Il diario di una ninfomane esibizionista: 2 ottobre 2025
di
Fuuka
genere
esibizionismo
2 Ottobre 2025
Diario,
stamattina mi sono svegliata con un sapore in bocca, e non era quello del mio orgasmo di ieri. Era il sapore del potere. L'immagine di quella commessa stronza, con la sua faccia perfetta e annoiata, mi ha tenuta sveglia per ore, intrappolata in un loop di fantasie deliziose e perverse. Ho passato la notte a immaginarla. La immaginavo mentre entrava nel camerino dopo di me, con la sua solita aria di sufficienza, pronta a raccogliere i pizzi che avevo gettato a terra. E poi, la vedevo bloccarsi. La immaginavo notare l'impronta umida della mia mano sullo specchio. La sua fronte che si aggrottava. La immaginavo avvicinarsi, forse per curiosità, forse per puro, igienico disgusto, e toccare la macchia ancora tiepida con la punta del suo dito laccato di rosso. E poi, il gesto che mi ha fatta contorcere nel letto per tutta la notte: la immaginavo portarsi il dito al naso, per annusare. Volevo che sentisse il mio odore. L'odore della mia figa bagnata e soddisfatta. Volevo che quell'odore le si conficcasse nel cervello, che le infestasse i sogni, che la tormentasse mentre scopava con il suo noioso fidanzato. Questa fantasia mi ha fatta bagnare così tanto che ho dovuto scoparmi da sola con due dita prima ancora di pisciare, solo per calmare il mostro che mi stava divorando da dentro. È stato un orgasmo rabbioso, quasi un esorcismo per togliermi la sua faccia dalla testa. Non ha funzionato.
La giornata è stata un inferno di attesa. Un deserto arido. Ogni cosa era un cazzo di preludio a un concerto che non iniziava mai. Il mondo sembrava privo di interesse, una tela grigia. Avevo bisogno di un colore, di una scintilla. La mia fame non era più un prurito, era un dolore sordo nel basso ventre, un vuoto che esigeva di essere riempito con qualcosa di sporco, di reale, di proibito. Il ricordo dell'adrenalina pura, del rischio di essere scoperta, era una droga di cui il mio corpo chiedeva un'altra dose, con sempre più insistenza.
Alla fine della giornata lavorativa, ero esausta e frustrata. Ho deciso di non prendere la solita metro veloce. Ho deciso di regalarmi una piccola caccia. Ho preso il tram, quello vecchio e sferragliante che taglia la città lentamente e attraversa i quartieri universitari. Pioveva. Una pioggia fitta e fastidiosa che rendeva tutto più grigio, più intimo. Le luci dei lampioni e dei negozi scivolavano sui finestrini bagnati, creando un'atmosfera distorta e sognante. Un palcoscenico perfetto per un piccolo spettacolo privato.
Il vagone era abbastanza pieno, un mix di gente stanca e fradicia, i volti illuminati dalla luce bluastra degli schermi dei telefoni. L'odore di lana bagnata, di ozono e di umanità. Mi sono seduta in uno di quei sedili singoli vicino al finestrino, con un sedile doppio di fronte a me. Ho iniziato a scannerizzare i passeggeri, le mie prede potenziali. I miei occhi scartavano, soppesavano. Una donna sulla quarantina, troppo stanca. Una coppia che si baciava, troppo auto-assorbita.
E poi, l'ho vista.
Poteva avere vent'anni, forse meno. Una studentessa, a giudicare dai libri che teneva in grembo. Capelli scuri e ricci raccolti in una coda disordinata, cuffiette bianche nelle orecchie, lo sguardo perso fuori dal finestrino, a seguire le gocce di pioggia che gareggiavano sul vetro. Aveva un'aria così innocente, così pura e assorta nel suo piccolo mondo. Intoccabile. E il mio demone, a quella vista, ha iniziato a sbavare. Corrompere l'innocenza, anche solo per un istante, anche solo con uno sguardo, è una delle mie perversioni preferite.
Indossavo un cappotto lungo di lana scura. Nessuno poteva vedere le mie mani. Il gioco è iniziato lentamente. Ho iniziato a strusciare il palmo della mano sui miei jeans, proprio sopra il pube. Il tessuto ruvido contro il mio clitoride già gonfio era una tortura deliziosa. La ragazza non si è accorta di nulla, persa nella sua musica. Il che rendeva tutto ancora più eccitante. La mia figa ha iniziato a bagnarsi, un calore che si espandeva tra le mie gambe. Ma non era abbastanza. Volevo di più. Volevo sentirmi. Volevo il contatto della mia pelle, delle mie dita.
Con un movimento lento, quasi impercettibile, coperta dal cappotto, ho slacciato il bottone e ho abbassato la zip dei jeans. L'aria fredda del vagone mi ha colpito la pelle nuda e ho rabbrividito. Era un piccolo shock, un promemoria di dove fossi e di cosa stessi facendo. Ho fatto scivolare la mano dentro, spostando il pizzo delle mutandine, trovando la mia figa già fradicia e pronta. Cazzo. La sensazione di essere lì, con le dita dentro di me, circondata da decine di persone che non sospettavano nulla, era da svenimento.
Ho iniziato a masturbarmi. Lentamente. Un dito, che affondava nel mio succo caldo. Poi due. Ogni scossone del tram era una spinta in più, ogni vibrazione del metallo sotto di me si propagava attraverso il sedile fino al mio sesso. Ogni fermata, con gente che saliva e scendeva, era una scarica di adrenalina che mi faceva bagnare ancora di più. Il mio succo mi colava tra le dita, sulla mano, bagnando l'interno del cappotto. Ero un disastro, una fontana di lussuria liquida. E la ragazza era ancora lì, ignara, a un metro da me, un angelo inconsapevole nel mio personale spettacolo porno.
Una vecchia signora seduta qualche posto più in là mi ha guardato. Ho bloccato la mano, il cuore che mi martellava in gola. Ho sostenuto il suo sguardo, impassibile. Lei ha distolto gli occhi, probabilmente infastidita. Il sollievo è stato così intenso che mi ha strappato un gemito silenzioso. Il quasi-essere-scoperta era più eccitante dell'atto stesso.
Era ora dello spettacolo finale. Era ora di coinvolgere il mio pubblico involontario.
Ho tirato fuori la mano, deliberatamente, e l'ho guardata. Bagnata, brillante sotto le luci al neon del tram. Poi ho alzato lo sguardo e ho fissato la studentessa. L'ho fissata così intensamente che l'ha sentito, come una carezza fisica. Si è girata lentamente. I suoi occhi, grandi e scuri, hanno incontrato i miei. Confusione. Poi sono scesi, sulla mia mano. L'ha vista. Ha visto le mie dita bagnate, sporche di me. Il suo sguardo è tornato sul mio viso, e ho visto il momento esatto in cui ha capito. I suoi occhi si sono sgranati. Le sue labbra si sono socchiuse. Ha tolto di scatto le cuffiette. Non ha urlato. Non si è mossa. È rimasta lì, paralizzata, le guance che si infuocavano di un rossore bellissimo.
Non ho distolto lo sguardo. L'ho tenuta prigioniera con i miei occhi mentre la mia altra mano tornava sotto il cappotto, di nuovo dentro di me, e iniziava a muoversi con una velocità frenetica, disperata. Questo è per te, puttana, pensavo. Questo disastro è colpa tua. Guarda. Guarda cosa mi fai fare.
Sono venuta. Un orgasmo sordo, potentissimo, che mi ha fatto quasi cadere dal sedile. Il mio corpo si è contratto violentemente, la mia figa che pulsava e spruzzava contro la mia mano, il tutto mentre la guardavo dritta negli occhi. Ho visto un lampo passare nei suoi. Paura? Disgusto? O qualcos'altro? Qualcosa di più oscuro e profondo.
Il tram ha emesso un segnale acustico. Si stava fermando. Era la mia fermata.
Mi sono alzata, le gambe che mi tremavano, sentendo il mio umore appiccicoso contro la pelle. Mi sono sistemata i vestiti alla meglio. Le sono passata davanti per scendere. Il suo odore, un misto di pioggia e shampoo alla mela, mi ha riempito le narici. Le ho sorriso. Lei si è ritratta come se avesse paura che la toccassi, premendosi contro il finestrino.
Sono scesa e il tram è ripartito, portandosela via, con la sua faccia sconvolta e bellissima incollata al vetro. Sono rimasta lì, sotto la pioggia battente, con il freddo che mi colpiva le cosce ancora umide e appiccicose. Ero esausta, svuotata, e fottutamente, gloriosamente, viva. La città è il mio bordello personale, e le sue anime innocenti sono le mie puttane preferite.
Diario,
stamattina mi sono svegliata con un sapore in bocca, e non era quello del mio orgasmo di ieri. Era il sapore del potere. L'immagine di quella commessa stronza, con la sua faccia perfetta e annoiata, mi ha tenuta sveglia per ore, intrappolata in un loop di fantasie deliziose e perverse. Ho passato la notte a immaginarla. La immaginavo mentre entrava nel camerino dopo di me, con la sua solita aria di sufficienza, pronta a raccogliere i pizzi che avevo gettato a terra. E poi, la vedevo bloccarsi. La immaginavo notare l'impronta umida della mia mano sullo specchio. La sua fronte che si aggrottava. La immaginavo avvicinarsi, forse per curiosità, forse per puro, igienico disgusto, e toccare la macchia ancora tiepida con la punta del suo dito laccato di rosso. E poi, il gesto che mi ha fatta contorcere nel letto per tutta la notte: la immaginavo portarsi il dito al naso, per annusare. Volevo che sentisse il mio odore. L'odore della mia figa bagnata e soddisfatta. Volevo che quell'odore le si conficcasse nel cervello, che le infestasse i sogni, che la tormentasse mentre scopava con il suo noioso fidanzato. Questa fantasia mi ha fatta bagnare così tanto che ho dovuto scoparmi da sola con due dita prima ancora di pisciare, solo per calmare il mostro che mi stava divorando da dentro. È stato un orgasmo rabbioso, quasi un esorcismo per togliermi la sua faccia dalla testa. Non ha funzionato.
La giornata è stata un inferno di attesa. Un deserto arido. Ogni cosa era un cazzo di preludio a un concerto che non iniziava mai. Il mondo sembrava privo di interesse, una tela grigia. Avevo bisogno di un colore, di una scintilla. La mia fame non era più un prurito, era un dolore sordo nel basso ventre, un vuoto che esigeva di essere riempito con qualcosa di sporco, di reale, di proibito. Il ricordo dell'adrenalina pura, del rischio di essere scoperta, era una droga di cui il mio corpo chiedeva un'altra dose, con sempre più insistenza.
Alla fine della giornata lavorativa, ero esausta e frustrata. Ho deciso di non prendere la solita metro veloce. Ho deciso di regalarmi una piccola caccia. Ho preso il tram, quello vecchio e sferragliante che taglia la città lentamente e attraversa i quartieri universitari. Pioveva. Una pioggia fitta e fastidiosa che rendeva tutto più grigio, più intimo. Le luci dei lampioni e dei negozi scivolavano sui finestrini bagnati, creando un'atmosfera distorta e sognante. Un palcoscenico perfetto per un piccolo spettacolo privato.
Il vagone era abbastanza pieno, un mix di gente stanca e fradicia, i volti illuminati dalla luce bluastra degli schermi dei telefoni. L'odore di lana bagnata, di ozono e di umanità. Mi sono seduta in uno di quei sedili singoli vicino al finestrino, con un sedile doppio di fronte a me. Ho iniziato a scannerizzare i passeggeri, le mie prede potenziali. I miei occhi scartavano, soppesavano. Una donna sulla quarantina, troppo stanca. Una coppia che si baciava, troppo auto-assorbita.
E poi, l'ho vista.
Poteva avere vent'anni, forse meno. Una studentessa, a giudicare dai libri che teneva in grembo. Capelli scuri e ricci raccolti in una coda disordinata, cuffiette bianche nelle orecchie, lo sguardo perso fuori dal finestrino, a seguire le gocce di pioggia che gareggiavano sul vetro. Aveva un'aria così innocente, così pura e assorta nel suo piccolo mondo. Intoccabile. E il mio demone, a quella vista, ha iniziato a sbavare. Corrompere l'innocenza, anche solo per un istante, anche solo con uno sguardo, è una delle mie perversioni preferite.
Indossavo un cappotto lungo di lana scura. Nessuno poteva vedere le mie mani. Il gioco è iniziato lentamente. Ho iniziato a strusciare il palmo della mano sui miei jeans, proprio sopra il pube. Il tessuto ruvido contro il mio clitoride già gonfio era una tortura deliziosa. La ragazza non si è accorta di nulla, persa nella sua musica. Il che rendeva tutto ancora più eccitante. La mia figa ha iniziato a bagnarsi, un calore che si espandeva tra le mie gambe. Ma non era abbastanza. Volevo di più. Volevo sentirmi. Volevo il contatto della mia pelle, delle mie dita.
Con un movimento lento, quasi impercettibile, coperta dal cappotto, ho slacciato il bottone e ho abbassato la zip dei jeans. L'aria fredda del vagone mi ha colpito la pelle nuda e ho rabbrividito. Era un piccolo shock, un promemoria di dove fossi e di cosa stessi facendo. Ho fatto scivolare la mano dentro, spostando il pizzo delle mutandine, trovando la mia figa già fradicia e pronta. Cazzo. La sensazione di essere lì, con le dita dentro di me, circondata da decine di persone che non sospettavano nulla, era da svenimento.
Ho iniziato a masturbarmi. Lentamente. Un dito, che affondava nel mio succo caldo. Poi due. Ogni scossone del tram era una spinta in più, ogni vibrazione del metallo sotto di me si propagava attraverso il sedile fino al mio sesso. Ogni fermata, con gente che saliva e scendeva, era una scarica di adrenalina che mi faceva bagnare ancora di più. Il mio succo mi colava tra le dita, sulla mano, bagnando l'interno del cappotto. Ero un disastro, una fontana di lussuria liquida. E la ragazza era ancora lì, ignara, a un metro da me, un angelo inconsapevole nel mio personale spettacolo porno.
Una vecchia signora seduta qualche posto più in là mi ha guardato. Ho bloccato la mano, il cuore che mi martellava in gola. Ho sostenuto il suo sguardo, impassibile. Lei ha distolto gli occhi, probabilmente infastidita. Il sollievo è stato così intenso che mi ha strappato un gemito silenzioso. Il quasi-essere-scoperta era più eccitante dell'atto stesso.
Era ora dello spettacolo finale. Era ora di coinvolgere il mio pubblico involontario.
Ho tirato fuori la mano, deliberatamente, e l'ho guardata. Bagnata, brillante sotto le luci al neon del tram. Poi ho alzato lo sguardo e ho fissato la studentessa. L'ho fissata così intensamente che l'ha sentito, come una carezza fisica. Si è girata lentamente. I suoi occhi, grandi e scuri, hanno incontrato i miei. Confusione. Poi sono scesi, sulla mia mano. L'ha vista. Ha visto le mie dita bagnate, sporche di me. Il suo sguardo è tornato sul mio viso, e ho visto il momento esatto in cui ha capito. I suoi occhi si sono sgranati. Le sue labbra si sono socchiuse. Ha tolto di scatto le cuffiette. Non ha urlato. Non si è mossa. È rimasta lì, paralizzata, le guance che si infuocavano di un rossore bellissimo.
Non ho distolto lo sguardo. L'ho tenuta prigioniera con i miei occhi mentre la mia altra mano tornava sotto il cappotto, di nuovo dentro di me, e iniziava a muoversi con una velocità frenetica, disperata. Questo è per te, puttana, pensavo. Questo disastro è colpa tua. Guarda. Guarda cosa mi fai fare.
Sono venuta. Un orgasmo sordo, potentissimo, che mi ha fatto quasi cadere dal sedile. Il mio corpo si è contratto violentemente, la mia figa che pulsava e spruzzava contro la mia mano, il tutto mentre la guardavo dritta negli occhi. Ho visto un lampo passare nei suoi. Paura? Disgusto? O qualcos'altro? Qualcosa di più oscuro e profondo.
Il tram ha emesso un segnale acustico. Si stava fermando. Era la mia fermata.
Mi sono alzata, le gambe che mi tremavano, sentendo il mio umore appiccicoso contro la pelle. Mi sono sistemata i vestiti alla meglio. Le sono passata davanti per scendere. Il suo odore, un misto di pioggia e shampoo alla mela, mi ha riempito le narici. Le ho sorriso. Lei si è ritratta come se avesse paura che la toccassi, premendosi contro il finestrino.
Sono scesa e il tram è ripartito, portandosela via, con la sua faccia sconvolta e bellissima incollata al vetro. Sono rimasta lì, sotto la pioggia battente, con il freddo che mi colpiva le cosce ancora umide e appiccicose. Ero esausta, svuotata, e fottutamente, gloriosamente, viva. La città è il mio bordello personale, e le sue anime innocenti sono le mie puttane preferite.
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