che mi ha scosso tutta, i muscoli della figa che si stringevano attorno alle mie dita in spasmi violenti mentre mi mordevo il palmo della mano per non urlare.
Sono rimasta lì, appoggiata allo specchio freddo, tremante, ansimante, con il mio orgasmo che mi colava sulle gambe. Ho riaperto gli occhi. Ho guardato il disastro che avevo fatto. Le mie dita sporche, lo specchio macchiato, le mie cosce appiccicose. E ho sorriso.
Mi sono pulita alla meglio con un fazzoletto. Ho lasciato i completini di pizzo in un mucchio sul pavimento. Ho lasciato l'impronta della mia mano sullo specchio.
Mi sono rivestita, sono uscita. Lei era lì, al bancone, che mi aspettava con la sua solita aria di sufficienza.
Le sono passata davanti, fermandomi un attimo.
"Alla fine non ho trovato niente che mi piacesse", le ho detto, guardandola dritta negli occhi.
Il suo sguardo è sceso per un istante sulla mia bocca, forse un po' troppo rossa, un po' troppo gonfia. Ha aggrottato la fronte per una frazione di secondo. Non ha visto niente. Ma io so che ha sentito tutto. E so che quando entrerà in quel camerino per sistemare, troverà una piccola parte di me.
Il mio demone, per oggi, ha banchettato. E ha lasciato le ossa perché tutti le vedano.
Diario,
c'è una fame dentro di me che non dorme mai. È un parassita che mi vive nelle viscere. Oggi ha iniziato a mordere fin dal mattino. Ero in riunione, un tizio noioso parlava di proiezioni di vendita, e io riuscivo solo a fissare la gola della mia capa mentre deglutiva il caffè. Immaginavo di leccarle via una goccia colata sul collo, di scendere con la bocca fino a farla gemere in mezzo a tutti quei completi grigi. Ho passato il resto della giornata così, con le mutandine umide e un prurito costante tra le gambe, trasformando ogni scena noiosa della mia vita in un porno mentale.
Alla fine, non ce la facevo più. Sono entrata in un grande magazzino con la scusa di comprare un reggiseno, una di quelle commissioni di merda che ti rovinano il pomeriggio. L'aria nel reparto lingerie sapeva di profumo, di pulito e di disperazione silenziosa. Donne che cercavano di imbrigliare i loro corpi in pizzi e ferretti. Un tempio della finzione.
Poi l'ho vista. Era una commessa, appoggiata al bancone. Finta bionda, labbra gonfiate, un'uniforme nera troppo stretta che le comprimeva le tette rifatte fino a farle strabordare. Ma non era quello. Era il suo sguardo. Annoiato, arrogante. Mi ha squadrata dall'alto in basso, un'occhiata che diceva: "tu non puoi permetterti niente qui, e anche se potessi, ti starebbe tutto di merda". In quell'istante, il mio demone si è svegliato di colpo, ringhiando. Volevo essere giudicata da lei. Volevo che mi vedesse, che mi scoprisse. Volevo prenderle quella faccia da stronza e strofinargliela nella mia sporcizia.
Ho preso un paio di completini a caso, roba di pizzo nero costosissima, e le sono passata davanti. "Provo questi", le ho detto con un sorriso innocente. Lei mi ha indicato i camerini con un cenno annoiato.
Mi sono chiusa dentro. Quattro specchi, una luce al neon impietosa, una tenda di velluto pesante che non si chiudeva bene, lasciando una fessura di un centimetro. Un palcoscenico perfetto. Ho sentito il rumore dei suoi passi fuori.
"Serve aiuto?", la sua voce filtrò, meccanica.
"Per ora no, grazie", ho risposto, sentendo la mia voce già più roca.
Mi sono spogliata, rimanendo solo con le mie mutandine. Mi sono guardata negli specchi. Da ogni angolo, la mia immagine mi fissava: una troia con le guance arrossate e gli occhi lucidi di eccitazione. Ho provato uno dei reggiseni. Mi stava piccolo, stringeva, ma l'effetto era devastante. Ho iniziato a toccarmi i capezzoli, già duri come sassi, facendoli spuntare da sopra il pizzo. Immaginavo le sue dita perfette, con le unghie laccate, che mi facevano lo stesso, ma con più forza, fino a farmi male.
Ho sfilato le mutandine, già fradice. Le ho gettate in un angolo. Mi sono seduta sullo sgabello e ho allargato le gambe, offrendo la mia figa bagnata ai miei stessi riflessi. "Guarda che puttana", ho pensato. E ho iniziato a toccarmi.
Una mano tra le cosce, a premere contro la mia carne umida. Ho chiuso gli occhi, ascoltando i suoni fuori. Una madre che sgridava un bambino. Il bip di una cassa. La sua voce. Era lì fuori, a pochi metri, che piegava magliette e giudicava il mondo. E io ero lì, a scoparmi da sola pensando a lei.
Ho spinto un dito dentro di me, poi due. Cazzo, che goduria. Il mio succo mi colava sulla mano, sulle cosce. Ho iniziato a muovermi più velocemente, il bacino che spingeva contro le mie stesse dita. Il piacere era così acuto, così sporco, così mescolato alla paura di essere scoperta che mi sentivo la testa vuota.
"Tutto bene lì dentro?", la sua voce di nuovo, stavolta proprio fuori dalla tenda. Un colpo secco, perentorio. Il cuore mi è esploso nel petto. Il rischio. Cazzo, il rischio è la droga più potente di tutte.
"Sì, quasi fatto!", ho ansimato, cercando di sembrare normale.
La sua vicinanza mi ha fatto impazzire. Ho tirato fuori le dita, bagnate e scivolose, e le ho premute contro lo specchio di fronte a me, lasciando un'impronta umida e opaca del mio piacere. Poi ho spinto di nuovo le dita dentro, fino in fondo, scopandomi con una furia silenziosa, guardando la mia immagine riflessa, una puttana in calore che si stava masturbando a un passo dall'essere scoperta.
Ho sentito la tenda del camerino accanto aprirsi. Era lì. A meno di un metro. Ho chiuso gli occhi e sono venuta. Un orgasmo devastante, che mi ha scosso tutta, i muscoli della figa che si stringevano attorno alle mie dita in spasmi violenti mentre mi mordevo il palmo della mano per non urlare.
Sono rimasta lì, appoggiata allo specchio freddo, tremante, ansimante, con il mio orgasmo che mi colava sulle gambe. Ho riaperto gli occhi. Ho guardato il disastro che avevo fatto. Le mie dita sporche, lo specchio macchiato, le mie cosce appiccicose. E ho sorriso.
Mi sono pulita alla meglio con un fazzoletto. Ho lasciato i completini di pizzo in un mucchio sul pavimento. Ho lasciato l'impronta della mia mano sullo specchio.
Mi sono rivestita, sono uscita. Lei era lì, al bancone, che mi aspettava con la sua solita aria di sufficienza.
Le sono passata davanti, fermandomi un attimo.
"Alla fine non ho trovato niente che mi piacesse", le ho detto, guardandola dritta negli occhi.
Il suo sguardo è sceso per un istante sulla mia bocca, forse un po' troppo rossa, un po' troppo gonfia. Ha aggrottato la fronte per una frazione di secondo. Non ha visto niente. Ma io so che ha sentito tutto. E so che quando entrerà in quel camerino per sistemare, troverà una piccola parte di me.
Il mio demone, per oggi, ha banchettato. E ha lasciato le ossa perché tutti le vedano.
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