Il diario di una ninfomane esibizionista: 4 ottobre 2025

di
genere
esibizionismo

4 Ottobre 2025

​Diario,

​stanotte non ho sognato. Non ne ho avuto bisogno. La realtà è stata molto più potente di qualsiasi fantasia. Mi sono svegliata sentendomi una fottuta regina, una divinità predatrice. L’odore della notte scorsa era ancora sulla mia pelle, un profumo sacro di sudore, birra stantia, e del sapore selvatico e metallico di un’altra donna. Ho trovato un livido violaceo sul fianco, dove le sue dita mi avevano stretto. Non è un livido. È un trofeo. Un marchio che testimonia la mia vittoria.

​Ho passato i primi minuti della giornata nuda, davanti allo specchio, ripercorrendo la battaglia. Ho leccato il livido, sentendo il dolore sordo e delizioso. Ho annusato le mie dita, che avevano ancora un vago sentore di lei. La fame di ieri era stata placata, sì, ma era stata una battaglia, non un pasto. Uno scontro tra due animali. E dopo aver divorato un altro predatore, il silenzio che segue non è vuoto. È pieno di orgoglio. Pieno di un potere che mi fa sentire invincibile.

​Oggi il demone non era annoiato. Era arrogante. Sazio di violenza, ora bramava qualcosa di più sottile. Voleva un gioco più crudele, più psicologico. Voleva corrompere, non solo scopare. Voleva profanare un tempio, non solo pisciare in un vicolo. Voleva umiliare l’intelligenza, la cultura, la bellezza raffinata.

​Così, ho deciso di andare in un museo di arte contemporanea.

​L’idea mi ha fatta sorridere mentre mi preparavo. Il rituale è stato lento, una forma di adorazione di me stessa. Mi sono immersa in una vasca di acqua bollente, immaginando di lavare via la sporcizia di ieri solo per fare spazio a quella, più elegante, di oggi. Ho scelto i vestiti con la cura di un boia che affila la sua ascia. Una gonna nera, severa, di una stoffa pesante che cadeva dritta fin sotto il ginocchio, abbinata a una camicetta bianca, accollata e quasi trasparente. Un look da studentessa modello, da segretaria per bene. Castissima. Ma sotto, niente. Assolutamente niente. Il pensiero della mia figa nuda, che sfiorava la fodera della gonna a ogni passo in quelle sale silenziose e sacre, era il mio piccolo, delizioso sacrilegio. Era come portare una bomba in una chiesa.

​Il museo era esattamente come me lo aspettavo: un mausoleo. Muri bianchi, silenzi intellettuali, l’eco ovattato dei passi sul parquet lucido. Era pieno di gente che si muoveva con una lentezza esasperante, sussurrando cazzate pseudo-filosofiche di fronte a tele incomprensibili. Non guardavo le opere. Guardavo le persone che guardavano le opere. Specialmente le donne. In una sala, due signore elegantissime, sulla cinquantina, discutevano davanti a una scultura astratta di metalli contorti. Le ho immaginate impalate su quella stessa scultura, i loro tailleur Chanel strappati, le gambe tremanti, mentre le scopavo a turno, riempiendo il loro silenzio borghese con le loro stesse grida.

​Mi sono fermata davanti a una serie di fotografie. Ritratti di donne nude, i loro corpi illuminati da una luce fredda, clinica. Ho sentito un’ondata di disprezzo. Quella era la loro idea di erotismo? Corpi senza vita, senza sudore, senza odore. Arte finta, pulita. La mia arte era diversa. La mia arte era viva, sporca e respirava.

​E poi, in una sala dedicata alla video-arte, l’ho vista. La mia tela bianca.

​Era seduta su una panca di legno scuro, di fronte a uno schermo enorme su cui venivano proiettate immagini lente e disturbanti: dettagli di architettura brutalista, cemento crepato, ferro arrugginito. Aveva un quaderno da disegno sulle ginocchia e una matita in mano, ma non stava disegnando. Stava guardando lo schermo con un’intensità quasi dolorosa, la fronte aggrottata. Poteva avere la mia età. Capelli raccolti in una crocchia disordinata da cui sfuggivano alcune ciocche, occhiali dalla montatura sottile, un’aria intellettuale e malinconica. Era bella, di una bellezza fine, quasi eterea. Sembrava fatta di vetro, di teoria, di pensieri complicati. E io ho sentito un desiderio improvviso e violento di mandarla in frantumi.

​L’ho osservata da lontano per qualche minuto, nascosta nell’ombra di un’altra sala. Studiavo i suoi movimenti, il modo in cui si mordicchiava un’unghia, il modo in cui il suo petto si alzava e si abbassava ad un ritmo calmo. Stava pensando. E io volevo fotterle i pensieri. Volevo riempirle la testa con la mia sporcizia.

​Mi sono avvicinata. La sala era buia, illuminata solo dalla luce fredda e intermittente del video. C’eravamo solo noi due. Un universo privato. Mi sono seduta sulla stessa panca, all’estremità opposta. Lei non si è girata. Era completamente assorta.

​Ho aspettato. Ho lasciato che il silenzio si tendesse tra di noi come una corda di pianoforte. Potevo sentire il suo odore, un profumo leggero di carta e di un sapone costoso. Poi, fingendo di accavallare le gambe, ho lasciato che il dorso della mia mano sfiorasse la sua coscia, coperta da un paio di jeans chiari. È stato un contatto di una frazione di secondo, ma nella quiete di quella stanza, è stato come un urlo. Ha sussultato, un piccolo spasmo quasi impercettibile, e si è girata a guardarmi. Le ho rivolto un sorriso vuoto, da “oh, scusa”. Lei ha distolto lo sguardo, ma ho visto un leggero rossore colorarle le guance. Aveva abboccato.

​Il gioco era iniziato.

​Con una lentezza straziante, ho fatto scivolare la mano sotto il tessuto pesante della gonna. Lei non poteva vedere, ma lo sapeva. Poteva sentirlo. L’energia nella stanza era cambiata. L’aria era diventata densa, pesante, quasi irrespirabile. Ho trovato la mia figa, già umida. Ho iniziato a toccarmi, un solo dito che accarezzava il mio clitoride. Il movimento era minimo, quasi invisibile, nascosto tra le pieghe della gonna. Il piacere era acuto, ma era secondario. Il vero piacere era lei. Era la sua schiena rigida, il modo in cui ora stringeva la matita così forte da avere le nocche bianche. Sapeva cosa stavo facendo. Cazzo, se lo sapeva. E non si muoveva.

​Ho iniziato a respirare un po’ più forte, un suono appena percettibile sopra la colonna sonora disturbante e industriale del video. L’ho vista irrigidirsi ancora di più. Stava fingendo di guardare lo schermo, ma i suoi occhi erano fissi, non vedevano nulla. Era intrappolata. Intrappolata con me, con il rumore del mio respiro, con la consapevolezza della mia mano tra le mie gambe. “Senti questo?”, pensavo. “Questo silenzio è pieno di me. Ogni secondo che resti qui, ti sto divorando la mente”.

​Mi sentivo una divinità. Ero lì, a scoparmi da sola in un museo, a pochi centimetri da una sconosciuta, e lei non poteva fare nulla se non subire. Ho spinto un dito dentro di me, poi un altro, e ho soffocato un gemito contro il dorso della mia mano libera. Il suono è uscito come un piccolo singulto, un singhiozzo quasi di dolore. L’ho vista sobbalzare. Si è girata di scatto a guardarmi, gli occhi sgranati, un misto di panico e… qualcos’altro. Qualcosa di oscuro. Curiosità. L’ho guardata dritta negli occhi, senza smettere di muovere le dita dentro di me, lentamente, spietatamente.

​Lo schermo di fronte a noi è diventato bianco per un istante, un flash accecante che ha inondato la stanza di luce. In quel lampo, ha visto tutto: la mia espressione di estasi contorta, le mie labbra socchiuse, il leggero movimento del tessuto della mia gonna dove la mia mano si muoveva freneticamente.

​È stato quello. Quel lampo di certezza assoluta nei suoi occhi. Sono venuta. Un orgasmo silenziosissimo, interno, una contrazione violenta e profonda. Ho chiuso gli occhi per un secondo, sentendo l’onda di calore espandersi dal mio sesso a tutto il corpo, un veleno dolce e rovente.

​Quando li ho riaperti, lei mi stava ancora fissando. Ansimava leggermente, come se avesse corso una maratona. Era sconvolta, terrorizzata, e fottutamente, meravigliosamente, eccitata. Lo vedevo. Lo vedevo nella scintilla scura che si era accesa dietro i suoi occhiali.

​Mi sono alzata, con calma. Mi sono sistemata la gonna. Le sono passata davanti per uscire dalla sala. Mi sono fermata per un secondo alla sua altezza, così vicina da sentire il calore che emanava dalla sua pelle. Mi sono chinata verso il suo orecchio, il mio respiro contro la sua guancia.

“L’arte dovrebbe farti sentire qualcosa, non credi?”, le ho sussurrato.

​Sono uscita senza voltarmi indietro, lasciandola lì, da sola, nel buio, a tremare sulla sua panca. Mentre attraversavo le ultime sale per uscire, mi sentivo invincibile. Ogni persona che incrociavo era ignara del dramma silenzioso che si era appena consumato. Portavo il mio segreto sporco fuori da quel tempio di purezza, e mi sentivo superiore.

​Non ho sentito il bisogno di toccare nessun altro per il resto della giornata. Il demone era sazio. Non si era nutrito di un corpo, ma di un’anima. Ho profanato il suo tempio di silenzio e intelletto con la mia sporcizia, e ho piantato un seme nero nella sua mente. E quella, diario, è una forma di piacere così pura e così perversa che quasi mi spaventa. Quasi.


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scritto il
2025-10-07
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