Filo Rosso Anima 1
di
Fuuka
genere
bondage
Sono passate tre settimane. Ventuno giorni. Cinquecentoquattro ore che sembrano un'eternità sospesa, un tempo che non scorre più in avanti ma in cerchio, tornando costantemente a un singolo, incandescente punto di origine: Monza. La mia vita, un meccanismo fino ad allora così meticolosamente oliato, è stata scardinata dal suo asse e riprogrammata secondo una nuova, caotica e meravigliosa orbita. Quella di Yuko.
L'eco di quell'incontro non è un ricordo, è una condizione esistenziale. A volte, nel silenzio quasi assoluto del mio appartamento al calar della sera, mi sembra ancora di sentire il rombo assordante dei motori, ma è solo un'illusione acustica. Il vero rumore, quello persistente, è dentro di me, un'onda d'urto che non si placa. È il ricordo della sua risata, un suono cristallino che riusciva a sovrastare il frastuono della folla; è il calore quasi bruciante della sua mano quando ha cercato la mia, un gesto così naturale che sembrava scritto nel destino; è la scossa elettrica del nostro primo bacio, un sapore di menta, di lei e di desiderio puro che mi è rimasto impresso sull'anima, un tatuaggio invisibile.
La distanza è diventata una creatura vivente che dorme nel mio letto. È un peso fisico sul petto quando mi sveglio la mattina, trovando il suo lato vuoto e freddo; è una fame sorda che mi accompagna durante il giorno, rendendo insipido il cibo e sbiaditi i colori; è un velo di malinconia liquida che cala la sera, quando la solitudine si fa più tagliente e le ombre nella stanza sembrano sussurrare il suo nome. Per combatterla, ci siamo aggrappate alla tecnologia, trasformando i nostri telefoni in estensioni dei nostri corpi, in portali attraverso i quali tentiamo disperatamente di toccarci. Messaggi che sono poesie non scritte, foto che sono promesse silenziose, note vocali che sono carezze sonore. E poi le telefonate. Le nostre telefonate notturne sono diventate la mia unica religione, il mio unico Vangelo.
Questa sera, l'attesa è una tortura squisita. Ho preparato la scena come se dovesse arrivare da un momento all'altro. Ho abbassato le luci, lasciando che la stanza fosse illuminata solo dal bagliore tentacolare della città oltre la grande finestra. Ho versato un calice di Amarone, un vino denso e vellutato il cui sapore ricco e complesso mi ricorda lei. Indosso una semplice vestaglia di seta nera, corta, che mi lascia le gambe scoperte. Sotto, niente. La sensazione del tessuto liscio e freddo contro la mia pelle è un promemoria costante della mia nudità, della mia vulnerabilità. Mi sono rannicchiata sul divano, le ginocchia al petto, osservando il telefono posato sul tavolino come se potessi farlo squillare con la sola forza del mio desiderio. E quando finalmente si illumina, il suo nome che compare come un'epifania, il mio cuore ha un sussulto, una contrazione quasi violenta. Rispondo, portando il telefono all'orecchio, e chiudo gli occhi, preparandomi all'impatto.
"Ciao, gioia."
La sua voce. È un'onda sonora che mi attraversa, profonda, leggermente roca, carica di una stanchezza che la rende ancora più sexy. Non è la voce filtrata dei messaggi vocali. È la sua vera voce, che mi entra direttamente nell'orecchio, scende lungo la spina dorsale come un rivolo di liquore caldo, e provoca un brivido che mi fa contrarre i muscoli del ventre.
"Ciao, Yuko," rispondo, e la mia voce è solo un sussurro, quasi senza peso.
Parliamo del più e del meno per qualche minuto, un preludio necessario, una danza di avvicinamento per abituare i nostri sensi a questa intimità crudele e bellissima. Le chiedo della sua giornata, lei della mia. Ma entrambe sappiamo dove stiamo andando. Entrambe sentiamo la tensione che si accumula sotto la superficie della conversazione, un desiderio che preme contro le dighe delle parole educate, pronto a straripare.
"Cosa indossi?" mi chiede all'improvviso, e il suo tono è cambiato. È più basso, più denso, come velluto scuro.
Sorrido nel buio, sentendo il calore che mi colora le guance. "Una vestaglia di seta nera. Molto corta. E tu?"
La sento inspirare, un suono lungo e lento. "Una vecchia t-shirt che non mi copre nemmeno i fianchi. E nient'altro. Ho caldo, stasera."
La mia immaginazione esplode, proiettando un'immagine olografica di lei nella mia mente, così vivida da farmi male. La vedo, stesa sul suo letto, i lunghi capelli neri sparsi come seta d'inchiostro sul cuscino bianco, la maglietta sottile e lisa che le si tende sul seno, le sue gambe favolose, lunghe e toniche, nude e libere. Un'ondata di calore mi pervade, partendo dallo stomaco e diffondendosi come un incendio in ogni mia terminazione nervosa.
"Vorrei essere lì," sussurro, e non è una frase fatta. È una confessione, una preghiera, un lamento.
"Lo so," risponde lei. "Dimmi cosa faresti se fossi qui, Fuuka. Non tralasciare nulla. Dimmi tutto, lentamente."
Il suo invito è un permesso, una chiave che apre la porta della mia fantasia. Il mio respiro si fa più corto. Sposto il peso sul divano, le mie gambe che si aprono leggermente, un movimento involontario dettato da un bisogno che si sta facendo prepotente.
"Prima di tutto," inizio, la voce tremante ma decisa, "rimarrei sulla porta della tua camera a guardarti. Vorrei che sentissi il mio sguardo sulla tua pelle, una pressione quasi fisica, una carezza fatta di pura intenzione, finché non ti sentissi fremere."
Dall'altro capo del filo, sento il suo respiro farsi più pesante. È il mio unico incoraggiamento, ed è tutto ciò di cui ho bisogno.
"Poi mi avvicinerei al letto, con una lentezza esasperante. Mi inginocchierei accanto a te. E inizierei a baciarti. Non le labbra. Non ancora. Inizierei dalle dita dei piedi, uno per uno. Poi risalirei lungo le tue caviglie, i tuoi polpacci... sentirei i tuoi muscoli contrarsi sotto la mia bocca..."
Mentre parlo, la mia mano sinistra si posa sulla mia coscia nuda. La mia pelle è bollente, quasi febbrile. Le mie dita iniziano a risalire lentamente, tracciando lo stesso percorso che la mia bocca sta percorrendo su di lei nella mia fantasia. La seta della vestaglia fruscia, un suono quasi osceno nel silenzio.
"La mia lingua disegnerebbe cerchi umidi e caldi dietro le tue ginocchia," continuo, la voce ormai un mormorio rauco, "e poi salirei ancora, sempre più su, lungo l'interno delle tue cosce, dove la tua pelle è più morbida, più sensibile. Vorrei sentirti tremare, Yuko. Vorrei sentire il tuo respiro spezzarsi."
"Sto già tremando," sussurra lei, e il suono del suo desiderio, così crudo e vulnerabile, è la più potente delle spinte.
La mia mano ha raggiunto la meta. Scivola sotto il bordo della seta e trova il mio sesso. Sono fradicia, una seta liquida e calda che mi bagna le dita all'istante, rendendole scivolose. Un gemito mi sfugge, un suono basso e gutturale che cerco di soffocare. Le mie dita non vanno subito al centro, ma esplorano i dintorni, aprendo delicatamente le mie grandi labbra, sentendo la loro consistenza morbida, turgida e gonfia di sangue. La sensazione del mio stesso tocco, guidato dalla sua voce, è vertiginosa.
"Adesso dimmi tu," la imploro, la voce rotta. "Cosa mi faresti?"
C'è una pausa, carica di una tensione quasi insopportabile.
"Ti toglierei questa vestaglia con una lentezza quasi crudele," inizia lei, la sua voce che è diventata una carezza abrasiva. "Un centimetro alla volta, baciando ogni lembo di pelle che scoprirei. E poi ti farei stendere a pancia in giù. Inizierei dalla schiena. Baci e morsi leggerissimi, dal collo fino all'incavo delle tue ginocchia. Le mie mani ti stringerebbero le natiche, forte, impastando la tua carne, per sentirti mia."
Le sue parole sono proiettili di piacere che mi colpiscono in pieno. Mentre parla, il mio pollice trova finalmente il mio clitoride. È una perla turgida e dura, un piccolo nodo di nervi ipersensibile. Inizio a muoverlo con una pressione leggera, circolare, e il mio bacino si muove involontariamente sul divano, un ritmo lento che segue le sue parole. Le mie altre dita premono contro le mie labbra bagnate, desiderose di più, di essere dentro.
"Aprirei le tue gambe," continua lei, la voce che è quasi un ringhio, "e ti leccherei. Ti leccherei per ore, Fuuka. Inizierei dal tuo ano, sentirei il tuo sapore più segreto, più proibito. Ti sentirei sussultare per la sorpresa e il piacere, ti sentirei contrarre sotto la mia lingua. E solo dopo, solo quando ti sentissi implorare senza parole, la mia lingua si sposterebbe più in alto. Lentamente, tracciando una linea umida e bollente. Trovrebbe il tuo clitoride e non lo lascerebbe più. Mai più."
È troppo. L'immagine che ha dipinto è troppo vivida, troppo reale. Spinta da un bisogno irrefrenabile, faccio scivolare un dito dentro di me. La mia vagina è stretta, calda e pulsante, mi accoglie con una stretta avida. Lo muovo lentamente, sentendo le mie pareti interne contrarsi attorno a me. Poi un secondo dito lo raggiunge, e la sensazione di pienezza è quasi dolorosa, un piacere acuto che mi fa ansimare più forte, un suono che so che lei può sentire. Il mio pollice non smette la sua danza incessante sul mio clitoride, creando una doppia stimolazione che manda in cortocircuito il mio cervello. Sono completamente persa. Il mio corpo è sul divano nel mio appartamento silenzioso, ma la mia anima è con lei, sotto di lei, posseduta dalla sua voce.
"Sto per venire, Yuko," piagnucolo, la voce irriconoscibile, le mie dita che ora si muovono più velocemente, dentro e fuori, il mio pollice che preme con più forza sull'epicentro del mio piacere.
"No," dice lei, la sua voce improvvisamente ferma, autoritaria. "Non ancora. Fermati."
L'ordine mi colpisce come una frustata. Obbedisco istintivamente. Le mie dita si immobilizzano, il mio corpo rimane sospeso sull'orlo del precipizio, tremante, teso. È una tortura squisita.
"Brava, la mia gioia," sussurra lei, con una dolcezza che mi fa quasi piangere. "Respira. Adesso ricomincia. Lentamente. Fammi durare."
Ricomincio, ma questa volta è diverso. Ogni movimento è più consapevole, ogni sensazione è amplificata. La tensione cresce di nuovo, ma più lentamente, più intensamente. Mi porta sull'orlo ancora una volta, e ancora una volta mi ordina di fermarmi. Lo fa tre volte, finché non sto letteralmente piangendo dal desiderio, supplicando il suo permesso.
"Adesso, amore," sussurra infine. "Vieni per me. Fammi sentire."
Quella liberazione è tutto. L'orgasmo mi travolge. È un'onda violenta, accecante, un grido che questa volta non riesco e non voglio trattenere, un suono liberatorio che riempie la stanza. La mia schiena si inarca, staccandosi dal divano. Le mie dita si conficcano in me, immobili, mentre il mio corpo è scosso da spasmi potenti, incontrollabili. La mia vagina si contrae ritmicamente attorno alle mie dita, stringendole in ondate di puro piacere che sembrano non finire mai. Sento il calore espandersi in tutto il corpo, un'alluvione che mi lascia senza forze, completamente svuotata.
Rimango così, con gli occhi chiusi, il telefono ancora premuto contro l'orecchio, il petto che si alza e si abbassa velocemente. Sento il suo respiro, più calmo ora, dall'altra parte. Non c'è bisogno di parole. Ha sentito tutto. Ha visto tutto, pur essendo a chilometri di distanza.
"Sei mia," sussurra infine, e c'è una nota di trionfo e di tenerezza nella sua voce.
"Sempre," rispondo, la voce ancora debole e tremante.
Attacchiamo poco dopo. Il silenzio torna a riempire la stanza, ma non è più vuoto. È pieno di lei, del ricordo di questa esperienza. Ma mentre il mio corpo si raffredda e il piacere svanisce, l'eco della sua assenza torna, più forte e doloroso di prima. Le parole, per quanto potenti, non bastano. Questa fame che ho di lei, questa venerazione, ha bisogno di una forma, di un rituale. Ha bisogno di un linguaggio più tangibile.
E in quella notte, madida di piacere e di solitudine, capisco che devo trovarlo.
L'eco di quell'incontro non è un ricordo, è una condizione esistenziale. A volte, nel silenzio quasi assoluto del mio appartamento al calar della sera, mi sembra ancora di sentire il rombo assordante dei motori, ma è solo un'illusione acustica. Il vero rumore, quello persistente, è dentro di me, un'onda d'urto che non si placa. È il ricordo della sua risata, un suono cristallino che riusciva a sovrastare il frastuono della folla; è il calore quasi bruciante della sua mano quando ha cercato la mia, un gesto così naturale che sembrava scritto nel destino; è la scossa elettrica del nostro primo bacio, un sapore di menta, di lei e di desiderio puro che mi è rimasto impresso sull'anima, un tatuaggio invisibile.
La distanza è diventata una creatura vivente che dorme nel mio letto. È un peso fisico sul petto quando mi sveglio la mattina, trovando il suo lato vuoto e freddo; è una fame sorda che mi accompagna durante il giorno, rendendo insipido il cibo e sbiaditi i colori; è un velo di malinconia liquida che cala la sera, quando la solitudine si fa più tagliente e le ombre nella stanza sembrano sussurrare il suo nome. Per combatterla, ci siamo aggrappate alla tecnologia, trasformando i nostri telefoni in estensioni dei nostri corpi, in portali attraverso i quali tentiamo disperatamente di toccarci. Messaggi che sono poesie non scritte, foto che sono promesse silenziose, note vocali che sono carezze sonore. E poi le telefonate. Le nostre telefonate notturne sono diventate la mia unica religione, il mio unico Vangelo.
Questa sera, l'attesa è una tortura squisita. Ho preparato la scena come se dovesse arrivare da un momento all'altro. Ho abbassato le luci, lasciando che la stanza fosse illuminata solo dal bagliore tentacolare della città oltre la grande finestra. Ho versato un calice di Amarone, un vino denso e vellutato il cui sapore ricco e complesso mi ricorda lei. Indosso una semplice vestaglia di seta nera, corta, che mi lascia le gambe scoperte. Sotto, niente. La sensazione del tessuto liscio e freddo contro la mia pelle è un promemoria costante della mia nudità, della mia vulnerabilità. Mi sono rannicchiata sul divano, le ginocchia al petto, osservando il telefono posato sul tavolino come se potessi farlo squillare con la sola forza del mio desiderio. E quando finalmente si illumina, il suo nome che compare come un'epifania, il mio cuore ha un sussulto, una contrazione quasi violenta. Rispondo, portando il telefono all'orecchio, e chiudo gli occhi, preparandomi all'impatto.
"Ciao, gioia."
La sua voce. È un'onda sonora che mi attraversa, profonda, leggermente roca, carica di una stanchezza che la rende ancora più sexy. Non è la voce filtrata dei messaggi vocali. È la sua vera voce, che mi entra direttamente nell'orecchio, scende lungo la spina dorsale come un rivolo di liquore caldo, e provoca un brivido che mi fa contrarre i muscoli del ventre.
"Ciao, Yuko," rispondo, e la mia voce è solo un sussurro, quasi senza peso.
Parliamo del più e del meno per qualche minuto, un preludio necessario, una danza di avvicinamento per abituare i nostri sensi a questa intimità crudele e bellissima. Le chiedo della sua giornata, lei della mia. Ma entrambe sappiamo dove stiamo andando. Entrambe sentiamo la tensione che si accumula sotto la superficie della conversazione, un desiderio che preme contro le dighe delle parole educate, pronto a straripare.
"Cosa indossi?" mi chiede all'improvviso, e il suo tono è cambiato. È più basso, più denso, come velluto scuro.
Sorrido nel buio, sentendo il calore che mi colora le guance. "Una vestaglia di seta nera. Molto corta. E tu?"
La sento inspirare, un suono lungo e lento. "Una vecchia t-shirt che non mi copre nemmeno i fianchi. E nient'altro. Ho caldo, stasera."
La mia immaginazione esplode, proiettando un'immagine olografica di lei nella mia mente, così vivida da farmi male. La vedo, stesa sul suo letto, i lunghi capelli neri sparsi come seta d'inchiostro sul cuscino bianco, la maglietta sottile e lisa che le si tende sul seno, le sue gambe favolose, lunghe e toniche, nude e libere. Un'ondata di calore mi pervade, partendo dallo stomaco e diffondendosi come un incendio in ogni mia terminazione nervosa.
"Vorrei essere lì," sussurro, e non è una frase fatta. È una confessione, una preghiera, un lamento.
"Lo so," risponde lei. "Dimmi cosa faresti se fossi qui, Fuuka. Non tralasciare nulla. Dimmi tutto, lentamente."
Il suo invito è un permesso, una chiave che apre la porta della mia fantasia. Il mio respiro si fa più corto. Sposto il peso sul divano, le mie gambe che si aprono leggermente, un movimento involontario dettato da un bisogno che si sta facendo prepotente.
"Prima di tutto," inizio, la voce tremante ma decisa, "rimarrei sulla porta della tua camera a guardarti. Vorrei che sentissi il mio sguardo sulla tua pelle, una pressione quasi fisica, una carezza fatta di pura intenzione, finché non ti sentissi fremere."
Dall'altro capo del filo, sento il suo respiro farsi più pesante. È il mio unico incoraggiamento, ed è tutto ciò di cui ho bisogno.
"Poi mi avvicinerei al letto, con una lentezza esasperante. Mi inginocchierei accanto a te. E inizierei a baciarti. Non le labbra. Non ancora. Inizierei dalle dita dei piedi, uno per uno. Poi risalirei lungo le tue caviglie, i tuoi polpacci... sentirei i tuoi muscoli contrarsi sotto la mia bocca..."
Mentre parlo, la mia mano sinistra si posa sulla mia coscia nuda. La mia pelle è bollente, quasi febbrile. Le mie dita iniziano a risalire lentamente, tracciando lo stesso percorso che la mia bocca sta percorrendo su di lei nella mia fantasia. La seta della vestaglia fruscia, un suono quasi osceno nel silenzio.
"La mia lingua disegnerebbe cerchi umidi e caldi dietro le tue ginocchia," continuo, la voce ormai un mormorio rauco, "e poi salirei ancora, sempre più su, lungo l'interno delle tue cosce, dove la tua pelle è più morbida, più sensibile. Vorrei sentirti tremare, Yuko. Vorrei sentire il tuo respiro spezzarsi."
"Sto già tremando," sussurra lei, e il suono del suo desiderio, così crudo e vulnerabile, è la più potente delle spinte.
La mia mano ha raggiunto la meta. Scivola sotto il bordo della seta e trova il mio sesso. Sono fradicia, una seta liquida e calda che mi bagna le dita all'istante, rendendole scivolose. Un gemito mi sfugge, un suono basso e gutturale che cerco di soffocare. Le mie dita non vanno subito al centro, ma esplorano i dintorni, aprendo delicatamente le mie grandi labbra, sentendo la loro consistenza morbida, turgida e gonfia di sangue. La sensazione del mio stesso tocco, guidato dalla sua voce, è vertiginosa.
"Adesso dimmi tu," la imploro, la voce rotta. "Cosa mi faresti?"
C'è una pausa, carica di una tensione quasi insopportabile.
"Ti toglierei questa vestaglia con una lentezza quasi crudele," inizia lei, la sua voce che è diventata una carezza abrasiva. "Un centimetro alla volta, baciando ogni lembo di pelle che scoprirei. E poi ti farei stendere a pancia in giù. Inizierei dalla schiena. Baci e morsi leggerissimi, dal collo fino all'incavo delle tue ginocchia. Le mie mani ti stringerebbero le natiche, forte, impastando la tua carne, per sentirti mia."
Le sue parole sono proiettili di piacere che mi colpiscono in pieno. Mentre parla, il mio pollice trova finalmente il mio clitoride. È una perla turgida e dura, un piccolo nodo di nervi ipersensibile. Inizio a muoverlo con una pressione leggera, circolare, e il mio bacino si muove involontariamente sul divano, un ritmo lento che segue le sue parole. Le mie altre dita premono contro le mie labbra bagnate, desiderose di più, di essere dentro.
"Aprirei le tue gambe," continua lei, la voce che è quasi un ringhio, "e ti leccherei. Ti leccherei per ore, Fuuka. Inizierei dal tuo ano, sentirei il tuo sapore più segreto, più proibito. Ti sentirei sussultare per la sorpresa e il piacere, ti sentirei contrarre sotto la mia lingua. E solo dopo, solo quando ti sentissi implorare senza parole, la mia lingua si sposterebbe più in alto. Lentamente, tracciando una linea umida e bollente. Trovrebbe il tuo clitoride e non lo lascerebbe più. Mai più."
È troppo. L'immagine che ha dipinto è troppo vivida, troppo reale. Spinta da un bisogno irrefrenabile, faccio scivolare un dito dentro di me. La mia vagina è stretta, calda e pulsante, mi accoglie con una stretta avida. Lo muovo lentamente, sentendo le mie pareti interne contrarsi attorno a me. Poi un secondo dito lo raggiunge, e la sensazione di pienezza è quasi dolorosa, un piacere acuto che mi fa ansimare più forte, un suono che so che lei può sentire. Il mio pollice non smette la sua danza incessante sul mio clitoride, creando una doppia stimolazione che manda in cortocircuito il mio cervello. Sono completamente persa. Il mio corpo è sul divano nel mio appartamento silenzioso, ma la mia anima è con lei, sotto di lei, posseduta dalla sua voce.
"Sto per venire, Yuko," piagnucolo, la voce irriconoscibile, le mie dita che ora si muovono più velocemente, dentro e fuori, il mio pollice che preme con più forza sull'epicentro del mio piacere.
"No," dice lei, la sua voce improvvisamente ferma, autoritaria. "Non ancora. Fermati."
L'ordine mi colpisce come una frustata. Obbedisco istintivamente. Le mie dita si immobilizzano, il mio corpo rimane sospeso sull'orlo del precipizio, tremante, teso. È una tortura squisita.
"Brava, la mia gioia," sussurra lei, con una dolcezza che mi fa quasi piangere. "Respira. Adesso ricomincia. Lentamente. Fammi durare."
Ricomincio, ma questa volta è diverso. Ogni movimento è più consapevole, ogni sensazione è amplificata. La tensione cresce di nuovo, ma più lentamente, più intensamente. Mi porta sull'orlo ancora una volta, e ancora una volta mi ordina di fermarmi. Lo fa tre volte, finché non sto letteralmente piangendo dal desiderio, supplicando il suo permesso.
"Adesso, amore," sussurra infine. "Vieni per me. Fammi sentire."
Quella liberazione è tutto. L'orgasmo mi travolge. È un'onda violenta, accecante, un grido che questa volta non riesco e non voglio trattenere, un suono liberatorio che riempie la stanza. La mia schiena si inarca, staccandosi dal divano. Le mie dita si conficcano in me, immobili, mentre il mio corpo è scosso da spasmi potenti, incontrollabili. La mia vagina si contrae ritmicamente attorno alle mie dita, stringendole in ondate di puro piacere che sembrano non finire mai. Sento il calore espandersi in tutto il corpo, un'alluvione che mi lascia senza forze, completamente svuotata.
Rimango così, con gli occhi chiusi, il telefono ancora premuto contro l'orecchio, il petto che si alza e si abbassa velocemente. Sento il suo respiro, più calmo ora, dall'altra parte. Non c'è bisogno di parole. Ha sentito tutto. Ha visto tutto, pur essendo a chilometri di distanza.
"Sei mia," sussurra infine, e c'è una nota di trionfo e di tenerezza nella sua voce.
"Sempre," rispondo, la voce ancora debole e tremante.
Attacchiamo poco dopo. Il silenzio torna a riempire la stanza, ma non è più vuoto. È pieno di lei, del ricordo di questa esperienza. Ma mentre il mio corpo si raffredda e il piacere svanisce, l'eco della sua assenza torna, più forte e doloroso di prima. Le parole, per quanto potenti, non bastano. Questa fame che ho di lei, questa venerazione, ha bisogno di una forma, di un rituale. Ha bisogno di un linguaggio più tangibile.
E in quella notte, madida di piacere e di solitudine, capisco che devo trovarlo.
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