La forma del silenzio: prologo (Marta) 1
di
Fuuka
genere
saffico
PREMESSA
Prima di iniziare questo viaggio, una nota necessaria: ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Questa storia nasce dall’immaginazione, ma si nutre di emozioni reali.
È un’esplorazione delle complesse geometrie del desiderio, delle maschere che indossiamo e delle verità che solo il corpo, a volte, sa rivelare. Tra le quinte dell’Officina 21 e le vie di Bergamo, i personaggi cercano una forma per il loro silenzio interiore, spesso trovandola l’uno nell’altro, nel conflitto e nell’abbandono. Spero che questo percorso nelle loro vite, con le sue luci e le sue ombre intense, possa offrirvi non solo una storia, ma anche uno specchio in cui ritrovare frammenti di voi stessi.
Buona lettura,
Fuuka
----------------------
L’Officina 21 respira polvere e attesa. L’odore acre della tempera secca si mescola a quello più dolce e stantio del legno vecchio del palco e al fantasma metallico dei riflettori spenti. È un odore che conosco, un odore che mi è mancato come l’aria, anche se per anni ho cercato di soffocarlo, di dimenticarlo. Bergamo mi accoglie con la sua consueta, austera bellezza grigia fuori dalle finestre alte e sporche, ma è qui dentro, in questo teatro “indipendente” che ho fondato e poi abbandonato, che sento di essere tornata veramente a casa. O forse, all’inferno personale che mi sono costruita.
Entro in sala prove e il silenzio si fa quasi solido, palpabile. Le poche attrici già presenti -visi noti, visi nuovi- si bloccano a metà di un gesto, di una parola. I loro sguardi si puntano su di me. Lo sento come un tocco fisico, un misto di rispetto, curiosità e, in alcuni, aperta apprensione. Sanno chi sono. Marta Rinaldi. Il talento sprecato, la regista esigente fino alla crudeltà, la donna che è fuggita dopo il disastro.
Ho trentanove anni, ma l’energia che mi vibra sottopelle è quella inquieta di sempre. Indosso pantaloni neri dal taglio impeccabile, una camicetta di seta color petrolio che accarezza senza stringere le curve che ancora resistono, e tacchi che battono sul pavimento di legno con un suono secco, autoritario. I miei capelli scuri sono raccolti in una crocchia disordinata ma voluta, qualche ciocca sfugge a incorniciare un viso che porta i segni di notti insonni e di una guerra interiore mai finita. Ma i miei occhi… i miei occhi sono ancora gli stessi. Affilati, analitici, capaci di spogliare un’anima con un solo sguardo.
E inizio a farlo. Lascio che il mio sguardo percorra lentamente la stanza, posandosi su ognuna di loro. Non cerco solo attrici. Cerco materiale umano. Cerco corpi da plasmare, voci da spezzare e ricostruire, anime da mettere a nudo sul palco. È un atto quasi vampirico, lo so. Ma è l’unico modo che conosco per creare.
C’è Giulia (30 anni), ovviamente. La mia vecchia fiamma, il mio errore più brillante e doloroso. È bellissima come sempre, con quella sua aria di controllo algido, i capelli castani cortissimi che le incorniciano un viso perfetto e arrogante. Mi guarda con una sfida malcelata negli occhi scuri. Sa che la vedo, sa che ricordo il sapore della sua pelle, il modo in cui gemeva quando perdeva il controllo sotto le mie mani. E sa che io so che lei lo ricorda. La tensione tra noi è una vecchia cicatrice che prude ancora.
Poi Alessia (32 anni), la scenografa, la nostra roccia pratica. È in un angolo, intenta a sistemare dei bozzetti, ma sento il suo sguardo su di me. È più morbida di Giulia, sia nelle forme che nell’espressione. C’è un’ironia perenne nei suoi occhi chiari, ma oggi percepisco anche un’ombra di stanchezza, forse di frustrazione. Seguo la direzione del suo sguardo e lo vedo posarsi su Giulia per un istante di troppo. Ah, Alessia. Sempre la custode silenziosa di un amore non corrisposto. La sua repressione è quasi palpabile, una nota stonata nell’aria carica di potenziale.
E la ragazzina, Nina (22 anni). La studentessa di arte drammatica. È seduta su una panca, un taccuino sulle ginocchia, e assorbe tutto con occhi spalancati e curiosi. È giovane, fresca, con quell’idealismo che io ho perso da tempo. Indossa jeans larghi e una felpa, sembra quasi fuori posto. Ma il modo in cui osserva, il modo in cui la sua penna si muove quasi febbrilmente sul foglio… sento che sarà lei la nostra cronista silenziosa, la custode involontaria dei nostri segreti.
Il mio sguardo continua il suo giro, valutando, scartando, catalogando. Spoglio ogni donna con gli occhi, non con lussuria, o non solo con lussuria, ma con la precisione di un chirurgo. Immagino come si muoverebbero sul palco, come reagirebbero alla pressione, come crollerebbero sotto la mia direzione. Immagino la curva di una schiena che si inarca in un grido di dolore scenico, la tensione di una coscia mentre trattiene un passo, il modo in cui la luce colpirebbe il sudore sulla pelle di una spalla nuda. E sì, l’inevitabile pensiero si insinua: come sarebbero sotto di me? Come gemerebbero? Come si arrenderebbero? Il mio sesso ha un piccolo sussulto involontario, un calore basso che si accende nel ventre. È il potere. Il potere di creare, di distruggere, di possedere. È la mia droga.
E poi, la vedo.
È arrivata in ritardo, scivolando dentro quasi senza farsi notare, cercando di nascondersi dietro le altre. Ma è impossibile non notarla. Lea Venturi (29 anni). La nuova iscritta. Non l’ho mai vista prima, ma il mio corpo la riconosce all’istante. È come se una corda invisibile si tendesse tra di noi.
Non è appariscente. È quasi l’opposto. Indossa abiti semplici, forse un po’ dimessi, un maglione troppo grande, dei jeans sbiaditi. I suoi capelli castani sono raccolti in una coda disordinata, e ha delle occhiaie scure che parlano di stanchezza o di tristezza. Ma c’è qualcosa in lei… una fragilità che non è debolezza, ma una sorta di trasparenza emotiva. E poi ci sono i suoi occhi. Grandi, scuri, profondi, sembrano contenere un universo di cose non dette. C’è paura in quello sguardo, ma anche una forza nascosta, una brace che arde sotto la cenere.
E il suo corpo… È snella, quasi esile, ma si muove con una grazia inconsapevole. La linea del suo collo è squisita, le sue labbra piene sembrano fatte per essere baciate fino a farle gonfiare. Il mio sguardo scende, analitico e famelico. Immagino le mie mani sotto quel maglione largo, sulla sua pelle che immagino liscia e calda. Immagino di spingerla contro un muro, di sentire il suo corpo tremare sotto il mio. Immagino di aprirla, lentamente, di assaggiare la sua paura e trasformarla in piacere.
Un’ondata di calore mi invade, così potente da farmi quasi mancare il respiro. Il mio clitoride pulsa contro la stoffa dei pantaloni. Devo distogliere lo sguardo, riprendere il controllo. Ma è troppo tardi. L’ho vista. E ora non posso più non vederla.
Mi schiarisco la voce, il suono che rompe l’incantesimo teso della stanza.
“Bene,” dico, la mia voce più ferma di quanto mi senta. “Vedo che ci siamo quasi tutte. Possiamo iniziare.”
Ma mentre parlo, i miei occhi tornano su di lei. Lea. E so, con una certezza assoluta e terrificante, che questo progetto teatrale è appena diventato qualcosa di molto, molto più pericoloso. E dannatamente eccitante.
Prima di iniziare questo viaggio, una nota necessaria: ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Questa storia nasce dall’immaginazione, ma si nutre di emozioni reali.
È un’esplorazione delle complesse geometrie del desiderio, delle maschere che indossiamo e delle verità che solo il corpo, a volte, sa rivelare. Tra le quinte dell’Officina 21 e le vie di Bergamo, i personaggi cercano una forma per il loro silenzio interiore, spesso trovandola l’uno nell’altro, nel conflitto e nell’abbandono. Spero che questo percorso nelle loro vite, con le sue luci e le sue ombre intense, possa offrirvi non solo una storia, ma anche uno specchio in cui ritrovare frammenti di voi stessi.
Buona lettura,
Fuuka
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L’Officina 21 respira polvere e attesa. L’odore acre della tempera secca si mescola a quello più dolce e stantio del legno vecchio del palco e al fantasma metallico dei riflettori spenti. È un odore che conosco, un odore che mi è mancato come l’aria, anche se per anni ho cercato di soffocarlo, di dimenticarlo. Bergamo mi accoglie con la sua consueta, austera bellezza grigia fuori dalle finestre alte e sporche, ma è qui dentro, in questo teatro “indipendente” che ho fondato e poi abbandonato, che sento di essere tornata veramente a casa. O forse, all’inferno personale che mi sono costruita.
Entro in sala prove e il silenzio si fa quasi solido, palpabile. Le poche attrici già presenti -visi noti, visi nuovi- si bloccano a metà di un gesto, di una parola. I loro sguardi si puntano su di me. Lo sento come un tocco fisico, un misto di rispetto, curiosità e, in alcuni, aperta apprensione. Sanno chi sono. Marta Rinaldi. Il talento sprecato, la regista esigente fino alla crudeltà, la donna che è fuggita dopo il disastro.
Ho trentanove anni, ma l’energia che mi vibra sottopelle è quella inquieta di sempre. Indosso pantaloni neri dal taglio impeccabile, una camicetta di seta color petrolio che accarezza senza stringere le curve che ancora resistono, e tacchi che battono sul pavimento di legno con un suono secco, autoritario. I miei capelli scuri sono raccolti in una crocchia disordinata ma voluta, qualche ciocca sfugge a incorniciare un viso che porta i segni di notti insonni e di una guerra interiore mai finita. Ma i miei occhi… i miei occhi sono ancora gli stessi. Affilati, analitici, capaci di spogliare un’anima con un solo sguardo.
E inizio a farlo. Lascio che il mio sguardo percorra lentamente la stanza, posandosi su ognuna di loro. Non cerco solo attrici. Cerco materiale umano. Cerco corpi da plasmare, voci da spezzare e ricostruire, anime da mettere a nudo sul palco. È un atto quasi vampirico, lo so. Ma è l’unico modo che conosco per creare.
C’è Giulia (30 anni), ovviamente. La mia vecchia fiamma, il mio errore più brillante e doloroso. È bellissima come sempre, con quella sua aria di controllo algido, i capelli castani cortissimi che le incorniciano un viso perfetto e arrogante. Mi guarda con una sfida malcelata negli occhi scuri. Sa che la vedo, sa che ricordo il sapore della sua pelle, il modo in cui gemeva quando perdeva il controllo sotto le mie mani. E sa che io so che lei lo ricorda. La tensione tra noi è una vecchia cicatrice che prude ancora.
Poi Alessia (32 anni), la scenografa, la nostra roccia pratica. È in un angolo, intenta a sistemare dei bozzetti, ma sento il suo sguardo su di me. È più morbida di Giulia, sia nelle forme che nell’espressione. C’è un’ironia perenne nei suoi occhi chiari, ma oggi percepisco anche un’ombra di stanchezza, forse di frustrazione. Seguo la direzione del suo sguardo e lo vedo posarsi su Giulia per un istante di troppo. Ah, Alessia. Sempre la custode silenziosa di un amore non corrisposto. La sua repressione è quasi palpabile, una nota stonata nell’aria carica di potenziale.
E la ragazzina, Nina (22 anni). La studentessa di arte drammatica. È seduta su una panca, un taccuino sulle ginocchia, e assorbe tutto con occhi spalancati e curiosi. È giovane, fresca, con quell’idealismo che io ho perso da tempo. Indossa jeans larghi e una felpa, sembra quasi fuori posto. Ma il modo in cui osserva, il modo in cui la sua penna si muove quasi febbrilmente sul foglio… sento che sarà lei la nostra cronista silenziosa, la custode involontaria dei nostri segreti.
Il mio sguardo continua il suo giro, valutando, scartando, catalogando. Spoglio ogni donna con gli occhi, non con lussuria, o non solo con lussuria, ma con la precisione di un chirurgo. Immagino come si muoverebbero sul palco, come reagirebbero alla pressione, come crollerebbero sotto la mia direzione. Immagino la curva di una schiena che si inarca in un grido di dolore scenico, la tensione di una coscia mentre trattiene un passo, il modo in cui la luce colpirebbe il sudore sulla pelle di una spalla nuda. E sì, l’inevitabile pensiero si insinua: come sarebbero sotto di me? Come gemerebbero? Come si arrenderebbero? Il mio sesso ha un piccolo sussulto involontario, un calore basso che si accende nel ventre. È il potere. Il potere di creare, di distruggere, di possedere. È la mia droga.
E poi, la vedo.
È arrivata in ritardo, scivolando dentro quasi senza farsi notare, cercando di nascondersi dietro le altre. Ma è impossibile non notarla. Lea Venturi (29 anni). La nuova iscritta. Non l’ho mai vista prima, ma il mio corpo la riconosce all’istante. È come se una corda invisibile si tendesse tra di noi.
Non è appariscente. È quasi l’opposto. Indossa abiti semplici, forse un po’ dimessi, un maglione troppo grande, dei jeans sbiaditi. I suoi capelli castani sono raccolti in una coda disordinata, e ha delle occhiaie scure che parlano di stanchezza o di tristezza. Ma c’è qualcosa in lei… una fragilità che non è debolezza, ma una sorta di trasparenza emotiva. E poi ci sono i suoi occhi. Grandi, scuri, profondi, sembrano contenere un universo di cose non dette. C’è paura in quello sguardo, ma anche una forza nascosta, una brace che arde sotto la cenere.
E il suo corpo… È snella, quasi esile, ma si muove con una grazia inconsapevole. La linea del suo collo è squisita, le sue labbra piene sembrano fatte per essere baciate fino a farle gonfiare. Il mio sguardo scende, analitico e famelico. Immagino le mie mani sotto quel maglione largo, sulla sua pelle che immagino liscia e calda. Immagino di spingerla contro un muro, di sentire il suo corpo tremare sotto il mio. Immagino di aprirla, lentamente, di assaggiare la sua paura e trasformarla in piacere.
Un’ondata di calore mi invade, così potente da farmi quasi mancare il respiro. Il mio clitoride pulsa contro la stoffa dei pantaloni. Devo distogliere lo sguardo, riprendere il controllo. Ma è troppo tardi. L’ho vista. E ora non posso più non vederla.
Mi schiarisco la voce, il suono che rompe l’incantesimo teso della stanza.
“Bene,” dico, la mia voce più ferma di quanto mi senta. “Vedo che ci siamo quasi tutte. Possiamo iniziare.”
Ma mentre parlo, i miei occhi tornano su di lei. Lea. E so, con una certezza assoluta e terrificante, che questo progetto teatrale è appena diventato qualcosa di molto, molto più pericoloso. E dannatamente eccitante.
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