Il diario di una ninfomane esibizionista: 7 ottobre 2025
di
Fuuka
genere
esibizionismo
7 Ottobre 2025
Diario,
stanotte ho dormito male. Non per il tormento, ma per la lucidità. L’umiliazione di ieri si è depositata sul fondo della mia anima, raffreddandosi, trasformandosi da un’emozione calda e incazzata in un blocco di ghiaccio. Un’ossessione fredda, affilata, precisa. Quella donna… quella regina di ghiaccio… non mi ha solo respinta. Mi ha analizzata, classificata e archiviata come “irrilevante”. E questo, per una come me, è un insulto peggiore di qualsiasi violenza. È una dichiarazione di guerra.
Stamattina, il demone non ringhiava. Era silenzioso. Studiava. Ho passato tre ore davanti al mio portatile, il caffè che si raffreddava accanto a me. Ho digitato su Google ogni possibile combinazione di “biblioteca municipale”, “curatrice d’arte”, “tailleur nero”. E alla fine, l’ho trovata.
Il suo nome è perfetto, quasi crudele nella sua eleganza. Le foto online la ritraggono a inaugurazioni di mostre, a conferenze, sempre impeccabile, sempre con quello stesso sguardo di controllo glaciale. Ho letto le sue interviste. Parla di “decostruzione dell’immagine femminile”, di “estetica del potere”, di “tensione tra l’osservatore e l’osservato”.
Cazzate. Fottute, intellettuali cazzate per descrivere quello che io faccio ogni giorno per istinto. Lei teorizza. Io agisco. E in quell’istante, ho capito come fotterla.
Non con la mia figa e basta. Non con un atto impulsivo e volgare sotto un tavolo. Quello è il mio linguaggio, non il suo. Lei lo considera primitivo, banale. L’ho visto nei suoi occhi. Per averla, per distruggerla, dovevo imparare a parlare la sua lingua. Dovevo tenderle un’esca che non potesse ignorare, un’esca così sofisticata e perversa da costringerla a guardarmi, a riconoscermi come sua pari. Dovevo diventare un concetto, un’idea irresistibile.
Ho passato il resto della giornata a preparare la mia trappola. Ho saltato il pranzo. La fame di cibo era insignificante di fronte a questa nuova ossessione. Sono tornata in biblioteca, ma stavolta non sono andata nella sala di lettura. Sono andata nel reparto di mitologia e folklore. Cercavo un’arma, uno specchio. E l’ho trovato. Un vecchio saggio sugli archetipi femminili oscuri. Circe, Medusa, le Sirene. E, soprattutto, Lilith.
Ho preso il libro e mi sono seduta in un angolo nascosto. Ho iniziato a leggere di Lilith. Il primo demone, la prima donna, la prima ribelle. Colei che si rifiutò di giacere sottomessa ad Adamo, che pronunciò il nome segreto di Dio e fuggì dall’Eden per diventare la regina della notte, madre di demoni, una creatura di pura libertà sessuale e potere indomito. E mentre leggevo, sentivo un’eco profonda dentro di me. Cazzo. Non stavo leggendo un mito. Stavo leggendo la mia biografia.
La mia figa ha iniziato a pulsare, un riconoscimento primordiale. Ho sfogliato le pagine fino a trovare un’incisione antica, una rappresentazione di Lilith con lunghi capelli neri, ali da demone e uno sguardo arrogante. Era bellissima. Ho chiuso gli occhi e ho immaginato di essere lei. Ho immaginato di avere ali e artigli. Ho immaginato di volare sopra la città, scegliendo le mie prede. E ho immaginato lei, la mia regina di ghiaccio, come la mia Eva. La prima donna da corrompere, da sedurre, da trascinare via dal suo finto paradiso di controllo e intelletto. Ero così eccitata, così mentalmente bagnata da questa fantasia, che ho dovuto premere il libro contro il mio pube, sentendo la copertina dura contro il mio clitoride gonfio, soffocando un gemito. L’esca era pronta.
Alle sette di sera, sono tornata nella sala di lettura. Stesso posto. Stesso tavolo. Ma stavolta, ero un’altra persona. Non ero lì per cacciare. Ero lì per tendere una trappola.
Ho messo il libro sugli archetipi femminili bene in vista sul tavolo, aperto sulla pagina di Lilith. Ho aperto il mio quaderno e ho iniziato a scrivere, a copiare frasi, a elaborare pensieri sulla “sovversione del potere patriarcale attraverso l’archetipo demoniaco femminile”. Ero l’immagine perfetta della studentessa di studi di genere, seria e tormentata. Un’esibizione, ma di un genere così sofisticato che solo lei avrebbe potuto capirla.
È arrivata alle sette e mezza. Stessa eleganza, stesso passo regale. Un altro tailleur, stavolta grigio perla. Si è seduta, ha aperto il suo portatile. Per un’ora, non è successo nulla. Un’ora di silenzio teso, in cui sentivo il suo sguardo su di me, a intervalli regolari. Non mi guardava. Mi leggeva. Leggeva la copertina del mio libro, la mia postura concentrata, la serietà quasi ridicola della mia performance. La stavo incuriosendo. La stavo costringendo a riconsiderare la sua classificazione di “dilettante”.
Alla fine, si è alzata. Ha fatto il giro del tavolo e si è fermata alle mie spalle. Ho sentito il suo profumo, sandalo e inchiostro, prima ancora di sentire la sua voce. Il mio corpo si è irrigidito, la mia figa si è contratta in un saluto silenzioso.
“Lilith”, ha detto. La sua voce era bassa, un velluto pieno di spilli. “Una scelta ambiziosa. La maggior parte la considera semplicemente un mostro notturno, una fantasia per spaventare gli uomini”.
Mi sono girata lentamente, fingendo sorpresa. “Solo gli uomini spaventati vedono un mostro”, ho risposto, guardandola dritta negli occhi. “Io vedo una donna che si è rifiutata di stare sotto”. Il doppio senso era così pesante, così esplicito, che l’ho vista stringere impercettibilmente la mascella.
Un lampo è passato nei suoi occhi. Un riconoscimento. “Interessante”, ha detto, e per la prima volta, il suo sorriso non era di sufficienza. Era… interessato. Si è appoggiata allo schienale della mia sedia, il suo corpo vicino al mio. “Ma la sua libertà non è forse una prigione? Condannata a essere l’antitesi, definita solo dalla sua ribellione. Non è vero potere, è una reazione. Il vero potere non ha bisogno di ribellarsi. Semplicemente, è”.
“Il potere che non viene messo alla prova non è potere, è solo presunzione”, ho replicato. E mentre lo dicevo, la stavo immaginando. -Ti piace il potere, puttana? Ora ti faccio vedere io. Ti sbatto su questo tavolo, ti apro le gambe e ti ficco tre dita nella figa mentre ti guardo negli occhi e ti spiego la differenza tra potere e presunzione. Questa è la mia tesi.- “Lilith non è una reazione. È un’azione. È la scelta di divorare, invece di essere divorata”.
“O forse è solo l’archetipo della cagna che non sa stare al suo posto”, ha detto lei. La sua mano si è posata sulla mia spalla. Un gesto quasi casuale, ma l’ho sentito come una marchiatura a fuoco, un atto di possesso. Ho sentito i miei capezzoli indurirsi sotto la camicia. “Un animale guidato da una fame che non riesce a controllare. Non c’è strategia nella fame. C’è solo bisogno”. Mi stava descrivendo. Mi stava insultando con una classe glaciale.
“Forse”, ho sussurrato, la voce roca. “Ma non c’è niente di più onesto della fame”. E il mio sguardo è sceso per un istante sulle sue labbra rosse. -Ho fame di te, cazzo. Ho fame di morderti, di lasciarti un segno, di sentire il sapore del tuo controllo che si spezza tra i miei denti.-
È rimasta in silenzio per un attimo, la sua mano ancora sulla mia spalla, il suo sguardo che mi analizzava, che mi sezionava. Sentivo le guance in fiamme, ma non ho ceduto. Ero nuda di fronte a lei, ma stavolta non era il mio corpo a essere esposto. Era la mia mente. La mia anima nera e perversa.
“Una tesi affascinante”, ha detto infine, ritirando la mano. Il calore fantasma del suo tocco è rimasto sulla mia spalla. “Forse un giorno dovremmo discutere di chi, tra noi due, è la vera Lilith”.
Si è girata e se n’è andata, lasciandomi lì, tremante, con il cuore che batteva all’impazzata.
Sono rimasta seduta per un’altra mezz’ora, incapace di muovermi. Non mi aveva toccata, non veramente. Non mi aveva umiliata. Aveva parlato con me, aveva duellato con me. E cazzo, è stata la cosa più intima e violenta che mi sia mai capitata.
Sono uscita dalla biblioteca sentendomi ubriaca. L’eccitazione era diversa da qualsiasi orgasmo. Era un’eccitazione mentale, pura, quasi dolorosa. Il demone non era sazio, ma era… intrigato. Appagato in un modo nuovo.
Ho vinto il primo round. Le ho dimostrato che non sono solo una figa bagnata. Le ho dimostrato di avere dei denti, una mente. Le ho dimostrato di essere degna della sua attenzione. Ora sa chi sono. E ora, cazzo, ora inizia il vero gioco.
Diario,
stanotte ho dormito male. Non per il tormento, ma per la lucidità. L’umiliazione di ieri si è depositata sul fondo della mia anima, raffreddandosi, trasformandosi da un’emozione calda e incazzata in un blocco di ghiaccio. Un’ossessione fredda, affilata, precisa. Quella donna… quella regina di ghiaccio… non mi ha solo respinta. Mi ha analizzata, classificata e archiviata come “irrilevante”. E questo, per una come me, è un insulto peggiore di qualsiasi violenza. È una dichiarazione di guerra.
Stamattina, il demone non ringhiava. Era silenzioso. Studiava. Ho passato tre ore davanti al mio portatile, il caffè che si raffreddava accanto a me. Ho digitato su Google ogni possibile combinazione di “biblioteca municipale”, “curatrice d’arte”, “tailleur nero”. E alla fine, l’ho trovata.
Il suo nome è perfetto, quasi crudele nella sua eleganza. Le foto online la ritraggono a inaugurazioni di mostre, a conferenze, sempre impeccabile, sempre con quello stesso sguardo di controllo glaciale. Ho letto le sue interviste. Parla di “decostruzione dell’immagine femminile”, di “estetica del potere”, di “tensione tra l’osservatore e l’osservato”.
Cazzate. Fottute, intellettuali cazzate per descrivere quello che io faccio ogni giorno per istinto. Lei teorizza. Io agisco. E in quell’istante, ho capito come fotterla.
Non con la mia figa e basta. Non con un atto impulsivo e volgare sotto un tavolo. Quello è il mio linguaggio, non il suo. Lei lo considera primitivo, banale. L’ho visto nei suoi occhi. Per averla, per distruggerla, dovevo imparare a parlare la sua lingua. Dovevo tenderle un’esca che non potesse ignorare, un’esca così sofisticata e perversa da costringerla a guardarmi, a riconoscermi come sua pari. Dovevo diventare un concetto, un’idea irresistibile.
Ho passato il resto della giornata a preparare la mia trappola. Ho saltato il pranzo. La fame di cibo era insignificante di fronte a questa nuova ossessione. Sono tornata in biblioteca, ma stavolta non sono andata nella sala di lettura. Sono andata nel reparto di mitologia e folklore. Cercavo un’arma, uno specchio. E l’ho trovato. Un vecchio saggio sugli archetipi femminili oscuri. Circe, Medusa, le Sirene. E, soprattutto, Lilith.
Ho preso il libro e mi sono seduta in un angolo nascosto. Ho iniziato a leggere di Lilith. Il primo demone, la prima donna, la prima ribelle. Colei che si rifiutò di giacere sottomessa ad Adamo, che pronunciò il nome segreto di Dio e fuggì dall’Eden per diventare la regina della notte, madre di demoni, una creatura di pura libertà sessuale e potere indomito. E mentre leggevo, sentivo un’eco profonda dentro di me. Cazzo. Non stavo leggendo un mito. Stavo leggendo la mia biografia.
La mia figa ha iniziato a pulsare, un riconoscimento primordiale. Ho sfogliato le pagine fino a trovare un’incisione antica, una rappresentazione di Lilith con lunghi capelli neri, ali da demone e uno sguardo arrogante. Era bellissima. Ho chiuso gli occhi e ho immaginato di essere lei. Ho immaginato di avere ali e artigli. Ho immaginato di volare sopra la città, scegliendo le mie prede. E ho immaginato lei, la mia regina di ghiaccio, come la mia Eva. La prima donna da corrompere, da sedurre, da trascinare via dal suo finto paradiso di controllo e intelletto. Ero così eccitata, così mentalmente bagnata da questa fantasia, che ho dovuto premere il libro contro il mio pube, sentendo la copertina dura contro il mio clitoride gonfio, soffocando un gemito. L’esca era pronta.
Alle sette di sera, sono tornata nella sala di lettura. Stesso posto. Stesso tavolo. Ma stavolta, ero un’altra persona. Non ero lì per cacciare. Ero lì per tendere una trappola.
Ho messo il libro sugli archetipi femminili bene in vista sul tavolo, aperto sulla pagina di Lilith. Ho aperto il mio quaderno e ho iniziato a scrivere, a copiare frasi, a elaborare pensieri sulla “sovversione del potere patriarcale attraverso l’archetipo demoniaco femminile”. Ero l’immagine perfetta della studentessa di studi di genere, seria e tormentata. Un’esibizione, ma di un genere così sofisticato che solo lei avrebbe potuto capirla.
È arrivata alle sette e mezza. Stessa eleganza, stesso passo regale. Un altro tailleur, stavolta grigio perla. Si è seduta, ha aperto il suo portatile. Per un’ora, non è successo nulla. Un’ora di silenzio teso, in cui sentivo il suo sguardo su di me, a intervalli regolari. Non mi guardava. Mi leggeva. Leggeva la copertina del mio libro, la mia postura concentrata, la serietà quasi ridicola della mia performance. La stavo incuriosendo. La stavo costringendo a riconsiderare la sua classificazione di “dilettante”.
Alla fine, si è alzata. Ha fatto il giro del tavolo e si è fermata alle mie spalle. Ho sentito il suo profumo, sandalo e inchiostro, prima ancora di sentire la sua voce. Il mio corpo si è irrigidito, la mia figa si è contratta in un saluto silenzioso.
“Lilith”, ha detto. La sua voce era bassa, un velluto pieno di spilli. “Una scelta ambiziosa. La maggior parte la considera semplicemente un mostro notturno, una fantasia per spaventare gli uomini”.
Mi sono girata lentamente, fingendo sorpresa. “Solo gli uomini spaventati vedono un mostro”, ho risposto, guardandola dritta negli occhi. “Io vedo una donna che si è rifiutata di stare sotto”. Il doppio senso era così pesante, così esplicito, che l’ho vista stringere impercettibilmente la mascella.
Un lampo è passato nei suoi occhi. Un riconoscimento. “Interessante”, ha detto, e per la prima volta, il suo sorriso non era di sufficienza. Era… interessato. Si è appoggiata allo schienale della mia sedia, il suo corpo vicino al mio. “Ma la sua libertà non è forse una prigione? Condannata a essere l’antitesi, definita solo dalla sua ribellione. Non è vero potere, è una reazione. Il vero potere non ha bisogno di ribellarsi. Semplicemente, è”.
“Il potere che non viene messo alla prova non è potere, è solo presunzione”, ho replicato. E mentre lo dicevo, la stavo immaginando. -Ti piace il potere, puttana? Ora ti faccio vedere io. Ti sbatto su questo tavolo, ti apro le gambe e ti ficco tre dita nella figa mentre ti guardo negli occhi e ti spiego la differenza tra potere e presunzione. Questa è la mia tesi.- “Lilith non è una reazione. È un’azione. È la scelta di divorare, invece di essere divorata”.
“O forse è solo l’archetipo della cagna che non sa stare al suo posto”, ha detto lei. La sua mano si è posata sulla mia spalla. Un gesto quasi casuale, ma l’ho sentito come una marchiatura a fuoco, un atto di possesso. Ho sentito i miei capezzoli indurirsi sotto la camicia. “Un animale guidato da una fame che non riesce a controllare. Non c’è strategia nella fame. C’è solo bisogno”. Mi stava descrivendo. Mi stava insultando con una classe glaciale.
“Forse”, ho sussurrato, la voce roca. “Ma non c’è niente di più onesto della fame”. E il mio sguardo è sceso per un istante sulle sue labbra rosse. -Ho fame di te, cazzo. Ho fame di morderti, di lasciarti un segno, di sentire il sapore del tuo controllo che si spezza tra i miei denti.-
È rimasta in silenzio per un attimo, la sua mano ancora sulla mia spalla, il suo sguardo che mi analizzava, che mi sezionava. Sentivo le guance in fiamme, ma non ho ceduto. Ero nuda di fronte a lei, ma stavolta non era il mio corpo a essere esposto. Era la mia mente. La mia anima nera e perversa.
“Una tesi affascinante”, ha detto infine, ritirando la mano. Il calore fantasma del suo tocco è rimasto sulla mia spalla. “Forse un giorno dovremmo discutere di chi, tra noi due, è la vera Lilith”.
Si è girata e se n’è andata, lasciandomi lì, tremante, con il cuore che batteva all’impazzata.
Sono rimasta seduta per un’altra mezz’ora, incapace di muovermi. Non mi aveva toccata, non veramente. Non mi aveva umiliata. Aveva parlato con me, aveva duellato con me. E cazzo, è stata la cosa più intima e violenta che mi sia mai capitata.
Sono uscita dalla biblioteca sentendomi ubriaca. L’eccitazione era diversa da qualsiasi orgasmo. Era un’eccitazione mentale, pura, quasi dolorosa. Il demone non era sazio, ma era… intrigato. Appagato in un modo nuovo.
Ho vinto il primo round. Le ho dimostrato che non sono solo una figa bagnata. Le ho dimostrato di avere dei denti, una mente. Le ho dimostrato di essere degna della sua attenzione. Ora sa chi sono. E ora, cazzo, ora inizia il vero gioco.
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