Mia cugina: Parte 36
di
Catartico
genere
incesti
Trequarti d’ora dopo mi incammino verso il mio condominio. La mia ex assistente è seduta sui gradini dell’entrata. Sembra triste. Scuoto la testa e continuo a camminare. Lei mi vede, si alza.
Mi fermo. — Che ci fai qui?
— Volevo salutarti, prima di partire.
— Potevi mandarmi un messaggio o farmi una chiamata.
— Volevo farlo di persona.
Non rispondo.
— Quindi sai già che partirò? — domanda fredda.
— Tua madre è venuta nel mio ufficio. Mi ha detto che andrai negli Stati Uniti.
— Capisco.
— Beh, se non vuoi dirmi altro…
Serra gli occhi minacciosa. — Non mi chiedi scusa?
— Per cosa.
— Per lo schiaffo.
— Ah, beh… Ma non te l’ho dato.
— Ma stavi per darmelo!
— Abbassa la voce.
Si guarda intorno, lo sguardo da psicopatica. — Che c'è?! Hai paura che qualcuno possa sentirci?! Qui mi conoscono tutti, ormai.
Già, come dimenticare. Ha finto di piangere per attirare l’attenzione della vicina. Per non parlare del bordello che ne è seguito dopo. Si è presentata pure sua madre. — Volevo solo salutarmi, no? Quindi fai buon viaggio.
— Buon viaggio un corno! — urla stizzita. — Non ti è mai importato niente di me. Mi hai solo usata!
Alcune persone si affacciano dai balconi e dalle finestre. Diversi passanti si fermano a guardare. Le auto rallentano.
— Ok, andiamo su — dico arrabbiato. — Stai dando spettacolo, come al solito.
La mia ex assistente mi fissa quasi compiaciuta. Forse mi ha manipolato. Si è messa a gridare così che la portassi nel mio appartamento. E ha funzionato.
Saliamo su. Lei si stende sul divano con un braccio sulla fronte come se fosse improvvisamente esausta.
— Non era solo sesso? — chiedo mentre apro la porta-finestra del balcone per far arieggiare la stanza. — Non hai detto questa l'altra volta? Quindi perché continui a fare tutto questo casino?
— Perché ti amo — dice piano.
— Ami l’idea che ti sei fatta di me.
— Non ti ho mai idealizzato. Non dire cose senza senso. So benissimo che sei uno stronzo.
Mi siedo sulla poltrona e accendo la tv. Stanno dando un film di fantascienza. — Senti, tutta questa situazione è…
Scoppia a piangere.
Volto la testa verso di lei. — Dovresti andare. Non ti fa bene stare vicino a me, lo sai.
— Voglio restare qui.
— E il tuo viaggio?
Si gira sul fianco dandomi la schiena, le spalle che sussultano. — Non m’importa.
— Dovresti farlo. Viaggiare… Ti aiuterà conoscerà nuovi posti e nuove persone.
— Sto solo fuggendo.
— Tutti fuggiamo da qualcosa.
Gira la testa verso di me, gli occhi rossi dal pianto. — Tu da cosa fuggi?
— Da me stesso.
Fa una smorfia. — Che frase fatta e… stupida. Troppo stupida e scontata.
— Ma è così. Sai come sono fatto, mi infilo nei casini e ci rimango impantanato come uno stronzo.
La mia ex assistente si mette seduta sul divano, si asciuga il viso con la manica della maglietta. — Già, sei uno stronzo. Il più grande stronzo che abbia mai conosciuto, eppure… ti amo.
Poso la testa sullo schienale della poltrona. Sospiro. — Fai quel viaggio.
— Più cerchi di mandarmi via, più voglio restare qui.
— Lo sai che non provo le stesse cose che provi tu. Perché ti ostini a farti del male?
— Perché ti amo.
Cala il silenzio per un momento.
Un altro sospiro. — Mi dispiace.
— Per cosa?
— Per tutto quanto. Per aver fatto l’amore con te, per averti quasi schiaffeggiata e…
Scatta in piedi e si lancia su di me. Mi abbraccia con forza. Mi stringe così forte che mi sta strittolando. — Io ti amo.
— Io no.
Mi stringe ancora di più finché inizia a baciarmi il viso e il collo. — Ti voglio…
La allontano da me. Lei rafforza la presa e torna a baciarmi in modo affettuoso, morboso.
Mi alzo in piedi con lei in braccio e la getto sul divano. — Vattene.
La mia ex assistente scatta in piedi.
La spingo di nuovo sul divano. — Basta!
Lei mi fissa torva, gli occhi lucidi e arrossati. — Un'ultima volta, poi sparisco. Solo un'ultima volta.
In TV passa la pubblicità di un medicinale per il mal di testa.
Vado alla porta e la apro. Guardo la mia ex assistente, senza dire nulla.
Lei incrocia le braccia sui seni e si mette comoda sul divano, gli occhi puntati sulla TV.
Sospiro frustrato. — Vuoi che chiami tua madre?
Si raddrizza di colpo, lo sguardo teso su di me. — Non lo farai.
Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni, trovo Caterina Savona nella rubrica e le mostro lo schermo.
La mia ex assistente si alza in piedi e si dirige verso di me in tutta fretta, il viso irato. Allunga una mano per strapparmi il cellulare, ma tiro la mano indietro. I suoi occhi sono un crogiolo di violenza.
— Fai buon viaggio — dico.
— Tanto non la chiami — risponde acida in tono di sfida.
Pigio sul tasto verde della chiamata sul cellulare. Squilla due volte.
La mia ex assistente sbarra gli occhi e mi guarda di traverso. — Sei un bastardo figlio di puttana!
— Lo so.
Esce dal mio appartamento e si avvia lungo il corridoio, i passi che risuonano lungo le pareti.
— Lo sto facendo per te — dico.
Non risponde.
Lo sto facendo davvero per lei. Un giorno lo capirà.
Verso le dieci sono al solito bar. La musica house progressive risuona tra la folla. I miei amici sono tutti ubriachi, tranne me. Non ho toccato niente. Non sono in vena.
Penso alla mia ex assistente. Un po' mi dispiace, l’ho tratta male. Ma non avevo altra scelta. Era l'unico modo per farla andare via.
Ilaria si siede accanto a me. Non saluta nessuno. I nostri amici nemmeno si accorgono che è appena arrivata.
Le lancio un’occhiata di sfuggita e volto la testa dall'altra parte. Osservo una donna simile a mia cugina mentre balla sul posto con un tizio accanto ai tavoli. Per come balla e dalla sua espressione facciale penso si sia calata qualcosa. Anche il ragazzo sembra nelle stesse condizioni.
Ilaria mi tocca il braccio. Sposto lo sguardo su di lei. Mi fa cenno con la mano di uscire fuori. Nel locale c'è troppo casino. Forse vuole parlare.
Ci facciamo spazio tra la calca di gente e ci sediamo su una panchina di pietra poco distante dal bar. Restiamo in silenzio per un minuto.
— Vuoi dirmi qualcosa? — chiedo.
— Paula… — risponde con tono freddo.
— Paula?
Mi guarda negli occhi. — Te la scopi?
Non sono sorpreso dalla domanda. Anzi, a dire il vero me lo aspettavo. — No.
— Bugiardo. Te la sei scopata, non è vero?
— E tu ti sei scopato di nuovo il tuo ex?
— Non stiamo parlando di me.
— Allora nemmeno di me.
Sbuffa irritata. — Rispondi. Te la sei scopata?
— Rispondi prima tu.
Il suo sguardo si fa incredulo. — Ora ti metti a fare il bambino?
— E tu la gelosa.
— Non lo sei anche tu?
— No.
Fa una smorfia sarcastica. — Lo so che ti sei ingelosito quando mi hai vista sul terrazzo. Non mentirmi.
Alzo gli occhi al cielo notturno coperto dalle nuvole. — Ammesso che abbia scopato con Paula, non hai motivo di essere gelosa o altro. Non stiamo insieme.
— Quindi te la sei fatta?
— Una volta.
Mi fissa per un momento, i suoi occhi mi trafiggono da parte a parte. — Ti avevo avvisato di non scoparti le mie dipendenti!
Sposto lo sguardo su di lei. — Quindi? Che vuoi fare? Licenziarmi per poi farmi tornare quando avrai sbollito l'incazzatura? Anzi, la gelosia?
Gli occhi di Ilaria si iniettano di sangue. Non risponde.
— Se tu ti scopi il tuo ex, va bene. Se io invece…
Mi tira uno schiaffo in faccia. Il colpo è così forte che smorza per un attimo il chiacchiericcio della gente lungo il marciapiede.
La guardo male per un momento. Mi alzo e mi incammino verso la mia auto. Quando ci arrivo, scorgo il riflesso di Ilaria alle mie spalle. Mi volto. Lei mi spinge contro la portiera e mi bacia.
La spingo via. — Sei una cazzo di psicopatica.
— Sei tu che mi fai diventare così. Mi fai incazzare.
— Prima mi tiri uno schiaffo e poi mi baci. Ti sembra normale?
— Perché tu continui a infilare l’uccello dappertutto!
Sbuffo seccato. — Non voglio litigare. Buonanotte. — Mi volto e salgo a bordo.
Lei fa il giro e sale dalla parte opposta. — Andiamo a mangiare.
— Scendi.
— Andiamo a mangiare.
— Non ho fame. Scendi.
— Io sì, quindi andiamo.
— Ti ho detto di scendere, Cristo Santo!
Sbarra gli occhi colpita dalla mia imprecazione. Sa che quando bestemmio, cosa che accade molto raramente, è perché sono incazzato nero. Apre la portiera, scende e la sbatte con violenza.
Vado via.
L’indomani è sabato. Vado a fare un po' di spesa al centro commerciale. C'è molta gente. Famiglie, coppie. Quasi tutti camminano mano nella mano. Solo adesso mi accorgo di non averlo mai fatto. Non ho mai passeggiato con una donna mano nella mano. Non ho mai vissuto la vita di coppia. Mando tutto a puttane prima o mi ci mandano loro a fare in culo.
Passo lungo le vetrine dei negozi di abbigliamento. Ci sono i saldi del quaranta per cento. Non male. Una coppia di ragazzina discute sul prezzo. Lei vuole la giacca e il pantalone. Trentadue euro il primo, sedici il secondo. Non hanno nemmeno diciassette anni. Dove prenderà i soldi?
Il ragazzo è a disagio. Lei continua a parlare, a dire quanto siano belli. È palese che vuole che lui glieli compri, ma non ha soldi. Alla fine la ragazza monta il broncio e lo pianta lì. Dev’essere parecchio viziata, oppure non gliene frega niente di lui. Il ragazzo le va dietro del tutto depresso.
Entro nel negozio e mi guardo intorno.
Una commessa spunta dal nulla alle mie spalle. — Le serve una mano?
— No, sto solo guardando.
Annuisce con un sorriso di cortesia. Perlomeno non è finto. — Va bene. Se le serve qualcosa, mi faccia sapere.
È una bella donna, ma ha l'età della mia ex assistente. Osservo un paio di pantaloni e alcune camicie. Ogni volta che controllo il prezzo è come un pugno allo stomaco. Costano troppo. I saldi al quaranta percento sono una fregatura. Se già costano così tanto, quanto costano normalmente?
Esco dal negozio e scorgo in lontananza mio cugino con la sua ragazza mano nella mano. Anzi, finta ragazza. Lei mi saluta con un sorriso da lontano. Ricambio. Mio cugino non mi vede.
Continuo a camminare. Mi dispiace per lei. Deve continuare a fingere di stare con lui per aiutarlo a mantenere il segreto che lui è gay.
Compro una coca cola e un panino con l’hamburger dal McDonald e mi siedo a uno dei tavolini liberi. Strilli, risate, chiacchiere. Tutto questo mi fa sentire un po' solo e non so perché. I bambini fanno un casino assurdo. Senza contare quelli che piangono e gridano.
Do un morso al panico e guardo in direzione in cui ho visto la ragazza di mio cugino. Si sono fermati a parlare con due uomini. Sono palesemente gay. Mio cugino sembra parecchio a suo agio. Ride spesso e continua a parlare senza freno. Lei sembra annoiata, ma sorride.
Sposto lo sguardo verso un addetto alle pulizie che sta pulendo il pavimento sporco di coca cola. Forse opera di un bambino. Nemmeno a dirlo, che uno di loro scivola a terra mentre sta correndo e versa la coca cola, i cubetti di ghiaccio che scivolano tutt'attorno.
La madre gli dà uno schiaffo sul sedere e si scusa con l'addetto alle pulizie. Lui sorride in modo gentile. Non sembra forzato. Se fossi al suo posto, sarei impazzito. Immagino che sia abituato.
Strappo un altro morso al panino e mi volto verso mio cugino. Sussulto, il panino quasi mi cade dalla mano. Si sono appena fermati accanto a me.
Mio cugino mi sorride. — Ehi, anche tu qui.
La sua ragazza mi guarda con sorrisino, la mano stretta nella sua.
— Sì — rispondo. — Voi fate un giro?
— Sì, qualcosa del genere — dice mio cugino.
— Capito.
— Sei da solo?
— Sì.
— Allora ti facciamo compagnia — Guarda la sua finta ragazza. — Vado a prendere qualcosa da mangiare. Cosa vuoi?
— Il solito.
Mio cugino annuisce e si allontana verso il McDonald.
La sua ragazza si siede. Sembra imbarazzata. Perché lo è? Non dovrebbe.
Restiamo in silenzio per un momento.
Bevo un sorso di coca cola dalla cannuccia. — Hai visto qualcosa di bello? — domando per rompere il ghiaccio.
— Oh, no, nulla.
— Prima sono entrato in quel negozio laggiù. I prezzi sono alti. E meno male che ci sono i saldi.
— Gia.
Altro silenzio. Non sembra voler parlare.
Do un morso al panino. — Tutto bene con Dario?
Mi guarda. — Sì, tutto bene.
— Capito.
— Tu? Tutto bene?
— A parte il continuare a ficcarmi nei casini, sì, tutto bene.
Silenzio.
Bevo un sorso di coca cola e guardo in direzione di mio cugino. — La fila è lunga. Farebbe meglio ad andare al burger king. C'è meno gente.
— Sì — risponde piatta.
Sposto gli occhi su di lei. — Posso farti una domanda?
Annuisce.
— Sei a disagio? Qui con me, intendo.
Distoglie lo sguardo. — No.
Sta mentendo. — Va bene.
Restiamo in silenzio per un paio di minuti. Il disagio e l'imbarazzo che prova nei miei confronti si può tagliare con un coltello.
Mando giù l’ultimo pezzo del panino e mi metto a sorseggiare la coca cola mentre osservo la gente tra i tavoli o passeggiare nel centro commerciale.
— Tuo cugino lo sa — dice la sua finta ragazza quasi in un sussurro.
La guardo. — Cosa?
— Di noi.
Scatto lo sguardo turbato verso mio cugino. È ancora in fila, la testa china sul cellulare. Guardo la sua finta ragazza. — Glielo hai detto?
— Noi ci diciamo tutto, ricordi?
— Ma potevi anche non dirglielo…
— A lui sta bene.
Mi acciglio confuso. — Cosa?
— Che l’abbiamo fatto.
Ora sono ancora più confuso. — Non ti ha detto niente?
— No. Ha capito che ho le mie esigenze come ce l’ha lui.
Riguardo di nuovo mio cugino. Ha ancora gli occhi piantati sul cellulare. Solo che ora sta sorridendo. Sposto lo sguardo sulla sua finta ragazza. — Non capisco… Sono suo cugino. Dovrebbe incazzarsi con me, non fare finta di niente. Voglio dire, ok, gli sta bene che tu sfoghi i tuoi… Hai capito. Ma con suo cugino? Non preferirebbe un estraneo o un amico? Non so, qualcuno che…
— A lui sta bene — dice lei. — Se devo dirti la verità, lui è felice che io abbia qualcuno con cui farlo. Si fida di te e sa che non mi tratterai male.
— Aspetta un momento — rispondo perplesso. — Vuole che continui a farlo con me?
— È quello che sto cercando di dirti.
Abbasso lo sguardo. — Beh…
— Preferisce te a un estraneo. Sa che con te non deve preoccuparsi. E poi gli ho detto che tu sai.
Sollevo lo sguardo. — Cosa?
— Che è gay. Ha detto che sa che tu non lo dirai a nessuno.
Non so cosa dire. È tutto così strano e surreale.
— Va tutto bene — dice con un sorriso.
— Per questo siete venuti qui?
— No. Lui ti ha visto e ha detto andiamo a salutarlo.
— Dopo tutto quello che ho fatto e so?
Mi fa un altro sorriso. — Te l’ho detto, a lui sta bene.
Restiamo in silenzio per un po’.
Sono del tutto stordito. Se fossi stato al suo posto, mi sarei incazzato come una bestia. Ma credo che non abbia senso. Lui è gay. Non prova sentimenti d’amore per la sua finta ragazza, non stanno insieme. Sono solo molto amici, quindi non avrebbe senso.
— L’altra sera ti ho detto che ero confusa — dice lei mentre fa vagare lo sguardo nel centro commerciale. — Beh, ora non lo sono più. Voglio dire, mi piacerebbe avere questa relazione tra me e te, se ti va bene? Nulla di serio. Solo… sesso.
— Non hai paura di affezionarti a me?
Mi guarda. — Non lo so. Non credo che succederà.
— L'altra sera ne eri molto sicura.
— L'altra sera… — Si zittisce per un attimo. — Noi… Io e te… Non potrà mai funzionare. Ricordi cosa ti ho detto? Mi piace un altro. E a te piace… — Lancia un’occhiata verso mio cugino ancora in fila. — A te piace Sarah. Entrambi abbiamo qualcuno che ci piace. Per questo non succederà. Non mi affezionerò a te.
Bevo l’ultima goccia di coca cola. — Quindi vuoi solo…
— Sì, ma se a te sta bene, però.
Guardo in direzione di mio cugino. — Perché non ci provi con il tipo che ti piace?
— È complicato.
— Più di me e mia cugina?
— No, ma… Insomma, non sa nemmeno chi sono. E non so nemmeno se gli piacerò.
— Dovresti provare e vedere come va.
— E se va male? — domanda tesa.
— Beh, ci avrai provato.
— A me piace molto.
— Ma non lo conosci, giusto? Non pensi che potrebbe non piacerti se lo conosci?
Mi fissa perplessa per un momento. Forse non ha mai pensato a questa variabile. — Lo vedo sempre. So come si comporta, come parla e…
— Ma non lo conosci. Non sai com’è veramente.
La finta ragazza di mio cugino si acciglia irritata. — Stai cercando di non farmelo piacere?
— No. Perché dovrei? Ti solo dicendo che potresti averlo idealizzato.
Lei fa per parlare, ma mio cugino arriva con il vassoio. Due panini hamburger e due coca-cole. Lo posa sul tavolo e si siede con un sorriso. — Di che parlate?
— Del tipo che gli piace — rispondo.
Lui guarda lei, poi me. — Ah, chi sarebbe?
— Te ne ho parlato — dice lei.
Mio cugino da un morso al panino con l'hamburger, pensieroso. — Il commesso? Quello della…
— No, quello del banco salumi.
— Ma non era il commesso?
— Non ho mai detto che era il commesso.
— Ma nemmeno il tipo del banco salumi.
— Te ne ho parlato un migliaio di volte — dice lei.
— Sapevo solo che lavorava lì — risponde lui.
La sua finta ragazza scuote la testa come a dire, “non si ricorda mai niente.” Dà un piccolo morso al panino. Non risponde.
— Se è lui, — dice mio cugino — allora è meglio se lasci perdere.
— Perché? — chiede lei turbata.
— È sposato con la commessa di Pianeta Intimo. Il negozio in fondo alla via. Hanno tre figlie. Inoltre, è bisex.
La sua ragazza lo fissa scioccata. — Bisex? Sposato?
Lui strappa l’ultimo morso al panino. — Ricordi Ferdinando Angelis? L’istruttore di fitness? Lui è gay. Beh, una volta li ho beccati in macchina nel parcheggio della palestra. Puoi immaginare cosa stavano facendo.
Lei abbassa lo sguardo. Non risponde.
— Sarà anche un buon padre da quello che so, ma è un tipo infedele. Anche sua moglie non scherza. Mi hanno detto che sono una coppia aperta, ma non ci credo. Lei è parecchio morbosa, sebbene abbia più amanti di lui. E non scherzo.
La sua finta ragazza posa il panino con un morso sul vassoio. Sta di merda.
Due bambini passano correndo accanto al nostro tavolo. Una donna grida loro di non correre. Questi la ignorano.
— Ehi — dice mio cugino mentre accarezza la mano della sua finta ragazza. — Ci sono altri uomini là fuori, non ti deprimere.
Alza lo sguardo su di lui. — Sto bene.
Non immaginavo che ci tenesse così tanto. Dopotutto, nemmeno lo conosceva. Come si può star male per una persona che non conosci? Forse lo ha davvero idealizzato e proiettato fantasie inverosimili.
Il cellulare di mio cugino squilla. Lo prende dal tavolino e se lo porta all’orecchio. — Pronto? Al centro commerciale, perché? Davvero? È fantastico… Adesso? Va bene, arrivo. Aspetta lì — Guarda la sua finta ragazza. — Devo andare.
— Il tuo amico? — domanda lei.
— Giulio — risponde esaltato, il sorriso a trentadue denti. — È in città.
— Ma non era in Sardegna?
— Rimarrà qui per un paio di giorni.
— Capisco.
— Scusa, io…
— Lo so. Vai pure.
— Ti lascio la macchina?
— Non preoccuparti. Torno con la metro.
Mio cugino scuote la testa e sposta lo sguardo su di me. — L’accompagni tu?
— Va bene.
— Grazie. — Guarda la sua finta ragazza, la saluta con un sorriso e una mano sulla spalla e va via con la coca cola in mano.
Lo guardo sparire tra la folla. È così strano. Si fida tanto di me da essere stesso? Le altre volte non è mai stato così. Mi sembra uno sconosciuto, un'altra persona.
La sua finta ragazza mi guarda. — Lo vuoi tu?
— Cosa?
— Il mio panino.
— Ah, sì. Ho ancora fame.
Lei inizia a bere la coca cola dalla cannuccia. — Alla fine avevi ragione. L’ho idealizzato.
— Capita.
— Anche a te?
— Di continuo. L’unica differenza è che incasino tutto fin dall’inizio.
— Cioè?
Do un morso al suo panino. — Le mie relazioni sono sempre incasinate. Prendi mia cugina, con lei non c'è speranza. Eppure ho insistito e insisto tutt'ora. Ma come dice tua nonna, non si può scegliere chi amare.
Annuisce mentre mi fissa, la cannuccia in bocca. Risucchia. — Già…
Rimaniamo in silenzio per un po', la gente che cammina e parla seduta ai tavoli tutt’attorno.
Finisco di mangiare il panino e mi guardo in giro. Lei mi sta fissando. Ci sposto lo sguardo. — Che c'è?
Solleva le spalle, la cannuccia in bocca. — Niente.
— Vuoi…
— Sì — risponde veloce.
Sorrido. — Non ho nemmeno finito la frase.
— Ma ho capito.
— Sì? Magari stavo dicendo tutt'altro.
— Non credo.
— Quindi…
Posa la coca cola vuota nel vassoio. — Andiamo?
— Andiamo.
Usciamo dal centro commerciale affollato e saliamo nella mia macchina. Lei accende la radio mentre ingrano la prima.
— Da me? — chiedo.
Annuisce.
In radio passano un pezzo dei Coldplay.
Poco dopo arriviamo nel mio appartamento. Non ci siamo parlati per tutto il tempo, ma l’aria era pregna di sesso.
Lei si guarda intorno. — Carino. Un po' spartano, ma carino.
— Vuoi qualcosa?
— Abbiamo appena mangiato.
— Già, giusto.
Entra in bagno e comincia spogliarsi. Osservo le sue tette e il suo sedere. Il mio pene scatta sull’attenti. Lei mi fa segno di avvicinarmi con la mano.
La raggiungo e mi svesto. Mi prende in mano il mio pene e inizia a segarmi mentre mi sorride. Massaggio il suo clitoride con il palmo della mano e infilo due dita nella sua vagina. Ansima e si stringe a me, i seni pressati sul mio petto. Il suo respiro sfiora il mio collo, le sue labbra lo accarezzano. Ha un buon odore. Troppo. Da donna.
Le vengo sulla mano e sulla pancia. La finta ragazza di mio cugino abbassa lo sguardo sullo sperma, poi guarda me. — Sei stato veloce.
Le annuso il collo, lo bacio. Lei gira la manovella della doccia e si sciacqua la mano mentre il mio pene preme contro il suo inguine. Le alzo una gamba e faccio scivolare il mio pene dentro di lei mentre la guardo meglio occhi. È bagnata fradicia. Inizio a sbattere i fianchi, il rumore acquoso e appiccicoso dei suoi fluidi accompagnano quello dell’acqua.
Le sue braccia si stringono attorno alle mie spalle, il suo respiro mi accarezza l’orecchio. I suoi gemiti e il suo odore mi stanno facendo impazzire.
Il suo corpo inizia a tremare, le gambe cedono e si aggrappa a me. Aumento l'intensità dei colpi. Poi tiro fuori il pene e le vengo di nuovo sulla pancia.
Lei mi bacia con la lingua tutta eccitata, il viso rilassato, soddisfatto.
Sposto il viso. — Aspetta, è meglio di no.
— Sì, scusa... mi sono lasciata andare.
— Non è che non mi piaccia, ma…
— Sì, lo so. Non preoccuparti.
— I baci sono più intimi del sesso — dico.
Annuisce mentre lava via il mio sperma dalla sua pancia. Poi ci facciamo una doccia insieme mentre ci struscio il pene ancora duro contro la linea del suo sedere. Lei mi palpa i genitali. Io calo una mano sul suo seno e l’altra sul suo clitoride, medio e anulare nella vagina. Il suo corpo si irrigidisce quasi subito per l’orgasmo. Le vengo sul fondoschiena e glielo lavo.
Dopo la doccia, ci sediamo sul divano in soggiorno e guardiamo un po' di TV. È calato un brutto silenzio. Lo trovo assai scomodo e pesante. Il sesso ha rotto qualcosa.
— Questo film l'avrò visto tre volte — dico per rompere il ghiaccio.
— Mmmh — risponde, gli occhi fissi sul televisore a schermo piatto.
— Tutto bene?
— Sì.
— Vuoi che ti accompagni?
Guarda lo schermo del cellulare. — Non ancora.
Cala di nuovo il silenzio per un momento, i suoni della TV in sottofondo, il sole pomeridiano che filtra dalla finestra.
— Stasera cosa fai? — chiedo.
— Netflix e pizza. Tu?
— Non lo so. Credo di fare un salto al bar dai miei amici. Anche se lo faccio ogni sera.
Altro silenzio.
— Hai fame o sete? — domando.
— No, sto bene così.
Che altro le posso dire? Sembra che stia parlando con un muro. Non mi guarda nemmeno in faccia.
Faccio passare il tempo senza dire niente. Alla finta ragazza di mio cugino non sembra dare fastidio. Anzi, ho la sensazione che sia persa nei suoi pensieri. Ha lo sguardo sulla TV, ma anche in un altro luogo a me sconosciuto.
— Vuoi un gelato? — domando.
Scuote la testa.
Mi alzo, prendo due cornetti gelato dal frigo in cucina e torno indietro. Il divano è vuoto. La porta-finestra del balcone è aperta, le tende svolazzano nel vento.
Esco fuori.
Lei osserva la città sottostante appoggiata coi gomiti alla balaustra.
Mi metto accanto e le allungo un cornetto. — Tieni.
Lei lo guarda per un momento, lo prende. Non lo scarta.
Scarto il mio e lecco il gelato. — A cosa stai pensando?
— A niente.
— Ti sei pentita?
— Di cosa?
— Di essere venuta qui.
Mi lancia uno sguardo fugace. — No.
— Se non lo mangi, si scioglie.
Scarta il cornetto e inizia a leccare. — Forse torno dai miei.
Non rispondo.
— Ho bisogno di staccare — continua. — La vita di città… Non so, dopo un po' diventa pesante.
— Di dove sei?
Mi guarda per un attimo. — Dario mi ha mandato un messaggio.
Non parlo.
— Andrà con Giulio in Sardegna. Un paio di giorni.
— Non ti ha chiesto di andare con lui?
— Perché dovrebbe? Non sono la sua vera fidanzata, lo sai.
— Ma sei la sua amica. La sua migliore amica.
— Non ci sarei andata, comunque — dice. — Non mi va di fare il terzo incomodo. Dario vuole passare il tempo con lui. Da solo.
— Se ti senti sola, puoi uscire con me stasera. Ti presento ai miei amici. Sono degli idioti, ma sono bravi ragazzi. Ci sono anche delle ragazze.
Mi guarda con un lieve sorriso. — No, ma grazie.
— Alcuni di loro sono single, magari…
Posa una mano sul mio polso per farmi tacere.
Mastico l’ultimo pezzo di cornetto e lo mando giù. — Se usciamo solo io e te?
— Sembrerebbe un appuntamento. Meglio di no.
— Ti porto al mangiare il kebab? Ti piace? Niente ristorante. Solo un’uscita come normali amici.
— Sto bene così.
Rimaniamo in silenzio per un po', le auto che sfrecciano lungo la strada. Un camion di pompieri. Un'ambulanza. Altre auto.
— Sento, io… — dico.
— Lo so.
— Cosa?
— Stai cercando di tirarmi su. Ma non serve.
— Stai male per il tipo che ti piace, oppure…
— Non voglio parlarne.
— Se è colpa mia…
Sposta lo sguardo serio su di me. — Non è colpa tua. Anzi, mi stai facendo compagnia e ti ringrazio. È solo che… — Fa un lungo sospiro. — La mia vita non sta andando come speravo. Il mio lavoro e… — Si zittisce. — Scusa, non voglio deprimerti e non mi piace lamentarmi. Lo trovo inutile.
— Non è una lamentela — rispondo. — Ti stai solo sfogando. È diverso.
Mangia l’ultimo pezzo di cornetto e guarda lo schermo del cellulare. — Ora devo andare.
— Ti accompagno. Prendo le chiavi.
— Non serve. Prendo la metro.
— Ti accompagno — dico. Vado nel soggiorno, prendo le chiavi da sopra il comodino e mi volto a guardarla. — Andiamo.
Venti minuti dopo arriviamo davanti alla casa di mio cugino. A fianco abitano i miei zii. Per tutto il tragitto non ci siamo parlati. Anche perché non avevamo niente da dirci.
— Grazie per oggi — dice la finta ragazza di mio cugino.
— Se cambi idea, chiamami. Puoi farlo anche negli altri giorni, eb.
Mi sorride, scende dall’auto ed entra in casa, senza guardarsi indietro.
Osservo la porta chiudersi alle sue spalle. Non capisco se sia depressa o abbia un carattere melanconico. Sono sicuro che lo vuole quel kebab stasera e che mi abbia detto di no per non disturbarmi. Oppure sono io che ci sto vedendo tutto ciò? Magari le va bene vederci solo per farlo. Alla fine, ho parlato solo io dopo il sesso. Certo, stava quasi per confidarsi con me, ma non l’ha fatto.
Scuoto la testa, ci sto pensando troppo. Non va bene.
Mi fermo. — Che ci fai qui?
— Volevo salutarti, prima di partire.
— Potevi mandarmi un messaggio o farmi una chiamata.
— Volevo farlo di persona.
Non rispondo.
— Quindi sai già che partirò? — domanda fredda.
— Tua madre è venuta nel mio ufficio. Mi ha detto che andrai negli Stati Uniti.
— Capisco.
— Beh, se non vuoi dirmi altro…
Serra gli occhi minacciosa. — Non mi chiedi scusa?
— Per cosa.
— Per lo schiaffo.
— Ah, beh… Ma non te l’ho dato.
— Ma stavi per darmelo!
— Abbassa la voce.
Si guarda intorno, lo sguardo da psicopatica. — Che c'è?! Hai paura che qualcuno possa sentirci?! Qui mi conoscono tutti, ormai.
Già, come dimenticare. Ha finto di piangere per attirare l’attenzione della vicina. Per non parlare del bordello che ne è seguito dopo. Si è presentata pure sua madre. — Volevo solo salutarmi, no? Quindi fai buon viaggio.
— Buon viaggio un corno! — urla stizzita. — Non ti è mai importato niente di me. Mi hai solo usata!
Alcune persone si affacciano dai balconi e dalle finestre. Diversi passanti si fermano a guardare. Le auto rallentano.
— Ok, andiamo su — dico arrabbiato. — Stai dando spettacolo, come al solito.
La mia ex assistente mi fissa quasi compiaciuta. Forse mi ha manipolato. Si è messa a gridare così che la portassi nel mio appartamento. E ha funzionato.
Saliamo su. Lei si stende sul divano con un braccio sulla fronte come se fosse improvvisamente esausta.
— Non era solo sesso? — chiedo mentre apro la porta-finestra del balcone per far arieggiare la stanza. — Non hai detto questa l'altra volta? Quindi perché continui a fare tutto questo casino?
— Perché ti amo — dice piano.
— Ami l’idea che ti sei fatta di me.
— Non ti ho mai idealizzato. Non dire cose senza senso. So benissimo che sei uno stronzo.
Mi siedo sulla poltrona e accendo la tv. Stanno dando un film di fantascienza. — Senti, tutta questa situazione è…
Scoppia a piangere.
Volto la testa verso di lei. — Dovresti andare. Non ti fa bene stare vicino a me, lo sai.
— Voglio restare qui.
— E il tuo viaggio?
Si gira sul fianco dandomi la schiena, le spalle che sussultano. — Non m’importa.
— Dovresti farlo. Viaggiare… Ti aiuterà conoscerà nuovi posti e nuove persone.
— Sto solo fuggendo.
— Tutti fuggiamo da qualcosa.
Gira la testa verso di me, gli occhi rossi dal pianto. — Tu da cosa fuggi?
— Da me stesso.
Fa una smorfia. — Che frase fatta e… stupida. Troppo stupida e scontata.
— Ma è così. Sai come sono fatto, mi infilo nei casini e ci rimango impantanato come uno stronzo.
La mia ex assistente si mette seduta sul divano, si asciuga il viso con la manica della maglietta. — Già, sei uno stronzo. Il più grande stronzo che abbia mai conosciuto, eppure… ti amo.
Poso la testa sullo schienale della poltrona. Sospiro. — Fai quel viaggio.
— Più cerchi di mandarmi via, più voglio restare qui.
— Lo sai che non provo le stesse cose che provi tu. Perché ti ostini a farti del male?
— Perché ti amo.
Cala il silenzio per un momento.
Un altro sospiro. — Mi dispiace.
— Per cosa?
— Per tutto quanto. Per aver fatto l’amore con te, per averti quasi schiaffeggiata e…
Scatta in piedi e si lancia su di me. Mi abbraccia con forza. Mi stringe così forte che mi sta strittolando. — Io ti amo.
— Io no.
Mi stringe ancora di più finché inizia a baciarmi il viso e il collo. — Ti voglio…
La allontano da me. Lei rafforza la presa e torna a baciarmi in modo affettuoso, morboso.
Mi alzo in piedi con lei in braccio e la getto sul divano. — Vattene.
La mia ex assistente scatta in piedi.
La spingo di nuovo sul divano. — Basta!
Lei mi fissa torva, gli occhi lucidi e arrossati. — Un'ultima volta, poi sparisco. Solo un'ultima volta.
In TV passa la pubblicità di un medicinale per il mal di testa.
Vado alla porta e la apro. Guardo la mia ex assistente, senza dire nulla.
Lei incrocia le braccia sui seni e si mette comoda sul divano, gli occhi puntati sulla TV.
Sospiro frustrato. — Vuoi che chiami tua madre?
Si raddrizza di colpo, lo sguardo teso su di me. — Non lo farai.
Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni, trovo Caterina Savona nella rubrica e le mostro lo schermo.
La mia ex assistente si alza in piedi e si dirige verso di me in tutta fretta, il viso irato. Allunga una mano per strapparmi il cellulare, ma tiro la mano indietro. I suoi occhi sono un crogiolo di violenza.
— Fai buon viaggio — dico.
— Tanto non la chiami — risponde acida in tono di sfida.
Pigio sul tasto verde della chiamata sul cellulare. Squilla due volte.
La mia ex assistente sbarra gli occhi e mi guarda di traverso. — Sei un bastardo figlio di puttana!
— Lo so.
Esce dal mio appartamento e si avvia lungo il corridoio, i passi che risuonano lungo le pareti.
— Lo sto facendo per te — dico.
Non risponde.
Lo sto facendo davvero per lei. Un giorno lo capirà.
Verso le dieci sono al solito bar. La musica house progressive risuona tra la folla. I miei amici sono tutti ubriachi, tranne me. Non ho toccato niente. Non sono in vena.
Penso alla mia ex assistente. Un po' mi dispiace, l’ho tratta male. Ma non avevo altra scelta. Era l'unico modo per farla andare via.
Ilaria si siede accanto a me. Non saluta nessuno. I nostri amici nemmeno si accorgono che è appena arrivata.
Le lancio un’occhiata di sfuggita e volto la testa dall'altra parte. Osservo una donna simile a mia cugina mentre balla sul posto con un tizio accanto ai tavoli. Per come balla e dalla sua espressione facciale penso si sia calata qualcosa. Anche il ragazzo sembra nelle stesse condizioni.
Ilaria mi tocca il braccio. Sposto lo sguardo su di lei. Mi fa cenno con la mano di uscire fuori. Nel locale c'è troppo casino. Forse vuole parlare.
Ci facciamo spazio tra la calca di gente e ci sediamo su una panchina di pietra poco distante dal bar. Restiamo in silenzio per un minuto.
— Vuoi dirmi qualcosa? — chiedo.
— Paula… — risponde con tono freddo.
— Paula?
Mi guarda negli occhi. — Te la scopi?
Non sono sorpreso dalla domanda. Anzi, a dire il vero me lo aspettavo. — No.
— Bugiardo. Te la sei scopata, non è vero?
— E tu ti sei scopato di nuovo il tuo ex?
— Non stiamo parlando di me.
— Allora nemmeno di me.
Sbuffa irritata. — Rispondi. Te la sei scopata?
— Rispondi prima tu.
Il suo sguardo si fa incredulo. — Ora ti metti a fare il bambino?
— E tu la gelosa.
— Non lo sei anche tu?
— No.
Fa una smorfia sarcastica. — Lo so che ti sei ingelosito quando mi hai vista sul terrazzo. Non mentirmi.
Alzo gli occhi al cielo notturno coperto dalle nuvole. — Ammesso che abbia scopato con Paula, non hai motivo di essere gelosa o altro. Non stiamo insieme.
— Quindi te la sei fatta?
— Una volta.
Mi fissa per un momento, i suoi occhi mi trafiggono da parte a parte. — Ti avevo avvisato di non scoparti le mie dipendenti!
Sposto lo sguardo su di lei. — Quindi? Che vuoi fare? Licenziarmi per poi farmi tornare quando avrai sbollito l'incazzatura? Anzi, la gelosia?
Gli occhi di Ilaria si iniettano di sangue. Non risponde.
— Se tu ti scopi il tuo ex, va bene. Se io invece…
Mi tira uno schiaffo in faccia. Il colpo è così forte che smorza per un attimo il chiacchiericcio della gente lungo il marciapiede.
La guardo male per un momento. Mi alzo e mi incammino verso la mia auto. Quando ci arrivo, scorgo il riflesso di Ilaria alle mie spalle. Mi volto. Lei mi spinge contro la portiera e mi bacia.
La spingo via. — Sei una cazzo di psicopatica.
— Sei tu che mi fai diventare così. Mi fai incazzare.
— Prima mi tiri uno schiaffo e poi mi baci. Ti sembra normale?
— Perché tu continui a infilare l’uccello dappertutto!
Sbuffo seccato. — Non voglio litigare. Buonanotte. — Mi volto e salgo a bordo.
Lei fa il giro e sale dalla parte opposta. — Andiamo a mangiare.
— Scendi.
— Andiamo a mangiare.
— Non ho fame. Scendi.
— Io sì, quindi andiamo.
— Ti ho detto di scendere, Cristo Santo!
Sbarra gli occhi colpita dalla mia imprecazione. Sa che quando bestemmio, cosa che accade molto raramente, è perché sono incazzato nero. Apre la portiera, scende e la sbatte con violenza.
Vado via.
L’indomani è sabato. Vado a fare un po' di spesa al centro commerciale. C'è molta gente. Famiglie, coppie. Quasi tutti camminano mano nella mano. Solo adesso mi accorgo di non averlo mai fatto. Non ho mai passeggiato con una donna mano nella mano. Non ho mai vissuto la vita di coppia. Mando tutto a puttane prima o mi ci mandano loro a fare in culo.
Passo lungo le vetrine dei negozi di abbigliamento. Ci sono i saldi del quaranta per cento. Non male. Una coppia di ragazzina discute sul prezzo. Lei vuole la giacca e il pantalone. Trentadue euro il primo, sedici il secondo. Non hanno nemmeno diciassette anni. Dove prenderà i soldi?
Il ragazzo è a disagio. Lei continua a parlare, a dire quanto siano belli. È palese che vuole che lui glieli compri, ma non ha soldi. Alla fine la ragazza monta il broncio e lo pianta lì. Dev’essere parecchio viziata, oppure non gliene frega niente di lui. Il ragazzo le va dietro del tutto depresso.
Entro nel negozio e mi guardo intorno.
Una commessa spunta dal nulla alle mie spalle. — Le serve una mano?
— No, sto solo guardando.
Annuisce con un sorriso di cortesia. Perlomeno non è finto. — Va bene. Se le serve qualcosa, mi faccia sapere.
È una bella donna, ma ha l'età della mia ex assistente. Osservo un paio di pantaloni e alcune camicie. Ogni volta che controllo il prezzo è come un pugno allo stomaco. Costano troppo. I saldi al quaranta percento sono una fregatura. Se già costano così tanto, quanto costano normalmente?
Esco dal negozio e scorgo in lontananza mio cugino con la sua ragazza mano nella mano. Anzi, finta ragazza. Lei mi saluta con un sorriso da lontano. Ricambio. Mio cugino non mi vede.
Continuo a camminare. Mi dispiace per lei. Deve continuare a fingere di stare con lui per aiutarlo a mantenere il segreto che lui è gay.
Compro una coca cola e un panino con l’hamburger dal McDonald e mi siedo a uno dei tavolini liberi. Strilli, risate, chiacchiere. Tutto questo mi fa sentire un po' solo e non so perché. I bambini fanno un casino assurdo. Senza contare quelli che piangono e gridano.
Do un morso al panico e guardo in direzione in cui ho visto la ragazza di mio cugino. Si sono fermati a parlare con due uomini. Sono palesemente gay. Mio cugino sembra parecchio a suo agio. Ride spesso e continua a parlare senza freno. Lei sembra annoiata, ma sorride.
Sposto lo sguardo verso un addetto alle pulizie che sta pulendo il pavimento sporco di coca cola. Forse opera di un bambino. Nemmeno a dirlo, che uno di loro scivola a terra mentre sta correndo e versa la coca cola, i cubetti di ghiaccio che scivolano tutt'attorno.
La madre gli dà uno schiaffo sul sedere e si scusa con l'addetto alle pulizie. Lui sorride in modo gentile. Non sembra forzato. Se fossi al suo posto, sarei impazzito. Immagino che sia abituato.
Strappo un altro morso al panino e mi volto verso mio cugino. Sussulto, il panino quasi mi cade dalla mano. Si sono appena fermati accanto a me.
Mio cugino mi sorride. — Ehi, anche tu qui.
La sua ragazza mi guarda con sorrisino, la mano stretta nella sua.
— Sì — rispondo. — Voi fate un giro?
— Sì, qualcosa del genere — dice mio cugino.
— Capito.
— Sei da solo?
— Sì.
— Allora ti facciamo compagnia — Guarda la sua finta ragazza. — Vado a prendere qualcosa da mangiare. Cosa vuoi?
— Il solito.
Mio cugino annuisce e si allontana verso il McDonald.
La sua ragazza si siede. Sembra imbarazzata. Perché lo è? Non dovrebbe.
Restiamo in silenzio per un momento.
Bevo un sorso di coca cola dalla cannuccia. — Hai visto qualcosa di bello? — domando per rompere il ghiaccio.
— Oh, no, nulla.
— Prima sono entrato in quel negozio laggiù. I prezzi sono alti. E meno male che ci sono i saldi.
— Gia.
Altro silenzio. Non sembra voler parlare.
Do un morso al panino. — Tutto bene con Dario?
Mi guarda. — Sì, tutto bene.
— Capito.
— Tu? Tutto bene?
— A parte il continuare a ficcarmi nei casini, sì, tutto bene.
Silenzio.
Bevo un sorso di coca cola e guardo in direzione di mio cugino. — La fila è lunga. Farebbe meglio ad andare al burger king. C'è meno gente.
— Sì — risponde piatta.
Sposto gli occhi su di lei. — Posso farti una domanda?
Annuisce.
— Sei a disagio? Qui con me, intendo.
Distoglie lo sguardo. — No.
Sta mentendo. — Va bene.
Restiamo in silenzio per un paio di minuti. Il disagio e l'imbarazzo che prova nei miei confronti si può tagliare con un coltello.
Mando giù l’ultimo pezzo del panino e mi metto a sorseggiare la coca cola mentre osservo la gente tra i tavoli o passeggiare nel centro commerciale.
— Tuo cugino lo sa — dice la sua finta ragazza quasi in un sussurro.
La guardo. — Cosa?
— Di noi.
Scatto lo sguardo turbato verso mio cugino. È ancora in fila, la testa china sul cellulare. Guardo la sua finta ragazza. — Glielo hai detto?
— Noi ci diciamo tutto, ricordi?
— Ma potevi anche non dirglielo…
— A lui sta bene.
Mi acciglio confuso. — Cosa?
— Che l’abbiamo fatto.
Ora sono ancora più confuso. — Non ti ha detto niente?
— No. Ha capito che ho le mie esigenze come ce l’ha lui.
Riguardo di nuovo mio cugino. Ha ancora gli occhi piantati sul cellulare. Solo che ora sta sorridendo. Sposto lo sguardo sulla sua finta ragazza. — Non capisco… Sono suo cugino. Dovrebbe incazzarsi con me, non fare finta di niente. Voglio dire, ok, gli sta bene che tu sfoghi i tuoi… Hai capito. Ma con suo cugino? Non preferirebbe un estraneo o un amico? Non so, qualcuno che…
— A lui sta bene — dice lei. — Se devo dirti la verità, lui è felice che io abbia qualcuno con cui farlo. Si fida di te e sa che non mi tratterai male.
— Aspetta un momento — rispondo perplesso. — Vuole che continui a farlo con me?
— È quello che sto cercando di dirti.
Abbasso lo sguardo. — Beh…
— Preferisce te a un estraneo. Sa che con te non deve preoccuparsi. E poi gli ho detto che tu sai.
Sollevo lo sguardo. — Cosa?
— Che è gay. Ha detto che sa che tu non lo dirai a nessuno.
Non so cosa dire. È tutto così strano e surreale.
— Va tutto bene — dice con un sorriso.
— Per questo siete venuti qui?
— No. Lui ti ha visto e ha detto andiamo a salutarlo.
— Dopo tutto quello che ho fatto e so?
Mi fa un altro sorriso. — Te l’ho detto, a lui sta bene.
Restiamo in silenzio per un po’.
Sono del tutto stordito. Se fossi stato al suo posto, mi sarei incazzato come una bestia. Ma credo che non abbia senso. Lui è gay. Non prova sentimenti d’amore per la sua finta ragazza, non stanno insieme. Sono solo molto amici, quindi non avrebbe senso.
— L’altra sera ti ho detto che ero confusa — dice lei mentre fa vagare lo sguardo nel centro commerciale. — Beh, ora non lo sono più. Voglio dire, mi piacerebbe avere questa relazione tra me e te, se ti va bene? Nulla di serio. Solo… sesso.
— Non hai paura di affezionarti a me?
Mi guarda. — Non lo so. Non credo che succederà.
— L'altra sera ne eri molto sicura.
— L'altra sera… — Si zittisce per un attimo. — Noi… Io e te… Non potrà mai funzionare. Ricordi cosa ti ho detto? Mi piace un altro. E a te piace… — Lancia un’occhiata verso mio cugino ancora in fila. — A te piace Sarah. Entrambi abbiamo qualcuno che ci piace. Per questo non succederà. Non mi affezionerò a te.
Bevo l’ultima goccia di coca cola. — Quindi vuoi solo…
— Sì, ma se a te sta bene, però.
Guardo in direzione di mio cugino. — Perché non ci provi con il tipo che ti piace?
— È complicato.
— Più di me e mia cugina?
— No, ma… Insomma, non sa nemmeno chi sono. E non so nemmeno se gli piacerò.
— Dovresti provare e vedere come va.
— E se va male? — domanda tesa.
— Beh, ci avrai provato.
— A me piace molto.
— Ma non lo conosci, giusto? Non pensi che potrebbe non piacerti se lo conosci?
Mi fissa perplessa per un momento. Forse non ha mai pensato a questa variabile. — Lo vedo sempre. So come si comporta, come parla e…
— Ma non lo conosci. Non sai com’è veramente.
La finta ragazza di mio cugino si acciglia irritata. — Stai cercando di non farmelo piacere?
— No. Perché dovrei? Ti solo dicendo che potresti averlo idealizzato.
Lei fa per parlare, ma mio cugino arriva con il vassoio. Due panini hamburger e due coca-cole. Lo posa sul tavolo e si siede con un sorriso. — Di che parlate?
— Del tipo che gli piace — rispondo.
Lui guarda lei, poi me. — Ah, chi sarebbe?
— Te ne ho parlato — dice lei.
Mio cugino da un morso al panino con l'hamburger, pensieroso. — Il commesso? Quello della…
— No, quello del banco salumi.
— Ma non era il commesso?
— Non ho mai detto che era il commesso.
— Ma nemmeno il tipo del banco salumi.
— Te ne ho parlato un migliaio di volte — dice lei.
— Sapevo solo che lavorava lì — risponde lui.
La sua finta ragazza scuote la testa come a dire, “non si ricorda mai niente.” Dà un piccolo morso al panino. Non risponde.
— Se è lui, — dice mio cugino — allora è meglio se lasci perdere.
— Perché? — chiede lei turbata.
— È sposato con la commessa di Pianeta Intimo. Il negozio in fondo alla via. Hanno tre figlie. Inoltre, è bisex.
La sua ragazza lo fissa scioccata. — Bisex? Sposato?
Lui strappa l’ultimo morso al panino. — Ricordi Ferdinando Angelis? L’istruttore di fitness? Lui è gay. Beh, una volta li ho beccati in macchina nel parcheggio della palestra. Puoi immaginare cosa stavano facendo.
Lei abbassa lo sguardo. Non risponde.
— Sarà anche un buon padre da quello che so, ma è un tipo infedele. Anche sua moglie non scherza. Mi hanno detto che sono una coppia aperta, ma non ci credo. Lei è parecchio morbosa, sebbene abbia più amanti di lui. E non scherzo.
La sua finta ragazza posa il panino con un morso sul vassoio. Sta di merda.
Due bambini passano correndo accanto al nostro tavolo. Una donna grida loro di non correre. Questi la ignorano.
— Ehi — dice mio cugino mentre accarezza la mano della sua finta ragazza. — Ci sono altri uomini là fuori, non ti deprimere.
Alza lo sguardo su di lui. — Sto bene.
Non immaginavo che ci tenesse così tanto. Dopotutto, nemmeno lo conosceva. Come si può star male per una persona che non conosci? Forse lo ha davvero idealizzato e proiettato fantasie inverosimili.
Il cellulare di mio cugino squilla. Lo prende dal tavolino e se lo porta all’orecchio. — Pronto? Al centro commerciale, perché? Davvero? È fantastico… Adesso? Va bene, arrivo. Aspetta lì — Guarda la sua finta ragazza. — Devo andare.
— Il tuo amico? — domanda lei.
— Giulio — risponde esaltato, il sorriso a trentadue denti. — È in città.
— Ma non era in Sardegna?
— Rimarrà qui per un paio di giorni.
— Capisco.
— Scusa, io…
— Lo so. Vai pure.
— Ti lascio la macchina?
— Non preoccuparti. Torno con la metro.
Mio cugino scuote la testa e sposta lo sguardo su di me. — L’accompagni tu?
— Va bene.
— Grazie. — Guarda la sua finta ragazza, la saluta con un sorriso e una mano sulla spalla e va via con la coca cola in mano.
Lo guardo sparire tra la folla. È così strano. Si fida tanto di me da essere stesso? Le altre volte non è mai stato così. Mi sembra uno sconosciuto, un'altra persona.
La sua finta ragazza mi guarda. — Lo vuoi tu?
— Cosa?
— Il mio panino.
— Ah, sì. Ho ancora fame.
Lei inizia a bere la coca cola dalla cannuccia. — Alla fine avevi ragione. L’ho idealizzato.
— Capita.
— Anche a te?
— Di continuo. L’unica differenza è che incasino tutto fin dall’inizio.
— Cioè?
Do un morso al suo panino. — Le mie relazioni sono sempre incasinate. Prendi mia cugina, con lei non c'è speranza. Eppure ho insistito e insisto tutt'ora. Ma come dice tua nonna, non si può scegliere chi amare.
Annuisce mentre mi fissa, la cannuccia in bocca. Risucchia. — Già…
Rimaniamo in silenzio per un po', la gente che cammina e parla seduta ai tavoli tutt’attorno.
Finisco di mangiare il panino e mi guardo in giro. Lei mi sta fissando. Ci sposto lo sguardo. — Che c'è?
Solleva le spalle, la cannuccia in bocca. — Niente.
— Vuoi…
— Sì — risponde veloce.
Sorrido. — Non ho nemmeno finito la frase.
— Ma ho capito.
— Sì? Magari stavo dicendo tutt'altro.
— Non credo.
— Quindi…
Posa la coca cola vuota nel vassoio. — Andiamo?
— Andiamo.
Usciamo dal centro commerciale affollato e saliamo nella mia macchina. Lei accende la radio mentre ingrano la prima.
— Da me? — chiedo.
Annuisce.
In radio passano un pezzo dei Coldplay.
Poco dopo arriviamo nel mio appartamento. Non ci siamo parlati per tutto il tempo, ma l’aria era pregna di sesso.
Lei si guarda intorno. — Carino. Un po' spartano, ma carino.
— Vuoi qualcosa?
— Abbiamo appena mangiato.
— Già, giusto.
Entra in bagno e comincia spogliarsi. Osservo le sue tette e il suo sedere. Il mio pene scatta sull’attenti. Lei mi fa segno di avvicinarmi con la mano.
La raggiungo e mi svesto. Mi prende in mano il mio pene e inizia a segarmi mentre mi sorride. Massaggio il suo clitoride con il palmo della mano e infilo due dita nella sua vagina. Ansima e si stringe a me, i seni pressati sul mio petto. Il suo respiro sfiora il mio collo, le sue labbra lo accarezzano. Ha un buon odore. Troppo. Da donna.
Le vengo sulla mano e sulla pancia. La finta ragazza di mio cugino abbassa lo sguardo sullo sperma, poi guarda me. — Sei stato veloce.
Le annuso il collo, lo bacio. Lei gira la manovella della doccia e si sciacqua la mano mentre il mio pene preme contro il suo inguine. Le alzo una gamba e faccio scivolare il mio pene dentro di lei mentre la guardo meglio occhi. È bagnata fradicia. Inizio a sbattere i fianchi, il rumore acquoso e appiccicoso dei suoi fluidi accompagnano quello dell’acqua.
Le sue braccia si stringono attorno alle mie spalle, il suo respiro mi accarezza l’orecchio. I suoi gemiti e il suo odore mi stanno facendo impazzire.
Il suo corpo inizia a tremare, le gambe cedono e si aggrappa a me. Aumento l'intensità dei colpi. Poi tiro fuori il pene e le vengo di nuovo sulla pancia.
Lei mi bacia con la lingua tutta eccitata, il viso rilassato, soddisfatto.
Sposto il viso. — Aspetta, è meglio di no.
— Sì, scusa... mi sono lasciata andare.
— Non è che non mi piaccia, ma…
— Sì, lo so. Non preoccuparti.
— I baci sono più intimi del sesso — dico.
Annuisce mentre lava via il mio sperma dalla sua pancia. Poi ci facciamo una doccia insieme mentre ci struscio il pene ancora duro contro la linea del suo sedere. Lei mi palpa i genitali. Io calo una mano sul suo seno e l’altra sul suo clitoride, medio e anulare nella vagina. Il suo corpo si irrigidisce quasi subito per l’orgasmo. Le vengo sul fondoschiena e glielo lavo.
Dopo la doccia, ci sediamo sul divano in soggiorno e guardiamo un po' di TV. È calato un brutto silenzio. Lo trovo assai scomodo e pesante. Il sesso ha rotto qualcosa.
— Questo film l'avrò visto tre volte — dico per rompere il ghiaccio.
— Mmmh — risponde, gli occhi fissi sul televisore a schermo piatto.
— Tutto bene?
— Sì.
— Vuoi che ti accompagni?
Guarda lo schermo del cellulare. — Non ancora.
Cala di nuovo il silenzio per un momento, i suoni della TV in sottofondo, il sole pomeridiano che filtra dalla finestra.
— Stasera cosa fai? — chiedo.
— Netflix e pizza. Tu?
— Non lo so. Credo di fare un salto al bar dai miei amici. Anche se lo faccio ogni sera.
Altro silenzio.
— Hai fame o sete? — domando.
— No, sto bene così.
Che altro le posso dire? Sembra che stia parlando con un muro. Non mi guarda nemmeno in faccia.
Faccio passare il tempo senza dire niente. Alla finta ragazza di mio cugino non sembra dare fastidio. Anzi, ho la sensazione che sia persa nei suoi pensieri. Ha lo sguardo sulla TV, ma anche in un altro luogo a me sconosciuto.
— Vuoi un gelato? — domando.
Scuote la testa.
Mi alzo, prendo due cornetti gelato dal frigo in cucina e torno indietro. Il divano è vuoto. La porta-finestra del balcone è aperta, le tende svolazzano nel vento.
Esco fuori.
Lei osserva la città sottostante appoggiata coi gomiti alla balaustra.
Mi metto accanto e le allungo un cornetto. — Tieni.
Lei lo guarda per un momento, lo prende. Non lo scarta.
Scarto il mio e lecco il gelato. — A cosa stai pensando?
— A niente.
— Ti sei pentita?
— Di cosa?
— Di essere venuta qui.
Mi lancia uno sguardo fugace. — No.
— Se non lo mangi, si scioglie.
Scarta il cornetto e inizia a leccare. — Forse torno dai miei.
Non rispondo.
— Ho bisogno di staccare — continua. — La vita di città… Non so, dopo un po' diventa pesante.
— Di dove sei?
Mi guarda per un attimo. — Dario mi ha mandato un messaggio.
Non parlo.
— Andrà con Giulio in Sardegna. Un paio di giorni.
— Non ti ha chiesto di andare con lui?
— Perché dovrebbe? Non sono la sua vera fidanzata, lo sai.
— Ma sei la sua amica. La sua migliore amica.
— Non ci sarei andata, comunque — dice. — Non mi va di fare il terzo incomodo. Dario vuole passare il tempo con lui. Da solo.
— Se ti senti sola, puoi uscire con me stasera. Ti presento ai miei amici. Sono degli idioti, ma sono bravi ragazzi. Ci sono anche delle ragazze.
Mi guarda con un lieve sorriso. — No, ma grazie.
— Alcuni di loro sono single, magari…
Posa una mano sul mio polso per farmi tacere.
Mastico l’ultimo pezzo di cornetto e lo mando giù. — Se usciamo solo io e te?
— Sembrerebbe un appuntamento. Meglio di no.
— Ti porto al mangiare il kebab? Ti piace? Niente ristorante. Solo un’uscita come normali amici.
— Sto bene così.
Rimaniamo in silenzio per un po', le auto che sfrecciano lungo la strada. Un camion di pompieri. Un'ambulanza. Altre auto.
— Sento, io… — dico.
— Lo so.
— Cosa?
— Stai cercando di tirarmi su. Ma non serve.
— Stai male per il tipo che ti piace, oppure…
— Non voglio parlarne.
— Se è colpa mia…
Sposta lo sguardo serio su di me. — Non è colpa tua. Anzi, mi stai facendo compagnia e ti ringrazio. È solo che… — Fa un lungo sospiro. — La mia vita non sta andando come speravo. Il mio lavoro e… — Si zittisce. — Scusa, non voglio deprimerti e non mi piace lamentarmi. Lo trovo inutile.
— Non è una lamentela — rispondo. — Ti stai solo sfogando. È diverso.
Mangia l’ultimo pezzo di cornetto e guarda lo schermo del cellulare. — Ora devo andare.
— Ti accompagno. Prendo le chiavi.
— Non serve. Prendo la metro.
— Ti accompagno — dico. Vado nel soggiorno, prendo le chiavi da sopra il comodino e mi volto a guardarla. — Andiamo.
Venti minuti dopo arriviamo davanti alla casa di mio cugino. A fianco abitano i miei zii. Per tutto il tragitto non ci siamo parlati. Anche perché non avevamo niente da dirci.
— Grazie per oggi — dice la finta ragazza di mio cugino.
— Se cambi idea, chiamami. Puoi farlo anche negli altri giorni, eb.
Mi sorride, scende dall’auto ed entra in casa, senza guardarsi indietro.
Osservo la porta chiudersi alle sue spalle. Non capisco se sia depressa o abbia un carattere melanconico. Sono sicuro che lo vuole quel kebab stasera e che mi abbia detto di no per non disturbarmi. Oppure sono io che ci sto vedendo tutto ciò? Magari le va bene vederci solo per farlo. Alla fine, ho parlato solo io dopo il sesso. Certo, stava quasi per confidarsi con me, ma non l’ha fatto.
Scuoto la testa, ci sto pensando troppo. Non va bene.
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