Respiri spezzati

di
genere
etero


Il camino proietta ombre tremolanti sulle pareti, ma il vero fuoco è sopra di me: Sonia.
Si muove lenta contro la mia impazienza, quasi a farmi implorare. Il top di seta cede sotto la pressione di quei seni stupendi, enormi, arroganti, che oscillano come sfida. Quando lo slaccia, è come assistere a un’apparizione carnale: capezzoli gonfi, duri, seni pieni e pesanti, pronti a farsi mordere.
Mi monta a cavalcioni, il tanga già inumidito. Lo sposta con due dita e prende il mio sesso, guidandolo contro la sua fessura calda e lubrificata. Fa scivolare la cappella dentro, si ferma un istante, gli occhi fissi nei miei, e poi affonda tutta, lenta, finché mi sento sepolto in lei.
Un urlo rauco le esce dalla gola, mentre si stringe attorno a me come un pugno vivo. Comincia a cavalcarmi, prima onde lente, sensuali, che mi costringono a sentire ogni millimetro, poi affondi veloci e profondi, il rumore umido dei nostri corpi che si schiantavano l’uno contro l’altro. I seni mi rimbalzavano sulla faccia; li afferro, li addento forte. Lei strilla, la schiena inarcata, i capelli che mi frustano il viso.
La mia bocca tra le sue natiche, fino a lambire entrambi i suoi orifizi, caldi e palpitanti. La mia lingua penetra dove il suo piacere, in attesa, reclama. Lei grida, la voce rotta, mi stringe la testa con le cosce e geme parole sconnesse, sconce ma dolci.
La tiro di nuovo sopra di me e inizio a spingerla dall’interno con colpi duri e continui; i suoi gemiti riempiono la stanza, rimbalzando sulle pareti insieme al suono ritmico della carne che batte carne.
Poi viene: la sento tremare, irrigidirsi, poi un’ondata calda mi avvolge. Il suo orgasmo la fa urlare ancora più forte, i fianchi impazziti, mentre io la riempivo con il mio getto caldo e pulsante, restando dentro finché ogni contrazione non si placa.
Le sue unghie mi rigano la pelle, il suo respiro ora è spezzato, è un ansito, un rantolo…

Scatto metallico della porta dell’ospedale. L’odore inconfondibile m’investe. I corridoi, deserti, vibrano sotto il ronzio continuo dei neon.
Badge sul lettore: bip verde. La divisa azzurra dall’armadietto di metallo, il fonendoscopio. Pronti per il turno di notte.

Rimaniamo incollati, ansimanti, madidi di sudore e del nostro odore. Seni pesanti e pieni, fianchi generosi che sembravano fatti per accogliermi e intrappolarmi, la sua carne calda contro il mio volto, fino a togliermi il fiato. —Fammi respirare —.

La cappellina dell’ospedale è vuota. Evito lo sguardo di Lui. Mi rivolgo a Sua madre. Gli occhi secchi, il cuore pesante. Una pompa a infusione pulsa, ritmica come un battito meccanico. La terapia intensiva è una gabbia di luce e tubi. Vorrei fuggire, ma resto. Loro sono qui e si affidano a me. Sfioro un volto, un capo, in una tenera, inutile carezza.

Sonia si piega all’indietro, spalancando le gambe con un gesto regale, e io la prendo da dietro, un’altra volta afferrandole i fianchi e sentendo la carne cedere e tornare, in un’onda calda e ossessiva. Lei si volta appena, occhi stretti, labbra socchiuse:
— Sei mio, stanotte — disse.

Monitor che lampeggiano. Grafici verdi e rossi. Numeri che scorrono, s’inseguono. Pazienti immobili, legati a macchine che respirano per loro. Un odore freddo di aria condizionata. La luce al neon che non concede ombra.

— Sonia, mi vuoi sposare?
—Sei matto tu! Ma se sei già sposato! — ride — Con te mi diverto troppo, ma la tua mente… appartiene ad altro.
— Sonia, mi vuoi sposare? — insisto.
— Non finché nel letto c’è chi ti manca davvero, che ti blocca il fiato.

.…Bip… bip… bip…
Il suono non è più il camino, ma un monitor. Luci verdi che pulsano, grafici che salgono e scendono, numeri che s’inseguono. Allarmi incombenti. Pazienti immobili. Stringo una mano: è fredda, gonfia.
—…Dottore, la numero due sta desaturando, l’emodinamica non tiene…
Il corpo riempito di device, il volto immobile, amimico, ad occhi chiusi, perso in sa quali sogni, che mi urla con grido disperato e muto:
—Non abbandonarmi!


All’alba, il rasoio gratta la pelle. Due solchi profondi scavati sul viso. Il caffè. Vento caldo, odore di pioggia nell’aria. È il libeccio —la curéna, come dicono i vecchi qui —, le gocce non tarderanno a cadere
Scendo verso il parcheggio. La pioggia arriva, fitta, decisa. Scivola sul volto e prende il posto delle lacrime che non ho più.

scritto il
2025-08-20
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