Gioco fra le dune
di
rotas2sator
genere
corna
Preferisco da sempre le ferie a settembre, vuoi per l’illusione di prolungare l’estate, vuoi per evitare l’affollamento dei periodi di punta. La vampa estiva si attenua, la luce diventa limpida e radente, le ombre si allungano. A quel clima mite si aggiunge una nota malinconica che da sempre mi corrisponde.
Avevamo scelto quella località selvaggia, lontana dalle rotte del turismo alla moda, proprio per sentirci liberi, rilassati. Il litorale era frastagliato e offriva calette incantevoli, alcune accessibili esclusivamente via mare. Non disponendo di un’imbarcazione, stipulammo un accordo con Enzo, un uomo del posto che si offrì di trasportarci ogni mattina verso le spiaggette più isolate, tornando a riprenderci nel tardo pomeriggio.
Viola, mia moglie, da silfide flessuosa si era trasformata col tempo in una morbida bellezza, capace di attirare sguardi maschili — e talvolta anche femminili — senza lasciare nessuno indifferente. In quei giorni di libertà assoluta lei sembrava fondersi con quella natura primitiva, godendosi appena possibile il sole e il mare completamente nuda, l’inguine lasciato allo stato brado e le ascelle non depilate. Appena raggiungevamo la nostra meta, si liberava degli indumenti, e io godevo del suo corpo procace che si muoveva tra gli scogli o si stendeva al sole. Pensavo che nessuno potesse vederci, ma presto notai che la barca di Enzo, una volta allontanatasi, sostava per qualche tempo al largo. Un riflesso — come di raggi che colpissero le lenti di un binocolo — attirò la mia attenzione. Compresi: quell’uomo, quarantenne asciutto e bruciato dal sole, si godeva lo spettacolo del nudo integrale di mia moglie. E presto ebbi la sensazione — poi la conferma — che lei si esibisse per lui, in pose smaccatamente erotiche. Una maliziosa complicità si era instaurata tra i due, ed io ne ero consapevole. Quando la aiutava a uscire dall’acqua, per esempio, la sollevava da sotto, accarezzandole con lentezza la pelle umida sotto l’ascella, o le sfiorava i piedi con gesti apparentemente casuali. Lei non si tirava mai indietro. Anzi, lo guardava languidamente. Scendevamo ogni giorno in paese nel tardo pomeriggio, quando il sole perdeva mordente e le strade si animavano, le vecchie, levigate pietre delle viuzze risplendevano, dorate dalla luce del tramonto. Era evidente che Viola gradiva quei piccoli pellegrinaggi tra i vicoli. Le sue camminate erano lente, oscillanti, con quell’andatura morbida da femmina sicura di sé. Si legava i capelli con un foulard e indossava abiti larghi, leggeri, che il vento si divertiva a sollevare appena. Viola non era mai sfacciata, eppure… c’era in lei una disponibilità nuova, una leggerezza nei sorrisi, una lentezza maliziosa negli sguardi ricambiati. Sembrava ondeggiare su una corda tesa tra innocenza e provocazione, e più lei oscillava, più io mi sentivo parte del gioco, spettatore coinvolto, quasi complice. Una sera, mentre rincasavamo, Enzo ci raggiunse in scooter. Rallentò, ci fece un cenno con la mano, si tolse gli occhiali da sole. — Sabato sera faremo una festa in spiaggia. Portate qualcosa da bere o da mettere sulla griglia. Ci saranno i ragazzi del posto, qualche turista… falò, musica. Ci state? Viola non esitò neanche un secondo. — Certo, con piacere — rispose sorridendo. Io, in silenzio, mi limitai ad annuire.
Quella notte faticai a dormire. Lei si muoveva nuda sotto il lenzuolo, il corpo ancora profumato di sale, e io la osservavo nel buio, con un’inconsueta inquietudine addosso, presago di ciò che stava per accadere. La luce del tramonto filtrava dalla finestra della camera, liquida e dorata, accarezzando le pareti spoglie e il letto disfatto. Viola era in piedi davanti allo specchio scheggiato, la pelle ancora arrossata dal sole del pomeriggio, i capelli umidi raccolti in un nodo disordinato. Frugava nella borsa di tela dove tenevamo i vestiti leggeri, tirandoli fuori uno a uno e scartandoli con smorfie impazienti.
— Niente mi piace stasera… — mormorò, più a sé stessa che a me. Poi prese un vestito che non ricordavo neanche avesse portato: nero, leggerissimo, con uno spacco profondo e due sottili bretelle più decorative che funzionali. Lo sollevò davanti a sé, valutandolo alla luce. Sotto non avrebbe potuto indossare nulla. E lo sapeva.
Lo infilò senza imbarazzo. Senza reggiseno, ovviamente. Le punte dei seni si disegnarono appena sotto il tessuto. Lo spacco rivelava interamente una coscia, fino all’attaccatura. — Che ne pensi? — mi chiese, voltandosi verso di me. Aveva un tono innocente, ma negli occhi brillava qualcosa di più sporco. Una sfida.
La fissai per un lungo momento, con la gola secca. — Scusa, ma… sembri una puttana. Sorrise. Non si offese. Non si schermì. Si avvicinò lentamente, il passo ondeggiante, e si fermò davanti a me, così vicina da farmi sentire l’odore del suo corpo — sudore, mare, e qualcosa di più animale. — Chi ti dice che non lo sia? — sussurrò.
Rimasi muto. Non era una battuta. Non quella sera.
Poi si voltò, senza più badarmi, e cominciò a sistemarsi i capelli allo specchio, raccogliendoli in una treccia morbida, lasciando qualche ciocca libera a incorniciarle il viso. Un filo di matita agli occhi, un tocco di rosso sulle labbra. La guardavo prepararsi non per me, ma per essere guardata. La spiaggia di notte era un altro mondo. Il sentiero tra le dune si snodava incerto alla luce delle torce e dei telefoni, la sabbia tiepida sotto i piedi nudi, il mare nero che sussurrava poco distante. Più ci avvicinavamo al punto del ritrovo, più sentivo l’eco dei falò, le risate spezzate, la musica bassa, sensuale, intermittente. Viola camminava davanti a me con passo sicuro, il vestito che le aderiva come una seconda pelle viva, liquida, che pareva respirare con lei. Lo spacco si apriva a ogni falcata, mostrando il bianco interno della coscia; sapevo che era davvero nuda sotto. Fu evidente non solo a me quando si chinò per sistemarsi il sandalo e il vestito, per un attimo, si sollevò oltre il limite. Nessuna biancheria. Nulla a schermarla, a difenderla. Un giovane del posto ci superò con una bottiglia in mano e un sorriso che non mi piacque. La sua mano sfiorò appena la schiena di Viola. Lei lo guardò un istante, senza dire nulla, ma sorrise provocante. Poi apparvero i fuochi. Una dozzina di persone, forse di più, sedute o in piedi: bicchieri di plastica, carne sulla griglia, musica e vino. Alcuni già sbronzi, altri assorti. Enzo era lì, naturalmente, con la solita camicia sbottonata fino all’ombelico, una sigaretta tra le dita, lo sguardo puntato su di noi non appena entrammo nel cono di luce.
Lui la vide. Lei lo vide. E in quell’istante tutto fu chiaro. I miei pensieri si fecero neri e vischiosi. Avrei potuto prenderla per un braccio e portarla via. Ma non lo feci. Mi staccai di qualche passo, fingendo di sistemare i bicchieri, scambiai due parole con due sconosciuti. Le lasciai spazio. O meglio: se lo prese. Perché una parte di me — quella più pericolosa, più vigliacca, più vera — voleva vedere le carte, anche se ormai era tutto chiaro. La musica cambiò. Qualcuno mise su un vecchio brano lento, ruvido, carico di sabbia e desiderio. Una voce femminile, roca e stanca, intonava una melodia sensuale che sembrava uscita da un grammofono abbandonato in riva al mare. Le chiacchiere si affievolirono. Le coppie cominciarono ad alzarsi, accoppiandosi alla cieca sotto la luna e i riflessi delle fiamme.
Viola restò seduta ancora un attimo. Poi si alzò in piedi, si voltò verso Enzo e gli allungò una mano. Fu lei a chiedergli di ballare. Fu lei a offrirsi.
Enzo si alzò con lentezza, come un predatore che ha tutto il tempo del mondo. La prese per la vita. Lei gli si avvicinò subito, aderente, senza esitazione. I loro corpi si fusero al primo passo, come se si conoscessero da sempre. Ballavano. Ma non era un ballo: era un possesso.
Il vestito le scivolava addosso come un velo inutile. Le mani di lui esploravano la sua schiena, le natiche, la nuca. Una di quelle mani salì lentamente fino a sfiorarle un seno sotto il tessuto. Lei chiuse gli occhi e si strinse ancora di più.
Erano in mezzo agli altri, eppure non c’era più nessun altro. Solo loro. E io che li guardavo, che li vedevo, che li lasciavo fare.
Ogni passo era una penetrazione simbolica. Ogni respiro, un consenso. E il suo corpo — quello che credevo mio — ora si muoveva al ritmo di un altro uomo. Le sue mani avevano già tracciato ogni centimetro della sua pelle. La sua bocca — lo sentivo, lo sapevo — aveva già lasciato il segno.
E mentre danzava così, morbida, cedevole, oscillante come una foglia nell’acqua, non cercava più il mio sguardo.
Mi distrassi un istante, attirato dall’odore speziato del vin brûlé… Li trovai poco lontano: un cespuglio fitto, dal fruscio salmastro, mi offrì riparo. Oltre, la sabbia formava un avvallamento tra le dune, dove il chiaro di luna disegnava curve lucide e tremule.
Erano lì.
Viola era in ginocchio, il vestito abbassato a metà sul fianco, i seni scoperti e scossi da ogni affondo. Enzo era dietro di lei, nudo, il corpo lungo e nervoso, la pelle scura che brillava di sudore e di sale. Le afferrava i fianchi con violenza ritmica, penetrandola con spinte secche e decise che la facevano ansimare a voce alta.
— Ti piace, bella signora? Eh? Guardami mentre ti scopo. Lei voltò appena il viso, con la sabbia attaccata alla guancia, ansante. — Sì… sì… scopami come vuoi, fammi tutto, se ti piace… — la sua voce roca, rotta, tremava di piacere e abbandono.
Enzo le afferrò i capelli, tirandola indietro mentre la penetrava con ancora più forza. — Sei la fica più bella che mi sia mai capitata. Così… ti ho meritata. Lo volevi da giorni, vero? Viola gemette. Le mani affondate nella sabbia, le ginocchia segnate, il culo alzato come un’offerta, come una sfida. — Sì… lo volevo… chiavami, così… — con voce concitata.
Il mio respiro si fece corto. Le gambe mi tremavano. Non sapevo più se fossi furioso o eccitato. Forse entrambe le cose. Forse nessuna. La vedevo lasciarsi andare a tutto. Era completamente sua. Non solo il corpo: la voce, la volontà, l’identità.
Enzo la tirò su con un braccio e la fece voltare. Lei si mise a cavalcioni su di lui e si calò sul suo sesso con un gemito lungo, gutturale. Le mani sulle sue spalle, il seno che sobbalzava, la bocca aperta come in una invocazione. — Vuoi che ti venga in bocca, o dentro la figa? — Dove vuoi… sborra su di me, dentro… fammi tua… Enzo grugnì come un animale, le prese i seni con entrambe le mani, li strinse fino a farla gemere. — Sei mia, sei da scopare in mezzo alla sabbia… e guarda come godi… — Sì… sono tua… sono la tua troia… fammi venire… fammi venire bene…
Il suo corpo sobbalzava mentre si muoveva su di lui, fradicia, senza ritegno, i capelli spettinati e la bocca aperta come se non ci fosse più ossigeno. Gemeva, godeva, implorava, si piegava a ogni gesto.
— Stai lì, ferma… puttana… stai zitta… — grugnì Enzo.
La sollevò per i fianchi, la costrinse a inginocchiarsi e le afferrò i capelli. Con uno strattone le guidò la bocca, le sbatté il sesso gonfio ancora sporco di lei sulle labbra e poi dentro, con violenza. — Apri. Così. In gola, brava porcella. Lei lo prese tutto, fino a soffocare, e non si ritrasse. Lui affondò ancora, fino al fondo, poi la tenne ferma. Un attimo dopo, esplose su di lei. Una raffica densa le riempì la bocca, poi le labbra aperte; un altro schizzo le imbrattò il petto e i capelli. Viola era inebriata, come se ricevesse una pioggia ristoratrice; si passò la lingua sulle labbra guardandolo da sotto in su, con lo sguardo offuscato. La luna illuminava la scena. Ero ancora lì, nell’ombra densa del cespuglio, con il cuore martellante e il sesso duro contro il tessuto dei pantaloni. Avrei potuto intervenire. Ma non lo feci. E non perché fossi incapace. Ma perché, in fondo, lo avevo accettato.
Il sole era già alto quando tornò dalla cucina con due caffè, camminando scalza sulla veranda della piccola casa presa in affitto. I capelli ancora bagnati, un pareo annodato basso sui fianchi, la pelle arrossata qua e là, segnata dai giochi della notte. Non cercava di nasconderli, li esibiva come trofei. Mi porse il bicchiere di carta senza dire nulla. La guardai. Avevo mille parole in testa, ma nessuna che potesse cambiare ciò che era successo. Nessuna che potesse arginarlo. Alla fine sussurrai soltanto: — Ti sei divertita, ieri sera? Si fermò, sorseggiò piano il caffè, poi mi guardò negli occhi con quel sorriso storto che conoscevo fin troppo bene. — E tu?
Mi girai verso il mare: ne percepivo i soffi salsi che si mescolavano col profumo del caffè. Non risposi.
Viola, mia moglie, da silfide flessuosa si era trasformata col tempo in una morbida bellezza, capace di attirare sguardi maschili — e talvolta anche femminili — senza lasciare nessuno indifferente. In quei giorni di libertà assoluta lei sembrava fondersi con quella natura primitiva, godendosi appena possibile il sole e il mare completamente nuda, l’inguine lasciato allo stato brado e le ascelle non depilate. Appena raggiungevamo la nostra meta, si liberava degli indumenti, e io godevo del suo corpo procace che si muoveva tra gli scogli o si stendeva al sole. Pensavo che nessuno potesse vederci, ma presto notai che la barca di Enzo, una volta allontanatasi, sostava per qualche tempo al largo. Un riflesso — come di raggi che colpissero le lenti di un binocolo — attirò la mia attenzione. Compresi: quell’uomo, quarantenne asciutto e bruciato dal sole, si godeva lo spettacolo del nudo integrale di mia moglie. E presto ebbi la sensazione — poi la conferma — che lei si esibisse per lui, in pose smaccatamente erotiche. Una maliziosa complicità si era instaurata tra i due, ed io ne ero consapevole. Quando la aiutava a uscire dall’acqua, per esempio, la sollevava da sotto, accarezzandole con lentezza la pelle umida sotto l’ascella, o le sfiorava i piedi con gesti apparentemente casuali. Lei non si tirava mai indietro. Anzi, lo guardava languidamente. Scendevamo ogni giorno in paese nel tardo pomeriggio, quando il sole perdeva mordente e le strade si animavano, le vecchie, levigate pietre delle viuzze risplendevano, dorate dalla luce del tramonto. Era evidente che Viola gradiva quei piccoli pellegrinaggi tra i vicoli. Le sue camminate erano lente, oscillanti, con quell’andatura morbida da femmina sicura di sé. Si legava i capelli con un foulard e indossava abiti larghi, leggeri, che il vento si divertiva a sollevare appena. Viola non era mai sfacciata, eppure… c’era in lei una disponibilità nuova, una leggerezza nei sorrisi, una lentezza maliziosa negli sguardi ricambiati. Sembrava ondeggiare su una corda tesa tra innocenza e provocazione, e più lei oscillava, più io mi sentivo parte del gioco, spettatore coinvolto, quasi complice. Una sera, mentre rincasavamo, Enzo ci raggiunse in scooter. Rallentò, ci fece un cenno con la mano, si tolse gli occhiali da sole. — Sabato sera faremo una festa in spiaggia. Portate qualcosa da bere o da mettere sulla griglia. Ci saranno i ragazzi del posto, qualche turista… falò, musica. Ci state? Viola non esitò neanche un secondo. — Certo, con piacere — rispose sorridendo. Io, in silenzio, mi limitai ad annuire.
Quella notte faticai a dormire. Lei si muoveva nuda sotto il lenzuolo, il corpo ancora profumato di sale, e io la osservavo nel buio, con un’inconsueta inquietudine addosso, presago di ciò che stava per accadere. La luce del tramonto filtrava dalla finestra della camera, liquida e dorata, accarezzando le pareti spoglie e il letto disfatto. Viola era in piedi davanti allo specchio scheggiato, la pelle ancora arrossata dal sole del pomeriggio, i capelli umidi raccolti in un nodo disordinato. Frugava nella borsa di tela dove tenevamo i vestiti leggeri, tirandoli fuori uno a uno e scartandoli con smorfie impazienti.
— Niente mi piace stasera… — mormorò, più a sé stessa che a me. Poi prese un vestito che non ricordavo neanche avesse portato: nero, leggerissimo, con uno spacco profondo e due sottili bretelle più decorative che funzionali. Lo sollevò davanti a sé, valutandolo alla luce. Sotto non avrebbe potuto indossare nulla. E lo sapeva.
Lo infilò senza imbarazzo. Senza reggiseno, ovviamente. Le punte dei seni si disegnarono appena sotto il tessuto. Lo spacco rivelava interamente una coscia, fino all’attaccatura. — Che ne pensi? — mi chiese, voltandosi verso di me. Aveva un tono innocente, ma negli occhi brillava qualcosa di più sporco. Una sfida.
La fissai per un lungo momento, con la gola secca. — Scusa, ma… sembri una puttana. Sorrise. Non si offese. Non si schermì. Si avvicinò lentamente, il passo ondeggiante, e si fermò davanti a me, così vicina da farmi sentire l’odore del suo corpo — sudore, mare, e qualcosa di più animale. — Chi ti dice che non lo sia? — sussurrò.
Rimasi muto. Non era una battuta. Non quella sera.
Poi si voltò, senza più badarmi, e cominciò a sistemarsi i capelli allo specchio, raccogliendoli in una treccia morbida, lasciando qualche ciocca libera a incorniciarle il viso. Un filo di matita agli occhi, un tocco di rosso sulle labbra. La guardavo prepararsi non per me, ma per essere guardata. La spiaggia di notte era un altro mondo. Il sentiero tra le dune si snodava incerto alla luce delle torce e dei telefoni, la sabbia tiepida sotto i piedi nudi, il mare nero che sussurrava poco distante. Più ci avvicinavamo al punto del ritrovo, più sentivo l’eco dei falò, le risate spezzate, la musica bassa, sensuale, intermittente. Viola camminava davanti a me con passo sicuro, il vestito che le aderiva come una seconda pelle viva, liquida, che pareva respirare con lei. Lo spacco si apriva a ogni falcata, mostrando il bianco interno della coscia; sapevo che era davvero nuda sotto. Fu evidente non solo a me quando si chinò per sistemarsi il sandalo e il vestito, per un attimo, si sollevò oltre il limite. Nessuna biancheria. Nulla a schermarla, a difenderla. Un giovane del posto ci superò con una bottiglia in mano e un sorriso che non mi piacque. La sua mano sfiorò appena la schiena di Viola. Lei lo guardò un istante, senza dire nulla, ma sorrise provocante. Poi apparvero i fuochi. Una dozzina di persone, forse di più, sedute o in piedi: bicchieri di plastica, carne sulla griglia, musica e vino. Alcuni già sbronzi, altri assorti. Enzo era lì, naturalmente, con la solita camicia sbottonata fino all’ombelico, una sigaretta tra le dita, lo sguardo puntato su di noi non appena entrammo nel cono di luce.
Lui la vide. Lei lo vide. E in quell’istante tutto fu chiaro. I miei pensieri si fecero neri e vischiosi. Avrei potuto prenderla per un braccio e portarla via. Ma non lo feci. Mi staccai di qualche passo, fingendo di sistemare i bicchieri, scambiai due parole con due sconosciuti. Le lasciai spazio. O meglio: se lo prese. Perché una parte di me — quella più pericolosa, più vigliacca, più vera — voleva vedere le carte, anche se ormai era tutto chiaro. La musica cambiò. Qualcuno mise su un vecchio brano lento, ruvido, carico di sabbia e desiderio. Una voce femminile, roca e stanca, intonava una melodia sensuale che sembrava uscita da un grammofono abbandonato in riva al mare. Le chiacchiere si affievolirono. Le coppie cominciarono ad alzarsi, accoppiandosi alla cieca sotto la luna e i riflessi delle fiamme.
Viola restò seduta ancora un attimo. Poi si alzò in piedi, si voltò verso Enzo e gli allungò una mano. Fu lei a chiedergli di ballare. Fu lei a offrirsi.
Enzo si alzò con lentezza, come un predatore che ha tutto il tempo del mondo. La prese per la vita. Lei gli si avvicinò subito, aderente, senza esitazione. I loro corpi si fusero al primo passo, come se si conoscessero da sempre. Ballavano. Ma non era un ballo: era un possesso.
Il vestito le scivolava addosso come un velo inutile. Le mani di lui esploravano la sua schiena, le natiche, la nuca. Una di quelle mani salì lentamente fino a sfiorarle un seno sotto il tessuto. Lei chiuse gli occhi e si strinse ancora di più.
Erano in mezzo agli altri, eppure non c’era più nessun altro. Solo loro. E io che li guardavo, che li vedevo, che li lasciavo fare.
Ogni passo era una penetrazione simbolica. Ogni respiro, un consenso. E il suo corpo — quello che credevo mio — ora si muoveva al ritmo di un altro uomo. Le sue mani avevano già tracciato ogni centimetro della sua pelle. La sua bocca — lo sentivo, lo sapevo — aveva già lasciato il segno.
E mentre danzava così, morbida, cedevole, oscillante come una foglia nell’acqua, non cercava più il mio sguardo.
Mi distrassi un istante, attirato dall’odore speziato del vin brûlé… Li trovai poco lontano: un cespuglio fitto, dal fruscio salmastro, mi offrì riparo. Oltre, la sabbia formava un avvallamento tra le dune, dove il chiaro di luna disegnava curve lucide e tremule.
Erano lì.
Viola era in ginocchio, il vestito abbassato a metà sul fianco, i seni scoperti e scossi da ogni affondo. Enzo era dietro di lei, nudo, il corpo lungo e nervoso, la pelle scura che brillava di sudore e di sale. Le afferrava i fianchi con violenza ritmica, penetrandola con spinte secche e decise che la facevano ansimare a voce alta.
— Ti piace, bella signora? Eh? Guardami mentre ti scopo. Lei voltò appena il viso, con la sabbia attaccata alla guancia, ansante. — Sì… sì… scopami come vuoi, fammi tutto, se ti piace… — la sua voce roca, rotta, tremava di piacere e abbandono.
Enzo le afferrò i capelli, tirandola indietro mentre la penetrava con ancora più forza. — Sei la fica più bella che mi sia mai capitata. Così… ti ho meritata. Lo volevi da giorni, vero? Viola gemette. Le mani affondate nella sabbia, le ginocchia segnate, il culo alzato come un’offerta, come una sfida. — Sì… lo volevo… chiavami, così… — con voce concitata.
Il mio respiro si fece corto. Le gambe mi tremavano. Non sapevo più se fossi furioso o eccitato. Forse entrambe le cose. Forse nessuna. La vedevo lasciarsi andare a tutto. Era completamente sua. Non solo il corpo: la voce, la volontà, l’identità.
Enzo la tirò su con un braccio e la fece voltare. Lei si mise a cavalcioni su di lui e si calò sul suo sesso con un gemito lungo, gutturale. Le mani sulle sue spalle, il seno che sobbalzava, la bocca aperta come in una invocazione. — Vuoi che ti venga in bocca, o dentro la figa? — Dove vuoi… sborra su di me, dentro… fammi tua… Enzo grugnì come un animale, le prese i seni con entrambe le mani, li strinse fino a farla gemere. — Sei mia, sei da scopare in mezzo alla sabbia… e guarda come godi… — Sì… sono tua… sono la tua troia… fammi venire… fammi venire bene…
Il suo corpo sobbalzava mentre si muoveva su di lui, fradicia, senza ritegno, i capelli spettinati e la bocca aperta come se non ci fosse più ossigeno. Gemeva, godeva, implorava, si piegava a ogni gesto.
— Stai lì, ferma… puttana… stai zitta… — grugnì Enzo.
La sollevò per i fianchi, la costrinse a inginocchiarsi e le afferrò i capelli. Con uno strattone le guidò la bocca, le sbatté il sesso gonfio ancora sporco di lei sulle labbra e poi dentro, con violenza. — Apri. Così. In gola, brava porcella. Lei lo prese tutto, fino a soffocare, e non si ritrasse. Lui affondò ancora, fino al fondo, poi la tenne ferma. Un attimo dopo, esplose su di lei. Una raffica densa le riempì la bocca, poi le labbra aperte; un altro schizzo le imbrattò il petto e i capelli. Viola era inebriata, come se ricevesse una pioggia ristoratrice; si passò la lingua sulle labbra guardandolo da sotto in su, con lo sguardo offuscato. La luna illuminava la scena. Ero ancora lì, nell’ombra densa del cespuglio, con il cuore martellante e il sesso duro contro il tessuto dei pantaloni. Avrei potuto intervenire. Ma non lo feci. E non perché fossi incapace. Ma perché, in fondo, lo avevo accettato.
Il sole era già alto quando tornò dalla cucina con due caffè, camminando scalza sulla veranda della piccola casa presa in affitto. I capelli ancora bagnati, un pareo annodato basso sui fianchi, la pelle arrossata qua e là, segnata dai giochi della notte. Non cercava di nasconderli, li esibiva come trofei. Mi porse il bicchiere di carta senza dire nulla. La guardai. Avevo mille parole in testa, ma nessuna che potesse cambiare ciò che era successo. Nessuna che potesse arginarlo. Alla fine sussurrai soltanto: — Ti sei divertita, ieri sera? Si fermò, sorseggiò piano il caffè, poi mi guardò negli occhi con quel sorriso storto che conoscevo fin troppo bene. — E tu?
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