Mia cugina: Parte 47

di
genere
incesti

Il mattino seguente mi sveglio di soprassalto, la luce del sole che invade la camera dall’ampia vetrata che dà in giardino. Mi sono addormentato. Non dovevo. Sposto gli occhi di lato. Ilaria non c'è. Dov’è andata?
Scatto in piedi, barcollo un po' per lo sbalzo di pressione mentre vedo puntini rossi ovunque. Esco dalla stanza. La trovo seduta di spalle in cucina con una tazza in mano, gli occhi fuori dalla porta a vetri scorrevole. Indossa una vestaglia da notte viola scuro, i capelli legati a chignon. Si è fatta la doccia. Profuma di balsamo e bagnoschiuma. Nell'aria, un forte odore di caffè.
— Buongiorno — dice, la voce graffiata.
Mi siedo accanto a lei. Non la guardo. — Ehi…
Si gira verso di me. — Ho fatto il caffè, se lo vuoi.
Sollevo lo sguardo e sbarro gli occhi scioccato, terrorizzato. Ha il viso gonfio, gli occhi iniettati di sangue. Puntini rossi attorno al naso e sotto gli occhi, segno dei capillari strappati. E il collo, poi, è così violaceo. Distolgo lo sguardo mentre mi si contorce lo stomaco. Ho la nausea.
— Tra un’ora vado dal medico — dice, la voce rauca.
— Scusa… — rispondo in un sussurro, gli occhi lucidi.
— Mi prenderò una settimana di congedo. Ho già parlato con mio nonno. Non ha fatto domande, come al solito.
Alzo gli occhi su di lei, ma li abbasso subito dopo investito dal senso di colpa. — Sul serio… scusami.
Scaccia l’aria con una mano. — Ma piantala.
Restiamo in silenzio per un po'. Fuori, il cinguettio degli uccelli sugli alberi. Un colpo di clacson lontano.
— È piaciuto anche a te, vero? — chiede lei.
Inizialmente sì, poi è degenerato tutto. — Non lo so.
Accenna un lieve sorriso. — Io penso di sì.
— A che ora vai dal dottore?
— Verso le nove. Perché?
— Vuoi che ti accompagni?
Mi guarda. — Sei così preoccupato per me?
— Beh, io... — balbetto — ti ho quasi uccisa, perciò...
— Ci siamo solo lasciati andare un po’... troppo. Tutto qua.
— Io mi sono lasciato andare, non tu. Non so nemmeno cosa mi sia preso...
Il suo viso si fa serio, la voce graffiata, alta. — La vuoi piantare per una buona volta!? Non è colpa tua. È stato un incidente! — Tossisce più volte.
— Ehi, non ti sforzare.
Si alza, si riempie un bicchiere d'acqua, beve. Tossisce ancora un po'. — Non devi preoccuparti per me. Sto bene.
— Ma...
— Ti ho detto che sto bene.
— Però...
Si volta verso di me, gli occhi duri. — Sai che c'è? Sei patetico quando fai così. Non mi piace per niente.
Mi acciglio turbato, confuso. — Così come?
— Quando fingi di preoccuparti per me. È evidente che se non fosse successo questo, — indica il collo violaceo con un dito — ora saresti chissà dove. Magari con Sarah o con Paula o con chissà chi. Quindi piantala di fingere! — La voce si smorza, inizia a tossire in modo violento.
Mi alzo, faccio per avvicinarmi. Lei mi tiene lontano con una mano. Mi risiedo lentamente. — Non sto fingendo. Sono davvero preoccupato per te.
Abbozza un sorrisetto vuoto, una mano sul ripiano della cucina. — Certo, preoccupato. Come ho detto, sei ancora qui solo perché mi hai quasi uccisa.
Abbasso lo sguardo sul pavimento immacolato, ci scorgo il mio riflesso. — Ok, come dici tu. Non voglio litigare.
— Non sto litigando. Sto solo esponendo un fatto.
Non rispondo. Ilaria sì sbaglia di grosso. Sono davvero preoccupato per lei. Non voglio che le succeda qualcosa. Quel gonfiore violaceo sul collo non è un buon segno. E non serve di certo un dottore per capirlo.
Beve un altro sorso di acqua, lascia il bicchiere nel lavandino e varca la porta a vetri che dà sul giardino. Mi alzo e la seguo.
Il cielo, una tela azzurra.
Lei si volta verso di me mentre cammina nel vialetto come se si stesse accertando che sia lì. Si dirige verso una panchina di legno davanti a una piccola fontanella, si siede. Mi fermo a guardarla. Lei indica il posto accanto a sé con gli occhi.
Mi siedo. — Ti accompagno.
Non risponde, lo sguardo sul getto d'acqua che sgorga dal centro della fontanella.
— Ti porto dal dottore.
— E poi? — chiede, la voce graffiata.
Già, e poi? Non lo so nemmeno io. — Poi... vedremo.
— Ah, vedrai...
Un breve silenzio, il sole che filtra tra le foglie.
Si volta di scatto a guardarmi, smorza un gemito di dolore, la mano sul collo violaceo. — “Vedrai” per te vuol dire che ti fionderai da Sarah, dopo esserti accertato che non stia morendo, giusto?
Non rispondo. Ha ragione.
Sbuffa in un sorriso amaro. — Prevedibile. Come sempre.
— Io...
— Non parlare! — urla, la voce rauca. Tossisce con violenza. Più volte. Poi si calma, fa dei respiri profondi. La voce grattata. — Vattene... Non ti voglio qui...
Non mi muovo. Non voglio.
Mi fissa malissimo. — Ti ho detto di...
— Lo sai che non ti ascolto mai. Non sprecare fiato. Ti fa male alla gola.
Mi tira un pugno sulla coscia. Leggero, debole. — E rimani, allora. Non m’interessa.
Restiamo a lungo in silenzio.
Il giardiniere esce da un piccolo capanno vicino l’uscita secondaria, saluta Ilaria con un cenno della testa e si acciglia turbato mentre sparisce dietro una fila di siepi. Sicuramente ha notato il collo violaceo e la faccia gonfia, punteggiata di capillari rotti intorno al naso e sotto gli occhi.
Lei si alza. — Vado a prepararmi.
Non rispondo.
Mi lancia uno sguardo e si incammina verso la porta a vetri.


Sto guidando. Ilaria è accanto a me, le braccia conserte, il viso imbronciato dietro gli occhi da sole. Indossa un tailleur blu scuro, sotto una camicetta bianca. Attorno al collo, un foulard dello stesso colore. La macchia violacea non si vede. Ma la faccia gonfia un po' sì.
Mi fermo dietro una fila di auto. — C’è traffico stamattina.
— Potevo andarci da sola — risponde acida.
— Vedila così, ogni ti faccio da autista.
— Oggi stai facendo solo il sottone. E non mi piace per niente.
— Pensala come vuoi. Non m’interessa.
Restiamo in silenzio per un po’.
Il traffico non accenna a muoversi. Colpi di clacson, urla. Teste che escono dal finestrino, puntano il dito, imprecano. Lungo i marciapiedi, altra gente. Si muovono veloci, indaffarati. Tutti sono di corsa.
— Vuoi andarci veramente in Grecia? — chiede Ilaria, la voce rauca, lo sguardo che vaga annoiato fuori dal finestrino.
— Conosci già la risposta.
— Non tocca a me dirtelo e non so nemmeno se lei te l’abbia detto, ma... — Si zittisce e mi guarda. Ci ripensa. — Mmmh... sembra proprio di no.
Aggrotto le sopracciglia perplesso. — A cosa ti riferisci?
— Secondo te?
— Non lo so. Dimmelo tu.
Mi fissa per un momento. Poi sposta lo sguardo fuori dal finestrino. — Non è niente.
— Beh, se non è niente, allora dimmelo.
Non risponde.
— Allora? — dico irritato.
L'auto davanti alla mia si muove. Quella dietro suona il clacson. Ripetutamente. Guardo nello specchietto retrovisore interno. L’uomo alla guida sta imprecando contro di me. Non sento le sue parole chiaramente, ma sta bestemmiando tutti i santi.
Pigio il piede sull'acceleratore e seguo la macchina davanti fino all’incrocio. Un veicolo di piccola cilindrata si è schiantato contro un palo della luce. Il palo è ancora in piedi. La parte anteriore del veicolo è irriconoscibile. Carabinieri, paramedici e pompieri tutt’attorno. Sull'ambulanza è seduta una donna anziana. Sta piangendo. Un paramedico le sta fasciando la testa con una benda. Accanto all’ambulanza, una barella coperta con un lenzuolo bianco. Un carabiniere mi fa segno con la paletta di proseguire.
Svolto a destra e proseguo lungo la strada a senso unico. — È importante?
Ilaria continua a guardare fuori dal finestrino. — Parlane con lei. Io non ti dirò niente.
— Allora non parlare, se poi non finisci le frasi.
— Infatti non lo sto facendo.
Sospiro irritato, le mani strette sul manubrio. — Se riguarda la Grecia, allora so tutto.
Non risponde.
Le lancio un'occhiataccia. Continuo a guidare.


Lascio Ilaria davanti alla clinica privata e parcheggio nel piccolo piazzale. Non so quanto tempo ci vorrà, ma non ho fretta. Guardo fuori dal finestrino. Un uomo e una donna camminano fianco a fianco, i visi rilassati, felici. Sulla soglia di un condominio, una ragazza li osserva passare. Se non fosse per i capelli biondi, l’avrei confusa per Marta. Chissà cosa sta facendo nel suo paese? Forse ha già trovato la felicità che tanto agognava.
Poggio la testa sul poggiatesta e chiudo gli occhi. Fuori, il rumore del traffico mi fa scivolare lentamente nel sonno.
Mi trovo in un parco. È simile a quello in cui andavo da bambino. Altalene, scivoli e tre campetti di basket, cinti da vialetti alberati e file di cespugli. Non c'è nessuno intorno. Mi siedo sullo scivolo e comincio a spingermi con le gambe. Su e giù, su è giù. Poi la vedo. Mia cugina da bambina. Viene verso di me tutta imbronciata e si siede sull’altalena. Mi guarda. Non fiata.
— Ce l’hai con me? — domando, la voce infantile. Mi guardo le mani perplesso. Non le vedo del tutto e le dita appaiono e scompaiono. Ma sono mani da bambino. Lo so.
— Non mi hai chiamata nemmeno una volta! — dice scorbutica, la voce uguale a quella che aveva da bambina.
Fermo il movimento dell'altalena con i piedi. — La mamma non mi fa usare il cellulare.
— La mamma?! Hai più di trent'anni. Ti fai ancora dire cosa fare e non fare da lei?
Mi acciglio turbato. — Non è così. E poi ho nove anni.
— Cosa dici? Non sei un bambino. Sei un adulto.
Faccio per rispondere, ma non ho più voce. Mi sforzo, grido. Niente.
Mia cugina continua a fissarmi. Il suo volto comincia a deformarsi come fosse sott’acqua. I suoi contorni ondeggiano fino a deformarsi del tutto. Poi scompare. Improvvisamente.
Cado di spalle dall'altalena come tirato indietro da qualcosa. Mi rialzo subito, mi guardo intorno. Il parco è sparito. Ora mi trovo seduto nella macchina di mio padre. Mia cugina è seduta accanto a me. Non è più la sua versione bambina, ma adolescenziale. Ed è Nuda. Alle sue spalle, davanti alla bottega di vini di mio padre, scorgo lui, mia madre, mia zia, mio zio e mio cugino. Ci osservano come si osservano gli animali allo zoo. Con curiosità, allegria, spensieratezza. Mai nei loro occhi scorgo qualcosa di indecifrabile, di guardingo.
Mia cugina si china verso di me, una mano sul mio petto, l'altra sul mio pene. Ma non sento il suo tocco laggiù. Non sento nulla.
Abbasso gli occhi. Non c'è nulla. Sarah tiene in mano il mio uccello come se me lo avesse strappato ancora in erezione. Non capisco. Sono confuso, ma dall’altra parte mi sembra normale.
I miei genitori e i suoi scoppiano a ridere. Sembrano divertirsi. Mio cugino, invece, mi fissa. Nel suo sguardo c'è una rabbia cieca. Riesco a sentirla, anche se non so come.
— Mio fratello è solo geloso — dice Sarah, la voce da adulta.
Muovo la bocca, ma non esce nessun suono. I miei genitori e suoi si avvicinano alla macchina, guardano dentro. Guardano noi, i visi ancora più curiosi. Mio cugino rimane immobile, i suoi occhi sono diventati di un nero intenso.
— È tua cugina — dice mia madre, la voce severa. — Non ti vergogni? Non hai un minimo di decenza? Sai come parlerebbe male la gente di me? Per colpa tua non potrò uscire più di casa! — Scoppia a piangere mentre ride. Una risata crudele e canzonatoria.
— E i miei colleghi — dice mio padre, il viso arrossato, sbronzo, — diranno che sono il padre di un pervertito. Si prenderanno gioco di me e forse perderò Il lavoro per colpa di un figlio degenero come te. — Il suo linguaggio è diverso. Sembra che sia io a parlare.
Mia zia batte un dito sul finestrino per attirare la mia attenzione. — Vuoi scoparti mia figlia!? Allora perché non scopi anche me, visto che ci sei?
— Già, perché non ti scopi anche mia sorella — dice mia madre severa come fosse un ordine. — E poi magari scopi anche a me!
Mia zia si alza la maglietta e tira fuori le tette. Le ho viste solo una volta al mare per sbaglio e sono esattamente come le ricordo. Grandi, morbide e con le aureole scure. Se le palpa, le strizza. Poi le spiaccica contro il vetro. — Le vuoi succhiare? Vuoi vedere se esce il latte? Non è stato questo il tuo primo pensiero quando le hai viste? Quante volte ti ci sei segato sopra, eh? Quante volte hai immaginato di mettere il tuo piccolo cazzetto qui in mezzo?!
No, non è mia zia. Non parlerebbe mai così. Non farebbe mai una cosa del genere. Apro lo bocca per parlare. Niente. Nessun suono.
Mia zia continua a strizzarsi i seni, Il latte che esce dai capezzoli e disegna una linea a zigzag sul vetro. Si mette a ridere, prende la testa di mio zio e gli mette una capezzolo in bocca. Lui cuccia come un bambino mentre il latte straborda dalle sue labbra.
Distolgo lo sguardo, lo stomaco sottosopra. Ho la nausea, mi viene da vomitare. Sto sognando, ma non ne sono sicuro.
Mia cugina mi prende per il mento, mi costringe a guardarla. — Vuoi che te lo monti? — Porta il mio pene duro che ha in mano davanti alla mia faccia. — So farlo. Posso montarlo e smontarlo. Dopotutto, mi appartiene, no?
— Ti appartiene...? — chiedo confuso, la voce un sussurro. Sbarro gli occhi. Riesco a parlare.
Lei sorride in modo infantile. Per un attimo, il suo viso torna quello di una bambina. — Sì, mi appartiene. Ma per caso vuoi farti mia madre?
— No, certo che no! — rispondo secco, la voce ancora un sussurro.
Mi dà un bacio sul naso e mi monta il pene. La guardo fare. Non so cosa diamine stia facendo. Le sue mani sono vuote e si muovono a caso. Le ruote, muove le dita, le incrocia, le separe. Poi le allontana. Il mio pene è magicamente al suo posto. Lungo la pelle, c'è marchiato un nome. Sarah.
Sollevo lo sguardo su di lei. Alle sue spalle, mia madre è da sola insieme a mia zia. Lei continua a guardarmi, a massaggiarsi i seni. Mio cugino, invece, è sempre lì, fermo con un odio viscerale. Chiudo gli occhi e li stringo forte per un momento. Forse è solo un sogno. Forse quando li riaprirò tutto questo scomparirà?
Li riapro.
La scena è sempre la medesima. Nulla è cambiato.
Sarah si prende le tette e le avvicina al mio viso. — Sono più belle queste o quelle di mia madre?
La guardo. Sono piatte come quelle di una bambina. Mi acciglio confuso. — Ma sono...
Si rattrista. — Se non le succhi, rimarranno così. E io non voglio restare piatta. Le succhi per me?
Avvicino le labbra al suo capezzolo. Quando faccio per succhiarlo, il volto di Sarah torna bambina. Sussulto e scatto all’indietro. La fisso incredulo e spaventato.
— Che c'è? — chiede lei, la voce acuta. — Non vuoi farmi crescere?
— Sei una bambina!
— Anche tu.
— Non sono un bambino!
Si volta verso sua madre, che si palpa i seni scoperti. — Mamma, Tommaso dice che non è un bambino. E non vuole succhiarmi il seno per farlo crescere. E non vuole nemmeno farmi crescere.
Il volto di mia zia si oscura. Si rimette le tette nel reggiseno, si abbassa la maglietta e mi fissa in cagnesco. — Tommaso, cosa stai facendo a mia figlia?! Siete cugini. Non si fanno queste cose. È sbagliato.
Balbetto, non riesco a parlare.
Mia madre mi fissa dietro il finestrino con il suo solito sguardo severo. — Sei impazzito!? Cosa volevi fare a tua cugina? Sei un depravato! Mi hai fatto perdere la faccia con mia sorella! Vergognati!
Mia cugina si volta verso di me, il suo viso è tornato quello adolescenziale. — Da bambini giocavamo al dottore, ricordi? Perché non mi ciucci il seno per vedere se mi esce il latte come la mamma? Dai, giochiamo. — Si mette a cavalcioni su di me e mi ficca un capezzolo in bocca. — Ciuccia. Fammi uscire il latte.
Succhio. Prima piano, poi più intensamente. La mia bocca si riempie di latte, straborda dalle labbra. Ma il sapore è diverso. Sa di cioccolato caldo.
Lei mi infila l'altro capezzolo in bocca, mi accarezza i capelli in modo affettuoso. — Succhia. Fammelo crescere. Fammi diventare adulta.
Succhio con forza. Con ingordigia. Ingoio con avidità. Le strizzo il seno, ne esce sempre di più. Ne voglio sempre di più. Ne esce così tanto che mi sommerge la faccia, mi soffoca. Non riesco più a respirare, ad aprire gli occhi. Il suo seno diventa così enorme che mi copre tutto il viso. Ma non smetto. Sto morendo, ma non smetto. Voglio succhiare, bere il suo cioccolato caldo per sempre.
Riapro gli occhi.
Sono ancora sul sedile posteriore della macchina di mio padre. Mia cugina è seduta accanto a me. Sempre nuda. Ma adesso è adulta. Il mio occhio cade sul suo seno. Ha le tette gonfie, morbide. Una quarta. Non me li ricordavo così grandi.
Lei se le prende in mano, le soppesa, le strizza, le palpa. Mi sorride. — Vuoi un altro po' di latte?
— Sarah! — urla sua madre dietro il finestrino. Lei si volta. Si guardano per un momento. Poi la madre apre portiera, la prende per un braccio e la tira fuori. — È tuo cugino! Sei impazzita?
Sarah ridacchia. — Quindi? Facciamo solo sesso, mica un bambino.
— Cosa?! — grida mia zia agitata, il volto pallido. Fa per svenire, ma mia madre la sorregge da dietro. Mia zia si libera e la spinge via. — E tu stammi lontana! Tua figlio ha violentato la mia bambina!
— Ma che dici!? Mio figlio non lo farebbe mai!
— Tuo figlio è un depravato! Un violentatore!
— Non osare parlare male di mio figlio! E tua figlia che ha sedotto il mio Tommaso. Lui non farebbe del male neanche a una mosca!
Mia zia spintona mia madre. — La mia bambina è traumatizzata per colpa del tuo figlio perverso!
Cominciano a spintonarsi a vicenda, a tirarsi i capelli con violenza. Se li tirano così forti che volano via a ciocche grandi quanto un pugno. L’asfalto si riempie di capelli. Un cumulo di capelli. Ma quelli che hanno in testa rimangono. È come se in realtà non se li stessero strappando.
Mia cugina ridacchia. Una risata divertita, giocosa. Poi si volta, si avvicina alla portiera aperta e si china a guardarmi, le mani poggiate sulle ginocchia nude, le tette che ballonzolano. — Facciamo sesso. Davanti a loro.
La mia bocca è tappata, non riesco nemmeno a muovermi. È come se stessi incollato sul sedile. Guardo giù, verso le mie gambe. Non ci sono. Sono un tutt'uno col sedile e mi sembra del tutto normale.
Mia cugina si infila due dita nella vagina, si masturba, si tocca le tette con una mano, lo sguardo eccitato. Comincia ad ansimare, a mordersi il labbro. Le nostre madri continuano a litigare senza sosta, ciuffi di capelli che volano qua e là. L’asfalto ne è sommerso.
Poi Sarah sale a bordo, chiude la portiera e si china su di me. Quando fa per mettersi il mio pene in bocca, la portiera si apre con violenza. Sua madre l’afferra per le gambe e la tira fuori come fosse una scatola di cartone vuota. Poi mia zia entra in macchina, chiude la portiera e mi guarda malissimo. In mano, un paio di forbici.
Spalanco gli occhi, mi copro il pene con le mani. Faccio per parlare, ma non ho voce. Mi sento impotente.
Mia cugina batte i pugni sul finestrino, il viso contorto dalla rabbia. Cerca più volte di aprire la portiera, ma è bloccata. — Mamma! Fammi entrare! Non ho ancora finito!
Mia madre le si avvicina, guarda dentro attraverso il vetro. I suoi occhi inquisitori si spostano in continuazione da mia zia a me e da me a mia zia.
Mio cugino, che è rimasto immobile davanti alla bottega di vini di mio padre, attraversa la strada, apre la portiera e sale al posto di guida. Si gira a guardare sua madre e me come se stesse aspettando l’inizio di un film.
Mia cugina continua a battere i pugni sul finestrino, a cercare di entrare. E mia madre mi osserva con uno sguardo inquietante.
Mia zia sventola le forbici davanti al mio naso, taglia l'aria. Zack Zack! — Te lo taglio e te lo faccio ingoiare, pervertito che non sei altro!
Sarah picchia i pugni sul vetro infuriata, impanicata. — No, non tagliarlo! Mi serve! Non farlo!
Mia zia mette le forbici attorno al mio pene e mi fa un sorriso raccapricciante. — Taglio?
Sento il freddo metallico delle lame. Ma non importa. Mi sembra del tutto normale. — Taglia — dico secco. Ma non sono io a parlare. E qualcun altro. Ma non so chi.
— Non tagliare! — urla a squarciagola Sarah, il viso rigato di lacrime. — Mi serve! Se lo tagli, poi non può più scoparmi e venirmi dentro! Non puoi farlo!
Sua madre si volta verso di lei, il viso infiammato. — Ti viene anche dentro!? Ti fai riempire da... — Si volta verso di me e mi fissa indemoniata. — Ti piace sborrare dentro mia figlia?! Dentro tua cugina?! Ti piace riempire la sua figa di sborra?!
Le parole mi urtano, mi smuovono. Sto sognando. È un sogno. Non può essere reale. Mia zia non parlerebbe mai così. Mai.
— Fammi entrare! — grida mia cugina. — Mamma, fammi entrare!
Mia madre mi osserva, non batte ciglio, lo sguardo ancora inquietante.
Mia zia butta le forbici, che scompaiono nell'aria, si alza la maglietta e tira fuori i seni. Li fa ballonzolare davanti al mio pene, lo sguardo serio. — È questo che vuoi da mia figlia!?
— Io la amo! — rispondo di getto. E ancora una volta mi ritrovo sorpreso nel sentire la mia voce.
— La ami?! Tu non la ami! Vuoi solo scoparla!
Sarah sta ancora picchiando i pugni sul finestrino. — Non è vero! Noi ci amiamo, mamma! Tu non puoi capire!
Mia zia mi afferra l’uccello, lo stringe irata. — Hai traviato la mia bambina! Te ne rendi conto!?
Sento le sue dita fredde attorno al mio pene, ma non mi eccita. Non rispondo. Non ci riesco. Non perché non ho voce, ma perché qualcosa dentro di me comincia a crederci. Quelle parole serpeggiano nella mia mente come vipere piene di veleno.
Mia zia mette il mio pene in mezzo alle sue tette e comincia a muoverle, gli occhi fissi nei miei. — Vuoi questo da me figlia, vero? Allora usa me per alleviare le tue perversioni, non la mia bambina!
Il viso di Sarah si contorce in una rabbia viscerale. Fa il giro del veicolo, cerca di entrare da ogni portiera e torna di nuovo al punto di partenza. — Mamma! Non toccarlo! Tommaso è mio! Mio!
Sua madre la ignora, continua a muovere le tette sul mio uccello. Allungo una mano per fermarla, ma è invisibile. Vedo solo un arto luminoso come un bastone sottile. Mia zia mi mette una tetta in bocca. — Non volevi ciucciarmele da bambino? Anche allora eri un pervertito! Dai, succhia.
Lo faccio. Avidamente. Sento il capezzolo turgido sulla mia lingua, il suo latte invadere la mia bocca. È latte, non cioccolata calda.
— No! — urla Sarah in lacrime. — Smettila, mamma! Smettila! Non fargli succhiare le tue tette! Non puoi!
Mia zia mi accarezza la testa con un gesto affettuoso. — Su, bevilo tutto, da bravo bambino pervertito che sei.
Guardo Sarah. Mi dispiace, ma non riesco a smettere di bere. Non sono eccitato, ma il mio corpo lo esige. Non può farne a me.
Mia madre apre la portiera, si siede accanto al posto di guida e mi fissa insieme a mio cugino. I loro sguardi sono esattamente come quelli di poca fa. Stanno osservando un animale allo zoo. E l'animale, la bestia, sono io.
— Mamma... — dico a disagio.
Mia zia mi schiaccia la faccia sul suo seno. — Zitto e bevi, forza!
Succhio. Con più vigore, lo sguardo su mia madre. Il latte straborda dalle mie labbra, ma continuo a ingoiare. Non sono mai sazio.
Mia zia allontana il capezzolo dalla mia bocca, si china sul mio uccello e se lo mette in bocca.
Un tremito. Un gemito. Sento la sua lingua ruotare attorno al mio glande, la sua saliva colare lungo la pelle. I suoi occhi sono fissi nei miei, parla con la bocca piena. — Pervertito... Ora godi anche mentre tua zia te lo succhia...
La frase mi fa ammosciare il pene. Non lo sento più. Non sento più niente. Né la sua lingua né la sua saliva.
Alle spalle della madre che continua a succhiare, mia cugina mi fissa in cagnesco dietro il finestrino. Non piange. Non si dispera. Guarda solamente. Ma in quello sguardo c'è un mondo di parole. Un universo intero di frasi non dette, eppure riesco a sentirle. Chiaramente. Ma non a decifrarle.
Mia zia sale a cavalcioni su di me e guida il mio pene invisibile nella sua vagina pelosa.
Sento un calore strano attorno al mio pene. Un calore che nella mia mente risuona come affettuoso. Un abbraccio materno. Il mio corpo si tende, si irrigidisce e le vengo dentro.
Mia zia mi fa un sorriso canzonatorio. — Ora hai sborrato anche dentro tua zia. Bravo, complimenti. D’ora in poi lascia stare la mia bambina. Usa me per sfogare le tue perversioni.
Di nuovo quell'invito. Ma non voglio. Non mi sono eccitato, non mi è piaciuto. Per niente. Anche se le sono venuto dentro in un nanosecondo, non sono io quello che si è eccitato. Ma il mio corpo.
Mia cugina si gira e se ne va.
— Aspetta! — urlo, ma non riesco a muovermi. Sono incollato. Un tutt’uno con i sedili posteriori.
Mia zia ridacchia compiaciuta. Si alza da sopra di me, il mio pene scivola fuori quasi all'infinito come una corda tesa. Lei lo guarda, ridacchia di nuovo. Poi il mio pene esce fuori con uno schiocco. Dalla sua vagina pelosa si riversa una cascata di liquidi seminali. Non cola, ma esce a fiotti. Una quantità assurda. Allaga l’abitacolo come fosse acqua.
— Tommaso — dice mia madre, la voce piatta. — Ora la gente parlerà male di me! Dirà che ho un figlio che si è fatto sua zia e sua cugina. Sei contento? Mi hai rovinato la vita!
“Si è fatto?” Non è mia madre. Non usarebbe mai quella frase.
Mio cugino allunga la testa da dietro il sedile di guida. — Ti è piaciuto venire dentro a mia madre e mia sorella? — La voce è meccanica, inespressiva. — Non ti scoccia se faccio lo stesso con tua madre, no?
— No! — urlo con tutta la voce che ho in corpo.
Mio cugino allunga una mano verso il seno di mia madre, ma non lo tocca.
Mia madre guarda la sua mano, poi me. Non dice nulla.
Mio cugino muove le dita per stuzzicarmi. — Perché no?
— Perché non puoi. È mia madre, tua zia.
Dario abbozza un sorriso. — E mia madre è tua zia e mia sorella, tua cugina. Eppure te le sei scopate entrambe, mia sorella e mia madre. Non vedo perché non dovrei fare la stessa cosa.
— Non puoi.
Lui sogghigna. — Perché sono gay o perché non vuoi?
Guardo mia zia. Nessuna reazione alla parola gay. Il suo volto è muto, inespressivo. Mi fissa come fosse da tutt’altra parte.
— Allora? — chiede mio cugino. — Mi faccio tua madre o no?
Faccio per muovermi, ma sono impantanato nei sedili. — No!
Le dita di mio cugino affondano nelle tette di mia madre. Lei mi guarda, non fiata. Si lascia palpare.
— Mamma! — dico raccapricciato. — Fermalo! Ferma Dario!
Lui ridacchia. Solleva la maglietta di mia madre e tira fuori i seni dal reggiseno.
I miei occhi cadono sulle sue aureole rosate, i capezzoli turgidi, una vena che si allunga sopra l’aureola sinistra. I suoi seni sono ancora come li ricordo da bambino. Ha ancora i seni punteggiati di lentiggini. A volte è capitato che vedessi le sue tette mentre si cambiava in bagno o faceva la doccia. Io entravo di impeto per andare in bagno e la vedevo. Solo per una frazione di secondo. Ma è bastato per imprimermele nella testa. La cosa non mi ha mai fatto eccitare. Anzi, la prima domanda che mi sono fatto è perché c'è l’avesse così grosse? Perché le donne hanno le tette così?
Dario ridacchia. — Che belle tette. Sono simili a quelle di mia madre. Dopotutto, sono sorelle.
— Mamma! — urlo sconvolto, in lacrime.
Lei acciuffa per i capelli Dario e li tira indietro. Lui geme dal dolore, il sorriso stampato in faccia. Lei lo fissa severa. — Se vuoi succhiarle, vai da tua madre. — Sposta lo sguardo sua sua sorella. — Dici che mio figlio è pervertito, ma anche il tuo non scherza.
Il viso di mia zia è apatico. — Mio figlio è gay. Non gli interessano le donne, né le tue tette.
La scena cambia. Radicalmente.
Sono nel soggiorno di casa dei miei. Una flebile luce rosa entra dalle finestre, ma tutto è in penombra. Mio cugino non ha più la mano sulle tette di mia madre. E lei non ha più le tette di fuori. Anzi, è seduta accanto a me sul divano. E mia zia e mio cugino di fronte sulle poltrone. È vestita. Mi guardano.
Non capisco cosa stia succedendo, ma lo reputo normale.
Mia zia sposta lo sguardo su mia madre, la voce acida. — Dovresti occuparti tu di tuo figlio. È evidente che è mentalmente malato.
— Il mio bambino non è malato!
— Certo che lo è. Ha traviato mia figlia! E ora devi occuparti tu dei suoni bisogni. Sei sua madre!
— Stai dicendo che devo…
— Non serve dirlo. Sai già cosa devi fare.
Mia madre mi guarda sconvolta, poi sposta lo sguardo su sua sorella.— Sei impazzita?!
— È tu figlio! È uscito da dentro di te. Che male c'è a farlo rientrare?
— Rientrare?! — risponde mia madre ancora più sconvolta, il viso pallido. — Ma che stai dicendo?
Il viso di mia zia si infiamma. — Ha violentato mia figlia! Vuoi che sfoghi le sue perversioni su di lei?!
— Mio figlio...
— Tuo figlio è un pervertito! Se non lo tieni buono, sarò costretta ad andare dai carabinieri.
— Ma...
— Niente ma! — urla mia zia, gli occhi due tizzoni ardenti. — Devi occuparti di lui, dei suoi bisogni perversi. E tu sei sua madre.
Mia madre abbassa gli occhi. Non risponde subito. — Non posso. È mio figlio.
— Devi farlo.
— Mamma... — dico in un sussurro. — Non devi. Sei mia madre…
Lei mi guarda. — Sei contento, ora? Adesso la gente dirà che faccio sesso con mio figlio.
Faccio per rispondere, ma ancora una volta non ho voce.
Mia madre guarda mia zia, il viso rassegnato. — Va bene, lo farò. Ora andate.
— Devo vedere con i miei occhi per non preoccuparmi più — dice lei.
Mio cugino si alza, guarda sua madre. — Beh, io devo andare. Devo rompere con Marta e passare la notte con un mio amico. Ah, lo sai che Tommaso si è fatto Marta?
Un colpo al cuore. Non so perché, ma mi spaventa più di farmi mia madre. Perché?
Mia zia non reagisce. — Non fare tardi.
— Non torno a casa. Vado in Sardegna.
— Non tornare tardi dalla Sardegna.
Mi acciglio confuso dalle risposte di mia zia.
Mio cugino mi saluta con un lieve sorriso e se ne va. O meglio, evapora. Scompare nel nulla.
Le luci rosa fuori dalle finestre diventano viola. Delle ombre ci passano davanti, le luci si oscurano a intermittenza.
Mia madre si alza e si toglie la maglietta e il reggiseno, i seni che ballonzolano. Si risiede accanto a me e mi prende il pene in mano, gli occhi irati nei miei. Sento uno strano calore nelle sue dita. Lo stesso calore che ho provato con mia zia. Anzi, miliardi di volte di più. È calore materno, ancestrale.
Vengo subito. Il mio seme schizza sulle tette lentigginose di mia madre.
Lei toglie la mano con un scatto e mi fissa con aria di rimprovero. Lo stesso sguardo che mi faceva da bambino quando combinavo casini. Il mio sperma svanisce dai suoi seni.
— Mamma... — dico a disagio.
Lei non fiata, gli occhi due bombe nucleari pronte ad esplodere
— Io...
Mia zia si alza e ci raggiunge. Guarda mia madre. — Non vorrai mica finirla qui?
— Che intendi?
Prende per un braccio mia madre e la fa salire cavalcioni su di me. Sento il suo peso sulle gambe, le sue cosce sulla mia pelle, la sua vagina un po' pelosa premere contro il mio pene.
Mia madre mi guarda a pochi centimetri dal viso. — Lo vedi cosa mi costringi a fare?
Mia zia si siede accanto a noi, mi fissa. — Su, scopati tua madre. E sborrarci dentro come hai fatto con mia figlia.
Le parole mi fanno venire la nausea, ma al mio pene non importa. È durissimo come una sbarra di acciaio. Anzi, è una sbarra di acciaio dalla forma fallica. Lo fisso confuso per un attimo.
Mia zia si alza, si mette dietro a mia madre e posa le mani sulle sue spalle. Si avvicina al suo orecchio. — Che aspetti? Metti il cazzetto di tuo figlio dentro di te. E fatti sborrare dentro.
— No, mamma — dico, la voce distorta, lontana.
Mia madre mi fissa torva, solleva un po' i fianchi e si abbassa sul mio pene duro. La sua vagina un po' pelosa scende lentamente sul mio uccello, il suo interno carnoso che si stringe attorno.
Sento di nuovo quel calore materno, ancestrale. Ma questa volta è infinitamente più forte, più caldo. È come se ardesse come il sole, ma non bruciasse. Mi irrigidisco come una statua e le vengo dentro. Tantissimo. Non riesco a smettere. Mi sto prosciugando, sto morendo.
Mia madre muove il bacino su di me e ogni tanto saltella con i fianchi, gli occhi irati fissi nei miei. Io non riesco a smettere di venire. Non so da dove arrivi tutto quel liquido. Ma lo sento colare in abbondanza dalla sua vagina.
Mia zia, le mani poggiate sulle spalle di mia madre, mi guarda. — È molto meglio di mia figlia, vero? Perché non le ciucci le tette? Che aspetti? — Prende un seno di mia madre e me lo mette in bocca. — Quando eri piccolo tua madre ti allattava al seno. Forza, allatta di nuovo. Fai felice tua madre.
“Fai felice tua madre?” Un conato di vomito.
Mia zia mi preme il seno di mia madre in bocca. — Su, su! Fai il bravo bambino.
Guardo mia madre, il suo capezzolo in bocca, la voce impastata. — Mamma...
Il suo volto muta improvvisamente. Mi sorride. Un sorriso affettuoso, materno, mentre continua a muoversi sul mio pene. Mi accarezza la testa, mi bacia la fronte. — Bevilo tutto, così diventi forte.
Succhio il suo capezzolo. Avidamente. In automatico. Non sono io a succhiare, ma le mie labbra. Il suo latte invade la mia bocca. Ingoio. Poi mi metto a leccare il suo capezzolo mentre continuo a succhiare, il latte che straborda dalle labbra. Allo stesso tempo sto ancora venendo senza sosta.
Mia madre mi mette l’altro capezzolo in bocca. — Bravo, il mio tommasino. La mamma ti vuole tanto bene. E il tuo cosino la sta rendendo felice. Oh, ma che dico. Ormai sei un adulto. Non è più un cosino piccolo piccolo. Ora è bello grosso. Ed è tutto della tua mamma, vero?
Mi viene da vomitare. Sento qualcosa risalire lungo la gola per poi scendere. Non rispondo. Continuo a ciucciare, gli occhi nei suoi.
Mia zia evapora come mio cugino. La luce viola si spegne, il soggiorno si oscura.
Lo sguardo di mia madre diventa severo. — Non è tutto per la tua mamma?
Non fiato. Succhio.
Mi tira per i capelli, gli occhi due fessure infernali. — Non è tutto per la tua mamma!?
Finisco di venire, il latte che rivola dalla bocca. Poi sento qualcosa all’inguine. Una fitta. Qualcosa di strano. Sto per venire. Ma per davvero.
Mi sveglio di soprassalto e mi guardo attorno frastornato. Sono ancora in macchina, nel piazzale della clinica privata. Abbasso lo sguardo verso la patta dei pantaloni. Ho i boxer bagnati. È sperma. Parecchia sperma. Sono venuto mentre lo facevo con mia madre.
La colazione mi risale lungo l'esofago, apro di scatto la portiera e vomito sull’asfalto. Uno, due, tre volte. Resto così per un po', gli occhi sulla poltiglia di biscotti mescolata al caffè. L'odore è forte come il mio disgusto per aver sognato di farmi zia e mia madre. Forse sono davvero un depravato con la fissa dell'incesto. Ma al solo pensarlo mi parte un altro conato di vomito.
Chiudo la portiera, prendo un fazzoletto dal cruscotto e mi asciugo le labbra con un fazzoletto. Sposto lo sguardo verso l'ingresso della clinica medica. Ho un bisogno impellente di fuggire, di isolarmi da tutto e tutti. Ma non posso lasciare Ilaria da sola. Non dopo ciò che le ho fatto. E se anche non l’avessi fatto, non me ne andrai mai di punto in bianco.
Poggio la testa sul poggiatesta del sedile, lo sguardo che vaga perso fuori dal parabrezza. Aspetto. E mentre lo faccio, sento la frase di mia madre echeggiare nella mia mente come un mantra inquietante. “Non è tutto per la tua mamma?"
Mi si contorce lo stomaco.
scritto il
2025-09-30
2 . 2 K
visite
2 8
voti
valutazione
6.1
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto precedente

Mia cugina: Parte 46
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.