La carne della sposa
di
rotas2sator
genere
tradimenti
Rientrata dal viaggio di nozze, Viola era tornata nella città dove aveva studiato. Laurea conseguita, un primo incarico lavorativo in una struttura sanitaria da non perdere, mentre il marito era costretto dal suo lavoro a rimanere lontano.
La domenica pomeriggio, dopo il turno del mattino, si concedeva al riposo nel piccolo appartamento in affitto. Ma quel caldo, unito alla solitudine, la rendeva irrequieta. Quasi per disperazione, scese in strada a portare il pattume.
Il sole batteva sulle facciate, l’aria tremolava. Viola sentiva la pelle umida incollarsi alla stoffa leggera della maglietta, e il sacchetto che stringeva tra le mani le pesava più del dovuto. Raggiunto il cassonetto, lo gettò dentro con un gesto brusco. Proprio allora, dal lato opposto della strada, vide Domenico.
Lui stava rientrando con due buste di plastica, probabilmente la spesa della domenica. Camminava lento, in infradito, la canottiera incollata al petto. Quando la riconobbe, alzò appena il mento in un saluto. Viola ricambiò d’istinto con un sorriso breve, più un riflesso che una vera intenzione.
Si conoscevano di vista, niente più che un buongiorno e una buonasera incrociati nei mesi passati. Ma in quell’attimo, con il caldo che le bruciava addosso e la testa svuotata, la presenza di quell’uomo divenne improvvisamente una tentazione. Lui posò le buste a terra, come per alleggerirsi, e restò a guardarla con calma.
Il suo sorriso era lento, quasi di sfida. «Una sposina come te, è un vero delitto che resti sola…» disse, e il tono era basso, insinuante.
Un brivido le corse lungo la schiena. Si accorse che stava sorridendo, e che il corpo, all’improvviso, si era fatto più leggero. Quelle parole non l’avevano offesa: l’avevano scossa, come se qualcuno avesse osato toccare il nervo scoperto della sua solitudine.
Dentro di sé sentiva il conflitto montare: sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare — rientrare, chiudere la porta, pensare al marito lontano — eppure ogni fibra del corpo le suggeriva di restare lì, ad ascoltare quella voce roca che la invitava a dimenticare il dovere per un pomeriggio.
«Una sposina come te…» La frase le rimbombava nella testa. Il modo in cui lui l’aveva guardata era stato un contatto: occhi che la spogliavano oltre la stoffa sottile che le aderiva alla pelle.
Domenico non la incalzava apertamente, ma c’era nella sua calma un potere che la metteva a disagio: come se fosse certo che lei non si sarebbe tirata indietro. Ogni volta che la sua voce rompeva il silenzio, Viola sentiva avvicinarsi la resa: la possibilità di dimenticare, anche solo per un attimo, l’immagine perfetta della moglie fedele.
Si ritrovò a camminare con lui sotto l’ombra dei portici, l’aria immobile, i loro passi che risuonavano, il ciabattare delle sue infradito a scandire il silenzio domenicale. Quando si infilarono nell’androne di un vecchio palazzo, la penombra li avvolse come un mantello. Restarono fermi un istante, sospesi, poi Domenico si voltò verso di lei.
Lo sguardo era diretto, privo di esitazione. Lei non disse nulla, ma il respiro si fece corto. E allora lui la prese per la vita e le sfiorò le labbra. Il bacio arrivò improvviso, un brivido caldo la attraversò.
Il corpo prese il comando: si ritrovò a stringersi a lui, a sentire le sue mani che la esploravano con urgenza. Non lo respinse: desiderava di più. Un sussurro le uscì dalle labbra, tremante, come un segreto. «Andiamo da me.»
Pronunciate quelle parole, capì che non c’era più ritorno.
Appena chiusa la porta dell’appartamento, Domenico la travolse. In un attimo era nuda: il petto villoso le graffiava i seni, le mani le stringevano il culo come carne da macello. L’odore pungente, mescolanza di sudore e sesso, la incendiò e la fece colare tra le cosce. La gettò sul letto e il cazzo gonfio la aprì senza pietà. Viola godeva di ogni spinta, la figa che lo inghiottiva, i gemiti strozzati in gola.
L’urgenza esplose in lei: uno squirting violento, schizzi caldi, un filo d’urina a bagnare lenzuola e carne. Più era sporco, più godeva. — Puttana… — sibilò lui, afferrandole i capelli e girandola.
Lei capì e si offrì. Lui le entrò nell’ano lentamente, centimetro dopo centimetro, fino a sfondarla. I testicoli sbattevano sui glutei tesi, e lei gridava godendo, rivoli a solcarle le cosce.
Quando volle la sua bocca, Viola assaporò il gusto acre del proprio squirt mescolato al cazzo di lui. Lo succhiò, ma Domenico tornò subito a sbatterla. Ogni colpo la piegava tra vergogna e piacere, la figa che lo stringeva come una bocca assetata. Si contorceva, pisciando e urlando senza più controllo.
Stanca, in balia della sua furia. — Ti prego… basta.
Finalmente lui venne, colmandola di seme caldo. I loro corpi restarono appiccicati, ventre contro ventre, sudati, luridi, le lenzuola zuppe di umori. L’aria greve, impregnata dell’odore del sesso. Il respiro di lei, affannoso.
Fuori dalle finestre la città si ripopolava, le voci, i clacson, il rombo dei motori. Era supina, arti allungati, il corpo in fiamme di un piacere che non voleva spegnersi; la mente, invece, inchiodata alla vergogna. Il marito lontano le appariva come un fantasma severo, eppure bastava un fremito, e tornavano le spinte, i gemiti, il piacere inconfessabile. Colpa e godimento si confondevano, senza via d’uscita.
Domenico si stiracchiò, soddisfatto come dopo un buon pasto. Le diede un buffetto sul fianco, senza dolcezza, come a tastare la carne di una bestia domata. Non c’era spazio per pensieri o rimorsi: l’aveva posseduta, consumata. Per lui, era tutto lì.
Il sole batteva sulle facciate, l’aria tremolava. Viola sentiva la pelle umida incollarsi alla stoffa leggera della maglietta, e il sacchetto che stringeva tra le mani le pesava più del dovuto. Raggiunto il cassonetto, lo gettò dentro con un gesto brusco. Proprio allora, dal lato opposto della strada, vide Domenico.
Lui stava rientrando con due buste di plastica, probabilmente la spesa della domenica. Camminava lento, in infradito, la canottiera incollata al petto. Quando la riconobbe, alzò appena il mento in un saluto. Viola ricambiò d’istinto con un sorriso breve, più un riflesso che una vera intenzione.
Si conoscevano di vista, niente più che un buongiorno e una buonasera incrociati nei mesi passati. Ma in quell’attimo, con il caldo che le bruciava addosso e la testa svuotata, la presenza di quell’uomo divenne improvvisamente una tentazione. Lui posò le buste a terra, come per alleggerirsi, e restò a guardarla con calma.
Il suo sorriso era lento, quasi di sfida. «Una sposina come te, è un vero delitto che resti sola…» disse, e il tono era basso, insinuante.
Un brivido le corse lungo la schiena. Si accorse che stava sorridendo, e che il corpo, all’improvviso, si era fatto più leggero. Quelle parole non l’avevano offesa: l’avevano scossa, come se qualcuno avesse osato toccare il nervo scoperto della sua solitudine.
Dentro di sé sentiva il conflitto montare: sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare — rientrare, chiudere la porta, pensare al marito lontano — eppure ogni fibra del corpo le suggeriva di restare lì, ad ascoltare quella voce roca che la invitava a dimenticare il dovere per un pomeriggio.
«Una sposina come te…» La frase le rimbombava nella testa. Il modo in cui lui l’aveva guardata era stato un contatto: occhi che la spogliavano oltre la stoffa sottile che le aderiva alla pelle.
Domenico non la incalzava apertamente, ma c’era nella sua calma un potere che la metteva a disagio: come se fosse certo che lei non si sarebbe tirata indietro. Ogni volta che la sua voce rompeva il silenzio, Viola sentiva avvicinarsi la resa: la possibilità di dimenticare, anche solo per un attimo, l’immagine perfetta della moglie fedele.
Si ritrovò a camminare con lui sotto l’ombra dei portici, l’aria immobile, i loro passi che risuonavano, il ciabattare delle sue infradito a scandire il silenzio domenicale. Quando si infilarono nell’androne di un vecchio palazzo, la penombra li avvolse come un mantello. Restarono fermi un istante, sospesi, poi Domenico si voltò verso di lei.
Lo sguardo era diretto, privo di esitazione. Lei non disse nulla, ma il respiro si fece corto. E allora lui la prese per la vita e le sfiorò le labbra. Il bacio arrivò improvviso, un brivido caldo la attraversò.
Il corpo prese il comando: si ritrovò a stringersi a lui, a sentire le sue mani che la esploravano con urgenza. Non lo respinse: desiderava di più. Un sussurro le uscì dalle labbra, tremante, come un segreto. «Andiamo da me.»
Pronunciate quelle parole, capì che non c’era più ritorno.
Appena chiusa la porta dell’appartamento, Domenico la travolse. In un attimo era nuda: il petto villoso le graffiava i seni, le mani le stringevano il culo come carne da macello. L’odore pungente, mescolanza di sudore e sesso, la incendiò e la fece colare tra le cosce. La gettò sul letto e il cazzo gonfio la aprì senza pietà. Viola godeva di ogni spinta, la figa che lo inghiottiva, i gemiti strozzati in gola.
L’urgenza esplose in lei: uno squirting violento, schizzi caldi, un filo d’urina a bagnare lenzuola e carne. Più era sporco, più godeva. — Puttana… — sibilò lui, afferrandole i capelli e girandola.
Lei capì e si offrì. Lui le entrò nell’ano lentamente, centimetro dopo centimetro, fino a sfondarla. I testicoli sbattevano sui glutei tesi, e lei gridava godendo, rivoli a solcarle le cosce.
Quando volle la sua bocca, Viola assaporò il gusto acre del proprio squirt mescolato al cazzo di lui. Lo succhiò, ma Domenico tornò subito a sbatterla. Ogni colpo la piegava tra vergogna e piacere, la figa che lo stringeva come una bocca assetata. Si contorceva, pisciando e urlando senza più controllo.
Stanca, in balia della sua furia. — Ti prego… basta.
Finalmente lui venne, colmandola di seme caldo. I loro corpi restarono appiccicati, ventre contro ventre, sudati, luridi, le lenzuola zuppe di umori. L’aria greve, impregnata dell’odore del sesso. Il respiro di lei, affannoso.
Fuori dalle finestre la città si ripopolava, le voci, i clacson, il rombo dei motori. Era supina, arti allungati, il corpo in fiamme di un piacere che non voleva spegnersi; la mente, invece, inchiodata alla vergogna. Il marito lontano le appariva come un fantasma severo, eppure bastava un fremito, e tornavano le spinte, i gemiti, il piacere inconfessabile. Colpa e godimento si confondevano, senza via d’uscita.
Domenico si stiracchiò, soddisfatto come dopo un buon pasto. Le diede un buffetto sul fianco, senza dolcezza, come a tastare la carne di una bestia domata. Non c’era spazio per pensieri o rimorsi: l’aveva posseduta, consumata. Per lui, era tutto lì.
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