Trasgressione

di
genere
corna

Era iniziato tutto come una banale cena tra amici, ma ora so che quella sera non fu un evento casuale. Era il nostro passo oltre la soglia, la prima crepa nel muro della consuetudine.
Tu me ne avevi parlato spesso di lui, del suo modo di entrare insolente nelle vite altrui come se ne fosse il padrone, di quella sicurezza che non chiedeva permesso. Lo avevo capito e non desideravi solo raccontarmelo, volevi che lo vedessi, che lo vivessi, che diventasse sostanza, un nostro geloso segreto.
A tavola, in quel ristorante con luci soffuse e il risuonare di molteplici voci, percepivo i suoi occhi posarsi su di me e i tuoi sguardi a intercettare i suoi. Il tuo silenzio era già un assenso: ogni gesto, ogni parola, ogni brindisi caparra di qualcosa che nessuno dei tre osava nominare.
Quando le sue dita sfiorarono le mie sotto il tavolo, avvertii un brivido lungo la pelle — era la figa che stava accarezzando, non la mano — e tu lo vedevi e lo volevi come se avessimo appena siglato un patto.
Tu alzasti lo sguardo un attimo, e in quell’attimo tutto fu chiaro: la regia della scena era tua, ma il corpo — il mio — era il linguaggio protagonista attraverso cui la stavamo scrivendo.
Il conto fu stato pagato in fretta. Tu, già pronto a guidare, eri il nostro autista e spettatore insieme. Io sul sedile posteriore con lui che mi scaldava la pelle, e tu che nello specchietto guardavi la tua donna lasciarsi aprire da un altro. Umiliato, sì, ma eccitato come mai ti avevo visto.
Appena l’auto imboccò la strada più buia che si addentrava nella campagna, lasciai andare ogni freno. La sua mano guidò il mio corpo, trovò il mio ventre e iniziò a muoversi tra le mie cosce. Permisi che tu potessi sentire tutto, dal posto di guida: ogni mio sospiro, ogni gemito, ogni parola era indirizzata a te.
— Si… dentro al mio corpo…fammi tua…scopami adesso, — mormoravo estasiata tra un ansito e l’altro.
Quella irresistibile sensazione di un grosso cazzo dentro la mia carne bollente, quelle scariche nervose che si propagavano come saette dalla vulva fino a raggiungere il mio cervello limbico ad alterare i miei pensieri fino a sottomettere la ragione…e tutto questo di con te lì presente.
Lui spingeva ancora più profondo e io ti cercavo nello specchietto. L’ardente attrito dentro la figa, la dilatazione vaginale, intensa, la pienezza che avanzava fino a urtarmi l’utero, mi obbligava a sospirare, gemere, urlare il mio piacere, attivato dai circuiti dopaminergici.
Tu davanti al nostro gioco, eri rigido. Il tuo corpo tradiva tutto quello che provavi: mani strette sul volante, mascella serrata, occhi fissi sullo specchietto. Ogni mio gemito - potevo immaginare - ti raggiungeva come una percossa, e io lo percepivo, sentivo il calore del tuo corpo reagire ai miei urli, al mio piacere, al sapore del suo membro dentro di me.
Il mio amante ansimava, il corpo in tensione, tutto compreso nella sua azione oltremodo vigorosa e sempre più frenetica. Io gemevo eccitata più che mai, le mani sulle sue spalle, il morbido seno libero che sobbalzava. Ma i miei occhi erano costantemente fissi sullo specchietto. E lì c’eri tu: duro e immobile, con gli occhi lucidi e la bocca socchiusa, incapace di distogliere lo sguardo.
— Guardami, amore… guardami mentre vengo! - dissi a voce alta che tremava di piacere.
Lui come un forsennato dentro di me: il suo seme caldo, vischioso, mi riempiva fino in fondo. Lasciai che colasse fuori, bagnandomi le cosce, sapendo che tu cercavi di sorprendere ogni dettaglio. In ogni caso con le mie parole ti volevo rendere del tutto partecipe:
— Adesso sono piena… piena di lui… sto colando fra le cosce, sul sedile… è fantastico!
Il mio sorriso era sporco, gli occhi lucidi, il corpo vibrante. Tu col respiro strozzato, il cazzo duro prigioniero dei pantaloni. Il tuo silenzio era il suono della resa, della tua eccitazione più profonda. Io dietro, femmina sazia, ti guardavo nello specchietto sapendo che ti avevo portato dove volevi: al confine fra umiliazione e piacere.
Al ritorno, tu guidavi lentamente, come per allungare ogni secondo, per non spezzare l’incanto sporco che ci avvolgeva nell’abitacolo. Io ero seduta accanto a lui, le cosce dischiuse, la figa calda e bagnata del suo seme.
Giunti a casa, richiusi la porta dietro di noi facendoti inginocchiare davanti a me. Sollevai la gonna sotto cui non c’era alcuna biancheria.
— Vieni qui. Guardala bene, questa figa gonfia, stillante, che ti eccita da morire.
Ti feci leccare ogni goccia di quel piacere sconcio. Il tuo ruolo era chiaro: spettatore e servitore. Ogni mio orgasmo, ogni goccia di seme che ti mettevo in bocca era un sigillo sulla tua sottomissione e sulla nostra complicità. Il gioco non finiva mai davvero. La mattina dopo, mi mossi come se nulla fosse accaduto, pronta all’usuale giornata di lavoro, ma con ancora i segni della notte dissoluta appena trascorsa, vestita con eleganza, svergognata troia e regina del nostro lurido, lussurioso godimento condiviso.
di
scritto il
2025-11-27
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