Filo Rosso Anima 4
di
Fuuka
genere
bondage
La luce del mattino che filtra dalle persiane disegna strisce dorate sul parquet della mia camera da letto. È una luce gentile, quasi timida, che sembra voler rispettare la quiete sacra che si è creata tra di noi. Mi sveglio lentamente, il mio primo pensiero cosciente è il peso caldo e rassicurante del braccio di Yuko attorno alla mia vita. Il suo respiro, lento e regolare, mi solletica la nuca. L'aria è ancora densa del nostro profumo, un odore ambrato e dolce di sesso, sonno e pelle. Rimango immobile per lunghi istanti, assaporando questa pace perfetta, questo senso di completezza che solo la sua presenza riesce a darmi. La tempesta di passione di ieri notte ha lasciato al suo posto una calma profonda, un lago immobile sulla cui superficie si riflette la promessa che ci siamo fatte.
Preparo il caffè in un silenzio reverenziale, muovendomi a piedi nudi per la mia cucina. Facciamo colazione sul piccolo balcone, avvolte in coperte, il vapore caldo delle nostre tazze che si mescola all'aria frizzante del mattino. Il nostro dialogo è fatto di frasi spezzate, di sguardi che valgono più di mille parole, di sorrisi pigri. Ma sotto questa superficie di tenera normalità, una corrente elettrica di anticipazione vibra costantemente. Entrambe sappiamo che oggi non è un giorno come gli altri. È il giorno in cui la fantasia inizia a diventare realtà.
È quasi mezzogiorno quando, con il cuore che mi batte un ritmo accelerato nel petto, trovo il coraggio di chiederlo. Siamo tornate in salotto, sedute sui cuscini a terra.
"Sei ancora sicura... di quello che hai detto ieri sera?" la mia voce è un sussurro, ho quasi paura di rompere l'incantesimo.
Yuko posa la sua tazza. Si volta verso di me e mi prende il viso tra le mani, i suoi pollici che mi accarezzano gli zigomi. Il suo sguardo è limpido, profondo e privo di qualsiasi esitazione.
"Non sono mai stata più sicura di niente in tutta la mia vita, Fuuka."
Le sue parole sono il permesso di cui avevo bisogno. La prendo per mano e la guido nel mio studio, il santuario dove ho passato le ultime settimane a studiare. L'atmosfera qui è diversa: più seria, quasi accademica. L'odore di carta e inchiostro si mescola a quello delle candele che ho spento ieri sera. La invito a sedersi con me sul grande tappeto persiano al centro della stanza.
Mi inginocchio di fronte a lei e le porgo i miei libri. Non sono manuali dozzinali, ma volumi d'arte, testi di filosofia e anatomia. Voglio che capisca che per me questo non è un gioco perverso, ma una forma d'arte, una disciplina.
"Prima di fare qualsiasi cosa," inizio, la mia voce che trema un po' meno, "voglio che tu capisca. Voglio che ti senta completamente al sicuro."
Per l'ora successiva, parliamo. Le mostro le illustrazioni anatomiche, indicandole i punti in cui le corde non devono mai passare, i nervi da proteggere, l'importanza di non bloccare mai la circolazione. Le spiego l'assoluta necessità delle forbici di sicurezza, sempre a portata di mano, un simbolo del fatto che la sua libertà è a un solo taglio di distanza, in ogni istante. Lei mi ascolta con una concentrazione totale, i suoi occhi scuri che non mi lasciano mai, assorbendo ogni parola.
"Dobbiamo scegliere una parola di sicurezza," le dico. "Una parola che non abbia nulla a che fare con quello che stiamo facendo. Una parola che, se pronunciata, fermerà tutto all'istante, senza domande."
Ci pensiamo per un po'.
"Monza," dice lei, con un piccolo sorriso. "Perché è lì che tutto è iniziato. Sarà anche il nostro modo per fermare tutto, se necessario."
Annuisco, commossa dalla sua scelta. "Monza," ripeto, e la parola assume un nuovo peso, una nuova sacralità. Discutiamo anche del sistema del semaforo: verde per "continua", giallo per "rallenta, non sono sicura", rosso per "stop immediato".
Poi arriva la parte più difficile. "Ora devo chiederti dei tuoi limiti, Yuko. Delle tue paure."
Il suo sguardo si fa più lontano per un istante. La vedo scavare dentro di sé, in un luogo dove non le ho mai chiesto di andare.
"Il collo," dice infine, la sua voce più bassa. "Non voglio niente attorno al collo. E... ho paura di non riuscire a respirare bene, a volte. Di sentirmi soffocare."
"Non succederà," la rassicuro, prendendole la mano. "Il tuo respiro sarà la mia guida. Se cambia, me ne accorgerò. E ci fermeremo."
Mi confessa altre piccole cose: una sensibilità particolare in alcuni punti, un fastidio se le braccia sono tirate troppo indietro. Io ascolto e memorizzo ogni parola, ogni esitazione. Sto imparando la mappa del suo corpo e della sua anima, e mi sento investita di una responsabilità immensa e meravigliosa.
Quando sento di aver coperto ogni aspetto della teoria, il silenzio cala di nuovo tra noi, ma questa volta è un silenzio diverso. È pieno di comprensione, di rispetto.
"Vorrei mostrarti una cosa," dico, la voce di nuovo un sussurro. "Non con le corde. Solo con le mie mani. Per farti sentire... l'intenzione."
Lei mi guarda, e nei suoi occhi leggo un'infinita fiducia. "Sì," dice.
La guido a stendersi sulla schiena, sul tappeto. Rimane vestita, con i suoi comodi pantaloni da yoga e una maglietta morbida. Io mi inginocchio accanto a lei. Il mio cuore batte forte, ma le mie mani, quando si posano sulla sua caviglia, sono ferme.
"Chiudi gli occhi," le dico. Lei obbedisce.
"Il primo passaggio sarebbe qui," sussurro, e le mie dita iniziano a tracciare una linea lenta e precisa dalla sua caviglia, salendo lungo la linea tesa del suo polpaccio, sopra la stoffa dei pantaloni. "Non sentiresti una stretta, ma una definizione. La corda seguirebbe la forma del tuo muscolo, lo onorerebbe."
Sento un leggero brivido percorrere la sua gamba.
"Poi salirei qui, dietro il tuo ginocchio," continuo, la mia mano che si ferma nel punto sensibile. "Qui la pressione sarebbe quasi inesistente. Solo un passaggio, un promemoria."
La mia mano continua il suo viaggio, risalendo lungo la sua coscia. Il mio tocco è leggero, ma carico di tutta la mia concentrazione. Sto disegnando sulla sua pelle, sto comunicando senza parole. Sento il suo respiro farsi più profondo, più consapevole. Non è un respiro di paura, ma di eccitazione contenuta.
"Poi arriverei ai tuoi fianchi," mormoro, e le mie mani si posano sulle sue ossa iliache. "Qui creerei un punto fermo, un'ancora. Un legame che ti farebbe sentire tenuta, radicata a terra. Sicura."
Le mie mani scivolano sul suo stomaco, e la sento contrarre i muscoli involontariamente. Il mio palmo si appoggia per un istante sul suo ventre, sentendo il calore che emana.
"E poi... salirei ancora," la mia voce è quasi spezzata dall'emozione. Le mie mani si spostano sul suo busto, delicate, quasi timorose. Traccio una linea che passa tra i suoi seni, sale verso la clavicola, gira attorno alle sue spalle. Sto disegnando nell'aria il percorso di un'imbracatura, e sento i suoi capezzoli indurirsi sotto la maglietta, una risposta involontaria a questo tocco quasi clinico eppure incredibilmente erotico.
Infine, porto entrambe le mani sul suo petto, proprio sopra lo sterno. Le mie dita si intrecciano leggermente, senza applicare pressione.
"E qui," sussurro, la mia bocca vicinissima al suo orecchio, "qui ci sarebbe il nodo che tiene tutto insieme. Il nodo del cuore. Non serve a stringere, serve a focalizzare tutta l'energia, tutto il piacere, tutto l'amore... in un unico punto."
In quel momento, Yuko apre gli occhi. Le sue pupille sono dilatate, scure e profonde come un cielo notturno. Lentamente, solleva una mano e la posa sulla mia, che è ancora sul suo petto. Non dice una parola. Si limita a stringere le mie dita con le sue. È un contatto, una conferma. Un sigillo.
Non c'è orgasmo, non c'è sesso. Eppure, in questo istante, sdraiate sul pavimento del mio studio, circondate da libri e dalla luce del giorno, sento di aver raggiunto un livello di intimità con lei che la notte precedente, pur con tutta la sua passione sfrenata, aveva solo potuto sfiorare.
La teoria è finita. La fiducia è stata cementata. Il prossimo passo, il primo, vero contatto con la corda, ora non è più solo una fantasia. È un destino inevitabile e terrificante che entrambe, adesso, desideriamo più di ogni altra cosa.
Preparo il caffè in un silenzio reverenziale, muovendomi a piedi nudi per la mia cucina. Facciamo colazione sul piccolo balcone, avvolte in coperte, il vapore caldo delle nostre tazze che si mescola all'aria frizzante del mattino. Il nostro dialogo è fatto di frasi spezzate, di sguardi che valgono più di mille parole, di sorrisi pigri. Ma sotto questa superficie di tenera normalità, una corrente elettrica di anticipazione vibra costantemente. Entrambe sappiamo che oggi non è un giorno come gli altri. È il giorno in cui la fantasia inizia a diventare realtà.
È quasi mezzogiorno quando, con il cuore che mi batte un ritmo accelerato nel petto, trovo il coraggio di chiederlo. Siamo tornate in salotto, sedute sui cuscini a terra.
"Sei ancora sicura... di quello che hai detto ieri sera?" la mia voce è un sussurro, ho quasi paura di rompere l'incantesimo.
Yuko posa la sua tazza. Si volta verso di me e mi prende il viso tra le mani, i suoi pollici che mi accarezzano gli zigomi. Il suo sguardo è limpido, profondo e privo di qualsiasi esitazione.
"Non sono mai stata più sicura di niente in tutta la mia vita, Fuuka."
Le sue parole sono il permesso di cui avevo bisogno. La prendo per mano e la guido nel mio studio, il santuario dove ho passato le ultime settimane a studiare. L'atmosfera qui è diversa: più seria, quasi accademica. L'odore di carta e inchiostro si mescola a quello delle candele che ho spento ieri sera. La invito a sedersi con me sul grande tappeto persiano al centro della stanza.
Mi inginocchio di fronte a lei e le porgo i miei libri. Non sono manuali dozzinali, ma volumi d'arte, testi di filosofia e anatomia. Voglio che capisca che per me questo non è un gioco perverso, ma una forma d'arte, una disciplina.
"Prima di fare qualsiasi cosa," inizio, la mia voce che trema un po' meno, "voglio che tu capisca. Voglio che ti senta completamente al sicuro."
Per l'ora successiva, parliamo. Le mostro le illustrazioni anatomiche, indicandole i punti in cui le corde non devono mai passare, i nervi da proteggere, l'importanza di non bloccare mai la circolazione. Le spiego l'assoluta necessità delle forbici di sicurezza, sempre a portata di mano, un simbolo del fatto che la sua libertà è a un solo taglio di distanza, in ogni istante. Lei mi ascolta con una concentrazione totale, i suoi occhi scuri che non mi lasciano mai, assorbendo ogni parola.
"Dobbiamo scegliere una parola di sicurezza," le dico. "Una parola che non abbia nulla a che fare con quello che stiamo facendo. Una parola che, se pronunciata, fermerà tutto all'istante, senza domande."
Ci pensiamo per un po'.
"Monza," dice lei, con un piccolo sorriso. "Perché è lì che tutto è iniziato. Sarà anche il nostro modo per fermare tutto, se necessario."
Annuisco, commossa dalla sua scelta. "Monza," ripeto, e la parola assume un nuovo peso, una nuova sacralità. Discutiamo anche del sistema del semaforo: verde per "continua", giallo per "rallenta, non sono sicura", rosso per "stop immediato".
Poi arriva la parte più difficile. "Ora devo chiederti dei tuoi limiti, Yuko. Delle tue paure."
Il suo sguardo si fa più lontano per un istante. La vedo scavare dentro di sé, in un luogo dove non le ho mai chiesto di andare.
"Il collo," dice infine, la sua voce più bassa. "Non voglio niente attorno al collo. E... ho paura di non riuscire a respirare bene, a volte. Di sentirmi soffocare."
"Non succederà," la rassicuro, prendendole la mano. "Il tuo respiro sarà la mia guida. Se cambia, me ne accorgerò. E ci fermeremo."
Mi confessa altre piccole cose: una sensibilità particolare in alcuni punti, un fastidio se le braccia sono tirate troppo indietro. Io ascolto e memorizzo ogni parola, ogni esitazione. Sto imparando la mappa del suo corpo e della sua anima, e mi sento investita di una responsabilità immensa e meravigliosa.
Quando sento di aver coperto ogni aspetto della teoria, il silenzio cala di nuovo tra noi, ma questa volta è un silenzio diverso. È pieno di comprensione, di rispetto.
"Vorrei mostrarti una cosa," dico, la voce di nuovo un sussurro. "Non con le corde. Solo con le mie mani. Per farti sentire... l'intenzione."
Lei mi guarda, e nei suoi occhi leggo un'infinita fiducia. "Sì," dice.
La guido a stendersi sulla schiena, sul tappeto. Rimane vestita, con i suoi comodi pantaloni da yoga e una maglietta morbida. Io mi inginocchio accanto a lei. Il mio cuore batte forte, ma le mie mani, quando si posano sulla sua caviglia, sono ferme.
"Chiudi gli occhi," le dico. Lei obbedisce.
"Il primo passaggio sarebbe qui," sussurro, e le mie dita iniziano a tracciare una linea lenta e precisa dalla sua caviglia, salendo lungo la linea tesa del suo polpaccio, sopra la stoffa dei pantaloni. "Non sentiresti una stretta, ma una definizione. La corda seguirebbe la forma del tuo muscolo, lo onorerebbe."
Sento un leggero brivido percorrere la sua gamba.
"Poi salirei qui, dietro il tuo ginocchio," continuo, la mia mano che si ferma nel punto sensibile. "Qui la pressione sarebbe quasi inesistente. Solo un passaggio, un promemoria."
La mia mano continua il suo viaggio, risalendo lungo la sua coscia. Il mio tocco è leggero, ma carico di tutta la mia concentrazione. Sto disegnando sulla sua pelle, sto comunicando senza parole. Sento il suo respiro farsi più profondo, più consapevole. Non è un respiro di paura, ma di eccitazione contenuta.
"Poi arriverei ai tuoi fianchi," mormoro, e le mie mani si posano sulle sue ossa iliache. "Qui creerei un punto fermo, un'ancora. Un legame che ti farebbe sentire tenuta, radicata a terra. Sicura."
Le mie mani scivolano sul suo stomaco, e la sento contrarre i muscoli involontariamente. Il mio palmo si appoggia per un istante sul suo ventre, sentendo il calore che emana.
"E poi... salirei ancora," la mia voce è quasi spezzata dall'emozione. Le mie mani si spostano sul suo busto, delicate, quasi timorose. Traccio una linea che passa tra i suoi seni, sale verso la clavicola, gira attorno alle sue spalle. Sto disegnando nell'aria il percorso di un'imbracatura, e sento i suoi capezzoli indurirsi sotto la maglietta, una risposta involontaria a questo tocco quasi clinico eppure incredibilmente erotico.
Infine, porto entrambe le mani sul suo petto, proprio sopra lo sterno. Le mie dita si intrecciano leggermente, senza applicare pressione.
"E qui," sussurro, la mia bocca vicinissima al suo orecchio, "qui ci sarebbe il nodo che tiene tutto insieme. Il nodo del cuore. Non serve a stringere, serve a focalizzare tutta l'energia, tutto il piacere, tutto l'amore... in un unico punto."
In quel momento, Yuko apre gli occhi. Le sue pupille sono dilatate, scure e profonde come un cielo notturno. Lentamente, solleva una mano e la posa sulla mia, che è ancora sul suo petto. Non dice una parola. Si limita a stringere le mie dita con le sue. È un contatto, una conferma. Un sigillo.
Non c'è orgasmo, non c'è sesso. Eppure, in questo istante, sdraiate sul pavimento del mio studio, circondate da libri e dalla luce del giorno, sento di aver raggiunto un livello di intimità con lei che la notte precedente, pur con tutta la sua passione sfrenata, aveva solo potuto sfiorare.
La teoria è finita. La fiducia è stata cementata. Il prossimo passo, il primo, vero contatto con la corda, ora non è più solo una fantasia. È un destino inevitabile e terrificante che entrambe, adesso, desideriamo più di ogni altra cosa.
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