Mia cugina: Parte 50

di
genere
incesti

Torno a casa, mi faccio una doccia e mi butto sul divano. Non accendo la TV. Fisso il mio riflesso lontano sullo schermo piatto della TV. Una figura patetica, solitaria. Un coglione che sta distruggendo tutto. Anzi, ha già distrutto tutto. Penso a mia cugina, al suo sguardo incredulo quando le ho detto "vaffanculo". Ho rovinato tutto. Definitivamente.
Sospiro. Uno di quelli lunghi, pesanti. E sposto gli occhi sul soffitto. Un altro sospiro che irrompe in un silenzio assordante. Dovrei accettarlo e lasciarla andare. Non ha senso andarle dietro. Non ha senso continuare. Lei non starà mai con me. E io mi sto solo illudendo di volerci stare. Quando ha minacciato di chiamare mia madre, me la sono fatta addosso. Già questo dovrebbe farmi capire che non sono disposto ad affrontare la mia famiglia e le conseguenze di stare con lei. Sono un vigliacco, un codardo. Sarah ha più palle di ma me.
Sbuffo, frustrato. Scatto in piedi, esco dal mio appartamento e poi dal condominio. Vado verso la mia auto. Quando ci arrivo, mi blocco, la mano sulla maniglia. Fisso il nulla per un momento. Poi tiro un pugno a martello sul tettuccio e impreco tra i denti. Salgo a borgo.


Mezz'ora dopo, entro nella villa di Ilaria. Mi ha aperto senza nemmeno accertarsi chi fossi. Come sempre.
Lei è seduta sul divano a guardare la TV. Si volta verso di me. Il suo viso è tornato normale. Non è più gonfio. I capillari rotti attorno al naso e sotto gli occhi sembrano essere quasi spariti. Ma il collo resta una scena del crimine orribile. Non accenna un sorriso. Niente. Gelo assoluto.
Mi siedo accanto a lei. Profuma un casino. Shampoo e acqua di colonia. — Hai scelto il film?
Non risponde subito, gli occhi sembrano scrutarmi. Sta cercando qualcosa. — Te l'ho detto prima, scegli tu.
— Ah, già.
— Niente film horror.
— Perché?
— Poi non riesco a dormire. E ti toccherà dormire con me.
Distolgo lo sguardo. Prendo il telecomando dalla sua mano e scrollo Netflix. Non so cosa scegliere. Non mi va di vedere niente. Non so nemmeno perché sono qui. Continuo a scrollare per un minuto.
— Allora? — chiede lei.
— Sono... sono indeciso.
— Secondo me non vuoi guardare niente.
Preso in pieno. Mi conosce bene, dopotutto. — No, sono solo indeciso.
— Senti...
— Sì?
— Sul gruppo di lavoro ho visto qualcosa di... interessante.
Il mio pollice si blocca sul tasto del telecomando, gli occhi sulla tv. La scritta Black Mirror riempie quasi tutto lo schermo. — Sì? Cosa?
— Beh, qualcosa che... Come dire, è prevedibile.
Mi volto verso di Ilaria. Non parlo. Aspetto che sia lei a farlo.
Sorride leggermente, gli occhi freddi. Allunga il cellulare. — Guarda tu stesso.
Sgrano gli occhi. Sullo schermo, io e mia cugina in macchina. Stiamo litigando. Poi la bacio. Lei mi tira uno schiaffo. La gente mormora, ridacchia. Poi afferro la sua mano per strapparle il cellulare. Sarah si dimena e mi morsica la mano. Smetto di guardare, gli occhi di nuovo sulla TV. Non parlo.
Ilaria non fiata. Il video continua a scorrere. Il brusio delle persone. Qualche commento. Poi un "vaffanculo" ovattato, ma forte, chiaro. Una portiera che si chiude violentemente. E nuove voci femminili, familiari.
"Non è Tommaso Valeriano?"
"Sì, è lui. Chi è la donna in macchina? La sua fidanzata?"
"Devo inviarlo sul gruppo."
Il video finisce.
Ilaria ritrae il cellulare e lo posa dall'altra parte, accanto a sé. — Questa volta ti sei proprio superato. Addirittura davanti all'edificio in cui lavoro. Davanti alla mia compagnia.
— Se n'è andata — dico.
— Potevi evitare quella scenata. Domani in ufficio avrai tutti gli occhi addosso.
— Non m'importa.
Un breve silenzio.
— Hai scelto il film? — chiede Ilaria, la voce piatta.
La guardo di sfuggita. Perché non è andata in escandescenza come al solito? Perché non mi ha preso a ceffoni come sempre? — No, non ancora.
— Black Mirror non è un film.
— Lo so.
Mi strappa in modo brusco il telecomando e scrolla il catalogo. Non fiata. Il suo silenzio sembra presagire una tempesta. Una di quelle che ti spazza via, senza rendertene conto. — Questo? Ti piace?
Fisso la scritta sullo schermo, 365 giorni. La locandina dice tutto. Il viso di un uomo e di una donna a pochi centimetri. Sposto lo sguardo su di lei. Faccio per parlare, ma mi anticipa.
— Ti va bene, giusto? — domanda con un sorrisetto appena accennato.
Mi sta prendendo in giro. Sta giocando. Vuole che reagisca, che dica che non vedrò mai una roba del genere. — Ok.
Il suo sguardo si chiude leggermente. — Quindi lo metto?
Annuisco. — Mmh.
Posa il telecomando sulle cosce. — Quindi se n'è andata, giusto?
Sapevo che avrebbe fatto così. Non può resistere. Per questo ho dato risposte secche. — Già, quindi?
— Suppongo che ora sarai tutto mio — dice, il tono distaccato, anaffettivo.
— Contenta?
— No.
— No?
— Ora mi sembra di prendere i suoi... scarti.
Aggrotto le sopracciglia, perplesso. Mi ha spiazzato un po'. — Scarti? Che vuoi dire? Che sono uno scarto?
Mi fissa per un momento. — La mia... è una vittoria di Pirro, capisci? Non è una vera vittoria.
Continuo a non capire. Non rispondo.
— Sarah se ne va da vincitrice. Ha vinto. Ti ha mollato a me e se n'è andata.
Il mio viso si tende dal nervoso. — Ma che cazzo stai dicendo?!
— Non è più divertente — risponde di getto, secca.
Il sangue mi ribolle nelle vene. — Vuoi dire che... che tutto questo è stato un gioco per te?
Scuota la testa con fare infantile, le labbra arricciate. — No, non mi stai capendo. Quello che voglio dire...
— E che sei una stronza psicopatica fuori di testa! — urlo, la faccia arrossata, incazzata.
Lei si acciglia, turbata. — Perché ti stai arrabbiando tanto? Che ho detto di male?
La fisso per un momento. — Ti sei messa in mezzo per dividerci e non ci sei riuscita. Ma hai continuato. E ora che hai perso... tu...
Si porta una mano sulla faccia. — Sei fuori strada. Perché mi dipingi sempre come una un'arpia?
— Perché? Non è così?! Non sei un'arpia?
Sbuffa in un sorriso divertito. — Certo che mi odi davvero tanto.
— Non ti odio, ma mi stai sul cazzo quando fai così. Quando hai questo atteggiamenti del.. del cazzo!
Incrocia le braccia sui seni. — E io cosa dovrei dire? Ti scopi chiunque, senza remora. Dici di amare tua cugina e bla bla bla, ma infili il tuo cazzo in ogni buco. È così che ami qualcuno? Scopando in giro?
Scatto in piedi, furioso. Mi giro e rigiro e le punto il dito contro. — Tu ti scopavi il tuo ex sulla terrazza mentre mi dicevi di voler stare con me.
— Non è la stessa cosa! — dice Ilaria, gli occhi come le porte dell'Ade. — Cercavo di dimenticarti e lo sai bene. Te l'ho anche detto! Mentre tu con tua cugina...
— È la stessa cosa!
— Non è la stessa cosa!
Sospiro, frustrato. Mi giro e rigiro. Ancora. — Senti, hai detto che sono uno scarto, perciò...
— È che mi sento una sfigata! — urla quasi a squarciagola. Inizia a tossire. Diverse volte.
Cala un lungo silenzio.
Mi siedo, il busto incurvato in avanti, i gomiti sulle cosce, lo sguardo sul tappeto. Non parlo.
— Lei... — dice Ilaria, la voce graffiata, rauca. — Sarah... L'hai sempre desiderata. Sempre. Anche ora è così. E ora che ti ha lasciato, tu sei venuto dritto da me.
— Ti ricordo che sei stata tu a dirmi di venire qui.
— Se ti pesa tanto, puoi anche andartene.
Sbuffa, esasperato. — La vuoi piantare con questi cazzo di sbalzi d'umore? Un minuto fa mi hai trattato come fossi un giocattolo rotto. Lo scarto di qualcun altro e ora te ne esci così? Con frasi da finta vittima del cazzo.
Mi fissa malissimo per un attimo. Mi lancia il telecomando in faccia.
Lo paro con la mano. — Lo vedi?! Sei una cazzo di psicopatica!
— E tu uno stronzo che non capisce un cazzo!
Un lungo silenzio.
Ilaria raccoglie il telecomando da terra e pigia play. Il film parte.
Mi alzo e me ne vado.
— Dove stai andando? — domanda, la voce bassa, graffiata.
Non rispondo.
— Torna qui. Non fare il bambino.
Mi fermo e la fisso, torvo. — Qui l'unica bambina sei tu.
Mi fa segno con la mano di raggiungerla, il sorriso sulle labbra.
Non so perché, torno indietro e mi siedo accanto a lei sul divano. Mi sta facendo impazzire. Quei cazzo di sbalzi d'umore mi fanno sciogliere il cervello.
Mette una mano sulla mia. È freddissima. — Scusa.
Scusa? Quando mai si scusa. È una trappola, sicuro. — Mmh.
— Sono seria. Scusa.
— Come no.
Le sue dita si stringono sopra al dorso della mia mano. — Lo sono.
— Ok
Poggia la testa sulla mia spalla. — Lo sai che è colpa tua, se mi comporto così.
— Certo, è sempre colpa mia.
Sbuffa. — È così. Hai il potere di...
— Lo so, me lo hai detto miliardi di volte. Ho il potere di farti fare cose che non faresti mai con nessuno. Pure tu sei un disco rotto.
Mi guarda per un attimo e posa la testa sulle mie cosce.
Sento il suo calore, il suo orecchio premere contro il mio pene sotto i pantaloni. È la stessa scena di ieri. Identica. E mi sto eccitando come al solito.
Non parliamo per il resto del film. Lei ne sembra presa. Reagisce alle varie situazioni. A me non piace. Sembra fatto su misura per le donne. Anzi, penso sia stato sviluppato per le donne. Ha proprio l'impronta femminile erotica. Una specie di incoerenza sessuale nella coerenza sessuale. È un po' difficile da spiegare a parole.
Titoli di coda.
Ilaria alza la testa da sopra le mie cosce e si mette a sedere. — Mi è piaciuto.
— L'hai già visto, vero?
— Sì.
— Lo immaginavo.
— Da cosa?
— Se fosse stata la prima volta, le tue reazioni sarebbero state più forti.
Mi guarda con un mezzo sorriso. — A te è piaciuto?
— No.
— Neanche un po'?
— Lo sai che non mi attirano questi tipo di film.
Non risponde subito, i suoi occhi che scrutano dentro. Sta cercando qualcosa. Una crepa? Per cosa, poi? — Però mi hai detto che ti andava bene, vederlo.
— Non credo che avessi scelta.
Si acciglia, perplessa. — Che vuoi dire?
— Se avessi detto di no, lo avresti visto, comunque.
Fa un sorriso infantile. — Già, proprio così.
— Allora perché mi fai domande stupide?
Scuote leggermente la testa. — Ti stai scaldando di nuovo?
— Lascia stare, va.
Un breve silenzio.
Posa la mano sul mio pene duro sotto i pantaloni. — Sei troppo su di giri. Che ne dici se...
— La prossima volta che vuoi scopare, non farmi sorbire film come...
— È così evidente che ti invito per fare l'amore con me?
La guardo negli occhi. — Mi prendi in giro?
— Forse.
— La smetti di...
— Giocare? Ma io non sto giocando. Sono seria. Lo sono sempre stata.
— Quindi ti rimangi tutto ciò che hai detto poco fa?
Stringe leggermente le dita attorno al mio pene. — Non ho detto nulla di male. Ho solo... pensato ad alta voce.
— Che differenza c'è? Hai sempre parlato o pensato male di me.
Ilaria avvicina il viso al mio. — Pensi troppo. La pianti?
Sorrido in una smorfia divertente e nervosa. — Ti stai arrampicando sugli specchio. Ottimo.
Mi stringe con forza il pene, lo sguardo si fa minaccioso. Smorzo un gemito, una mano sulla sua. Faccio per parlare, ma mi anticipa. — Senti, — dice, la voce greve — mi hai stufata. Parli troppo. Ti lamenti troppo. Pensi troppo. Mi hai rotto le scatole.
Scaccio la sua mano. — Allora che cazzo mi inviti a fare? Sono uno scarto, dopotutto, no?!
Ilaria fa un sorriso falso. — Sei ridicolo. Ti comporti come un ragazzino permaloso.
— Tu mi insulti e io sarei...
— Ridicolo! Sei ridicolo!
Mi alzo. — La prossima volta che vuoi solo scopare, invita il tuo ex. Ah, già, è vero. Sta con quella russa, com'è che si chiama...
Ilaria mi lancia il telecomando addosso. — Sei uno stronzo!
Raccolgo il telecomando e lo appoggio sul basso tavolino. Sorrido, beffardo. — Ed uno scarto, giusto?
Sospira, irritata. — Sei proprio un bambino.
— Io vado. Ci vediamo.
Scatta in piedi e mi raggiunge a passi veloci. Mi stringe un braccio, i seni pressati sul bicipite. — Non ho ancora finito. Tu non hai ancora finito.
— Non mi va di farlo.
Mi tira verso di sé. Mi spinge sul divano e mi sale sopra, le gambe ai lati dei miei fianchi. Mi fissa negli occhi. — A me sì!
La spingo piano di lato. — Devi piantarla di fare così.
— Non iniziare.
Mi alzo. Faccio per andare via.
Mi afferra il polso e mi tira verso di sé. Cado su di lei. Ilaria scaccia l'aria dai polmoni, il suo respiro mi sferza il viso. Mi prende il viso tra le mani e mi bacia. Un bacio focoso, spinto. Ci infila la lingua, cerca la mia.
Mi stacco. — Ogni cazzo di volta fai così. Ma ti arrapa farmi incazzare, per caso?
I suoi occhi mi fissano intensamente. — Secondo te?
— Secondo me, tu...
Mi ribacia, braccia e gambe serrate in una morsa dietro la mia schiena. La sua lingua sbatte contro la mia, contro i miei denti. La sua saliva sa di yogurt. Forse ne ha mangiato uno prima che venissi.
Si toglie pantaloni e mutandine e fa lo stesso con me mentre mi bacia. Poi appoggia la vagina lungo la lunghezza del mio pene duro e ci struscia sopra. È fradicia. Sento i suoi liquidi appiccicosi sulla pelle, il rumore vischioso. Poi si gira, mi mette la vagina in faccia e si mette in bocca il mio pene. Una 69.
Comincio a leccare le sue grandi labbra gonfie mentre muovo due dita sul suo clitoride. Lentamente. Lei smette di succhiare. Ansima. Riprende. Passo la lingua sul suo clitoride. Le sue cosce si chiudono leggermente in un fremito.
Continuiamo così per un po'.
Si alza, si mette a cavalcioni su di me, steso sul divano, e guida il mio pene dentro di sé. Senza mani. Piega il busto e mi bacia mentre mi accarezza i capelli, le tette pressate contro il mio petto. Inizia a muovere il bacino. Su e giù. Lentamente. Il rumore vischioso dei suoi liquidi si fa più forte e cola lungo l'asta del mio uccello.
Poi mi fa mettere seduto con le spalle sullo schienale mentre è ancora sopra di me. Non smette di baciarmi. Mi sta divorando. Ho le labbra e il mento bagnato della sua saliva.
Poso le mani sul suo sedere e lo strizzo piano, affettuoso. Ilaria ridacchia. Le sferro uno schiaffo sul culo. Lei geme e muove il bacino più velocemente. Mi prende una mano e se la porta al collo. Smorza un gemito di dolore.
La allontano un po'. — Ehi! Ma che fai?
Mi fissa per un attimo, gli occhi carichi di sesso. Non fiata. Torna a baciarmi, a muoversi sul mio inguine. Prende la stessa mia mano e se la mette dentro la maglietta, sotto il reggiseno. Palpo il suo seno con calma mentre con l'altra mano le schiaffeggio il sedere.
Facciamo l'amore a lungo. Forse per un'ora. Non cambiamo posizione, né smettiamo di baciarci. Mi impedisce di muovermi. È come se volesse dominarmi stando sopra.
— Sto venendo... — dico mentre continua a baciarmi. — Alzati.
Non si alza.
Cerco di spostarla, ma lei si stringe a me, le braccia serrate dietro al mio collo, le labbra ancora sulle mie. Le vengo dentro. Fletto i fianchi contro i suoi per un attimo. Li rilasso. Ilaria continua a muoversi, a baciarmi per una decina di secondi. Poi si irrigidisce, il corpo freme e si abbandona di peso su di me.
Fuori, comincia a piovere. Le gocce battono sulle ampie finestre.
Non parliamo per un po', il mio pene ancora dentro di lei.
— È finita — dice.
— Finita?
Mi bacia l'orecchio. — Con tua cugina.
Non rispondo.
— Non voglio litigare — dice Ilaria. — Lo so che stai pensando questo.
È proprio così. Dopo il sesso, inizia a dare di matto. Sempre. — Non mi va di parlarne.
— Non ti sto chiedendo di parlarmene. Sto solo dicendo che è finita. Non era una domanda, ma una affermazione.
— Ok.
Continua a baciarmi l'orecchio. Non si schioda da sopra di me. Non alza nemmeno il viso per guardarmi. Sembra stranamente tranquilla. Troppo. Sento solo le sue labbra e il suo respiro caldo sul lobo del mio orecchio. Non so cosa ci trova di bello a baciarlo. Non l'ha mai fatto.
La pioggia aumenta d'intensità. Scroscia e picchia sui vetri.
— Ora cosa farai? — chiede lei.
— Niente.
— Niente? Non ti credo. Fai sempre qualcosa. Suppongo che darai di matto, giusto?
— Non sono te.
Ilaria smette di baciarmi e mi fissa negli occhi. — Tu sei più pazzo di me. Ti piace tua cugina. Anzi, ti sei innamorato di lei. E ora ti ha lasciato indietro mentre lei...
— Quindi vuoi litigare?
Tira un pugno sulla mia scapola. — Non voglio litigare! Sto solo dicendo...
— Non m'interessa cosa dici. Tanto so già dove vuoi andare a parare.
I suoi occhi si restringono, irritati. — Sei proprio uno stronzo!
— Già, solita scena. Solito copione.
Un altro pugno sulla scapola. — Perché fai così?
— Senti, non parlare sempre di mia cugina, ok? È estenuante.
— Mi dà fastidio!
— Lo so.
— Allora se lo sai... — si zittisce, confusa. Abbassa gli occhi, li rialza. Fa per parlare, ma non ci riesce.
— L'hai capito, vero? — domando.
— Cosa?
— Che lo fai in automatico. Ormai è diventato una sorta di impulso. Non riesci a farne a me. Anche ora che non ha senso parlarne.
Mi osserva, turbata. — Ha senso, invece. E sai perché? Perché ce l'hai sempre in testa. Anche adesso. Non fai che pensare a lei. E mi dà fastidio! — Mi tira uno schiaffo sul petto. Un colpo debole, svogliato. Più un rimprovero, che altro.
— Vuoi che ti dica che ti amo e che resterò per sempre con te?
Distoglie lo sguardo. — Fai quello che vuoi. Non m'interessa.
— Ti interessa eccome. Non fingere.
Sposta gli occhi sanguigni su di me. — Non sto fingendo. È la verità.
— Certo, come no.
— Non credermi, allora.
— Se fosse come dici, non ti comporteresti così. Sarei solo una scopata.
— Come con Paula? Una scopata?
— Che c'entra Paula, adesso?
Continua a fissarmi. Negli occhi, il pandemonio. — Te la scopi. Questo è chiaro. Siete solo una scopata per entrambi, no?!
— Mi dici perché ora stai parlando di lei?
— Non lo so! — grida, la voce rauca, graffiata. Tossisce un paio di volte. — Mi stai dando sui nervi!
Scuote leggermente la testa, seccato. — Ti stai incazzando da sola e incolpi me per...
— È sempre colpa tua! Sempre!
Annuisco, svogliato, le labbra arricciate. — Va bene. È colpa mia.
Mi sferra uno schiaffetto sulla scapola. — Non prendermi in giro!
— La vuoi piantare di colpirmi? — chiedo, serio, lo sguardo fisso nel suo.
Lei fa per rifarlo, ma ferma la mano a mezz'aria. La mette giù con uno sbuffo. Poi si acciglia, perplessa. Abbassa lo sguardo verso il suo inguine e guarda me. — Ti... ti è venuto di nuovo duro.
— È una risposta fisiologica. Non sono eccitato o altro.
Ilaria abbozza un sorrisetto e muove leggermente i fianchi su di me. — Resta fermo, allora. Ne approfitto.
La guardo. Tutto questo non ha un cazzo di senso. Passa da una cosa all'altra con una facilità disarmante. E ora sta facendo l'amore con me come se niente fosse.
Piega il busto e avvicina la testa accanto alla mia, le tette pressate sul mio petto. Mi bacia di nuovo il lobo dell'occhio. Poi la fronte, le guance, le labbra. Lo fa con calma, con affetto. Non c'è passione sfrenata. Sta facendo l'amore con me mentre io sto fermo. Non la bacio. Non mi muovo. Non faccio nulla. Sono come un giocattolo sessuale nelle sue mani.
Ma lei non è Paula. Dietro i suoi baci, dietro i suoi gemiti, dietro il suo ansimare pesante, c'è una storia. Un amore. Un legame che la materia non può scindere. E più le sue labbra solcano la mia pelle, più il suo respiro mi risuona dolce come una ninna nanna e capisco che Ilaria sarà sempre al mio fianco. Non è un pensiero. È una certezza. È il cuore a parlare. Non usa parole, ma sentimenti. Sentimenti che non riesco a fare a pezzi con la logica.
Paula ha ragione. Io e Ilaria siamo fatti l'uno per l'altra.
Le vengo dentro, senza accorgermene. Il mio corpo si tende, le mie gambe si bloccano. Non ero nemmeno eccitato. La mia mente era altrove. Allora perché sono venuto?
Ilaria si ferma e sposta la testa per fissarmi negli occhi. — Sei venuto.
Distolgo lo sguardo. — Già.
— Un giorno di questi mi metterai incinta.
La riguardo, ansioso. — Non dirlo neanche per scherzo.
— Mi sei venuto dentro un sacco di volte. Potrebbe capitare. O forse lo sono già.
Ha ragione. Non ho mai pensato che potesse rimanere incinta quando le venivo dentro. E che dire delle altre? Mia cugina. Paula. La mia ex assistente. Marta. Non ricordo se sono venuto dentro Marta, ma il rischio c'è sempre stato. Non rispondo.
Mi dà un bacio a stampo sulle labbra. — Non mi dispiacerebbe, sai. Avere un figlio.
— Non voglio figli.
— Io sì. Una famiglia numerosa. Una famiglia tutta mia. E stai pur certo che non tratterò i miei figli come hanno fatto i miei con me. Di questo ne sono sicura.
Sento lo sperma colare giù dalla sua vagina e lungo l'asta del mio pene e poi sul mio inguine. — Allora smettila di perdere tempo con me e fatti una famiglia con qualcun altro — dico di getto come se stessi vomitando un pensiero che non mi appartiene per davvero. La parte di me che vuole allontanarla.
Mi fissa per un momento. Intensamente. — Quel qualcun altro sei tu.
— Non sono io. Non lo sarò mai.
— Tu per me sei una famiglia. Lo sei da sempre. E io lo sono per te. Non puoi negarlo.
— Siamo due persone che non riescono a stare insieme senza fare sesso.
— "Due persone?" — dice Ilaria, seria.
— Prima era così. Ci vedevamo, uscivamo, parlavamo. Non finivamo per fare sesso. Ora non sappiamo fare altro. Tu mi insegui o mi inviti. Io mi faccio inseguire o vengo da te. E poi facciamo sesso. Sempre. Più volte.
— "Due persone?!" — chiede Ilaria, ignorando ciò che ho detto. Gli occhi due pozzi senza fondo. — Siamo solo "due persone"?
Distolgo lo sguardo, intimorito. — Lascia perdere. Non mi stai nemmeno ascoltando.
Mi afferra la bocca con le dita. Stringe. Le mie labbra si arricciano all'infuori. — Non siamo due persone, capito!? Non siamo due persone qualunque! Noi siamo noi! Siamo una famiglia!
Scaccia le dita dalla mia bocca in modo brusco. — Non siamo una... — Mi ammutolisco, confuso. — Non siamo... — Non riesco a completare la frase. — Non...
Ilaria mi bacia per un momento, la lingua nella mia bocca. Si ferma. — Siamo una famiglia! Una famiglia!
— Non...
Mi afferra di nuovo per la bocca. — Una famiglia! Siamo una famiglia!
Scaccia la sua mano e la spingo leggermente sul lato del divano. Mi alzo. — Piantala!
Mi afferra per il polso e mi tira su di sé. Le cado sopra. Il suo respiro esce fuori dai polmoni con uno sbuffo. Faccio per rialzarmi, ma lei si aggrappa a me per braccia e gambe. Mi bacia, la lingua sulla mia.
Fuori, la pioggia continua a scrosciare. Incessante. Batte sulle ampie vetrate. Ci osserva.
Sposto le labbra di lato. — La vuoi piantare?
— Dillo! — grida, la voce rauca, graffiata.
Il mio sguardo cade sul suo collo violaceo. Non rispondo.
— Dillo! Siamo una famiglia! Dillo!
— Non siamo una famiglia! — urlo, esasperato.
Lei allenta un po' la presa e mi fissa. — Noi siamo...
— No! Non lo siamo.
I suoi occhi diventano lucidi. — Sì, lo siamo. Siamo una...
— No! Basta!
Una lacrima le scivola lungo il viso e passa sopra i capillari rotti accanto al naso. — Sei uno stronzo... — Sposta i piedi davanti al mio inguine e mi colpisce Mi abbasso istintivamente. Il colpo si pianta nel mio addome. Un colpo forte, carico di rabbia e odio.
Crollo di spalle sul basso tavolino, che si spezza sotto il mio peso. Alcuni piccoli pezzi di vetro mi si conficcano nella schiena. Urlo dal dolore mentre mi metto sul fianco, una mano sulla parte dolorante.
Ilaria resta seduta a osservarmi. — Meriti di peggio...
Mi alzo e vado in bagno, la mano sempre sulla ferita. Mi tolgo la camicia macchiata di sangue sul fondoschiena e me la guardo allo specchio. Non scorgo vetri. Solo piccole lacerazioni insanguinate.
Ne tocco una con un dito e lo ritraggo con una smorfia di dolore.
Ilaria entra nel bagno, prende la cassetta del pronto soccorso da sopra un piccolo armadio in un angolo e mi raggiunge. — Girati. Ti medico io.
Mi giro, accigliato.
Versa l'acqua ossigenata su un panno e lo appoggia sulla ferita.
Mi irrigidisco mentre serro la mascella per non gridare. Brucia un casino.
— Non è grave — dice.
Non rispondo. Il dolore mi fa lacrimare gli occhi.
Muove il panno sulle ferite.
Sto per scoppiare. Non resisto. Brucia troppo.
Toglie il panno e lo posa sul lavabo. — Non penso che ci siano vetri conficcati dentro.
— Non hai controllato? — domando un po' scorbutico per via del dolore.
— Non vedo niente. I tagli sono piccoli. Forse dovresti andare al pronto soccorso.
— Hai finito?
— Sì.
Prendo la maglietta e me la rimetto. Il tessuto urta contro le ferite e smorzo un grido mentre stringo i denti.
Ilaria mi afferra per un polso, mi fa voltare e mi guarda negli occhi. — Scusa...
Tolgo il polso dalla sua presa e mi abbottono lentamente la camicia.
— Non so cosa mi sia preso — dice con un filo di voce.
— La stessa cosa di sempre. Dai di matto.
I suoi occhi si restringono leggermente. — Non resti qui, vero?
— No.
— Non penso che andrai da Sarah.
— Smettila di parlare sempre di lei.
— Dove andrai?
La guardo per un attimo. — A casa.
Continua a fissarmi. Vuole dirmi di restare, di non andare. Ma non lo fa.
Mi giro e vado via.


Mezz'ora dopo, parcheggio sotto il condominio di mia cugina e guardo le due finestre. Non so nemmeno che ora è. Mezzanotte? L'una? Le due? Non mi interessa. Non voglio tornare a casa e non voglio nemmeno andare a lavoro domani. Ma tra il dire e il fare, c'è di mezzo lo schifo che sono. So già che tornerò alla mia routine mentre il mostro al mio interno mi divorerà con gusto. Lentamente.
Resto a fissare le due finestre per un pezzo. In giro non c'è nessuno. Non passa nemmeno una macchina. Non so nemmeno se sia in casa, oppure all'aeroporto. Forse è già partita. Ho la mente così annebbiata che ricordo appena cosa è successo nella sua macchina. Ricordo chiaramente lo schiaffo. Il suono secco, il bruciore sotto la pelle della guancia. Ricordo il motore della sua auto che si allontana, gli sguardi dei miei colleghi. Giudizio. Paura. Perdita. Ecco cosa ho provato. Ma non ricordo cosa ci siamo detti. Le parole si sono perse negli anfratti della mia mente.
Poggio la testa sul poggiatesta del sedile e chiudo gli occhi con un sospiro. Vorrei urlare e spaccare tutto come sempre. Ma resto immobile mentre il dolore sul fondoschiena mi tormenta. Sento la ferita pulsare, bruciare. Ma sopporto. Il dolore fisico non è nulla a confronto a quello mentale. Quello fisico andrà via tra una settimana. Quello mentale, resterà e si nutrirà della mia ossessione, della mia perdita. Diventerà un gigante impossibile da battere. E quel gigante giocherà con me, mi stuzzicherà. E forse, un giorno, mi schiaccerà sotto il suo piede.
Tiro un lungo sospiro. Esco dalla macchina e mi dirigo verso il portone, la mente annebbiata. Citofono. A lungo. Tengo premuto il dito sul tasto. Non lo lascio andare. Appoggio la fronte sul marmo, gli occhi chiusi, rassegnati.
Resto così per non so quanto tempo. Il dito mi fa male. La falange dell'indice è tutta bianca, fredda. Abbasso la mano e faccio due passi indietro. Guardo le due finestre. Buio. So già che le luci non si accederanno mai. Forse mai più.


Arriva metà dicembre. Sono passate settimane dall'ultima volta che ho visto mia cugina. Non l'ho contattata. Ho resistito. Nessun messaggio, nessuna chiamata. Ma non ho cancellato il suo numero. Per paura? Non lo so.
Sapevo che non mi avrebbe mai scritta o chiamato. Me lo sentivo e me lo sento tutt'ora, ma una parte di me si rifiuta di crederci. Spera che tutto si sistemi per il meglio, che staremo di nuovo insieme. Ma è pura illusione. La mia razionalità fa a pezzi il mio sentimentalismo. Pone domande scomode, dirette, fatali. E la risposta viene da sé, di getto. Temo il giudizio dei miei e dei miei zii. Sarah l'ha sempre saputo, perché anche lei teme la stessa cosa. Ma è stata più forte di me. Lo è sempre stata per tutto il tempo. E io sono ancora qua a farmi le seghe mentali. L'inutilità dei miei pensieri, in qualche modo, sembra dare un senso al non senso. Un paradosso che si nutre di aspettative irrealistiche, di ideali irraggiungibili, di fantasie scomode.
Mentre penso a tutto ciò, arrivo a piedi davanti casa di Ilaria. Ormai ci vengo tutti i giorni. È diventata un'abitudine come il caffè pomeridiano. Se non vengo, mi sale l'ansia.
Lascio sempre la macchina sotto il mio condominio e mi incammino verso la sua villa. Camminare attenua l'ansia e l'assopisce quanto basta per non stare troppo male. Ma una volta che mi fermo, ritorna come un pugno nello stomaco. Il cuore batte all'impazzata, la gola si secca, la mente si proietta a futuri drastici, negativi, assoluti. Ogni colore perde la sua tonalità e tutto diventa grigio. Una nebbia da cui è impossibile uscire. Più ci provi e più impegno ci metti, più ti ritrovi allo stesso punto.
Pigio il tasto del citofono, accanto al cancello pedonale. Aspetto un momento.
Il cancello vibra. Si apre.
Lo varco e attraverso il vialetto alberato. Da lontano, attraverso le ampie vetrate, scorgo le luci. Catene di luci appese lungo il soffitto del soggiorno. Mi fermo a un paio di passi dalle finestre e guardo l'albero di natale con i suoi addobbi maestosi. L'albero stesso è maestoso. Non è in un angolo, ma al centro della camera e troneggia su tutto il resto.
La porta d'ingresso si apre, il viso di Ilaria si affaccia dall'uscio verso di me. — Che stai facendo? Entra, che fuori si gela. Brrrr! — Si scalda le braccia con le mani e ritorna dentro.
Già, si gela. Ma io non sento nulla. Indosso un paio di jeans scoloriti e una giacca sportiva nera, sotto un maglietta bianca a maniche corte. La mia pelle è fredda, ma non sento nulla. Anzi, il freddo mi fa sentire vivo. Mi fa percepire qualcosa.
Ilaria mi guarda attraversa l'ampia vetrata e mi fa segno di entrare con la mano. Indossa una felpa viola e leggings neri. Da qui, anche da paio di metri, riesco a intravedere la forma delle sue grandi labbra. Scuoto la testa e varco la porta.
L'aria calde mi punge la pelle. La sento persino nei capelli, negli occhi. Le narici mi bruciano un po'.
— Che ne dici? — domanda Ilaria con un sorriso. — Ti piace l'albero? L'ho fatta tutta da sola.
Lo so che l'hai fatta da sola. Sono venuto qui ogni giorno. Ho visto l'albero prendere forma, colore, bellezza. — Sì, è molto bello.
— Di' la verità, non l'avevi neanche notato, vero?
— Come faccio a non notarlo. È gigante.
Mi fissa per un attimo. Poi scaccia l'aria con un sorriso e va in cucina.
Mi siedo sul divano e osservo le luci sull'albero. Si accendono e si spengono.
Ilaria torna con due tazze di cioccolato caldo e me ne porge una. Si siede. — Oggi hai una faccia...
Le guardo di sfuggita il collo. Non lo ha più violaceo. Bevo un sorso di cioccolata. — Ho sentito che ci sarà una festa di fine anno in ufficio.
— Guarda, non me ne parlare. Odio quelle feste. Lo fanno ogni anno.
— Non l'organizzi tu?
— No, se ne occupa Paula. Lo fa da quando l'ho assunta. — Soffia nella tazza fumante. — Non vuoi venire, vero?
— Beh...
Beve un sorso. — Il Natale non ti piace per niente, eh?
— Non mi è mai piaciuto il natale, lo sai — rispondo di getto, gli occhi fissi sulla cioccolata nella tazza. — Voglio dire, mi piace l'atmosfera. O meglio, mi piaceva. Da bambino... Non so, tutto sembrava più vivo, più colorato. Ora non lo sento più. Non sento più quella magia, quel colore, quell'atmosfera che sentivo in giro.
Ilaria fa un sorso. — Sei proprio depresso. Anzi, sei così dal liceo. Ora, però, sei peggiorato.
Già, sono peggiorato. Me ne accorgo io stesso. C'è un vuoto attorno a me che prima non sentivo. Non con la stessa intensità. — A te piace il natale, no? Sei sempre su di giri in questo periodo.
— Mi piace l'atmosfera — risponde lei. — Camminare per le strade pieni di luci e di decorazioni. Sentite le canzoni di natale. Guardare i film natalizi. Tutto è magico. — Fa una pausa. — Ma da piccola non mi piaceva. Mia madre non lo festeggiava. Non faceva neanche l'albero. Diceva che era inutile. E mio padre... Beh, immagino che lo passasse con una delle sue donne o con tutte loro. Non c'era mai. Dicembre e gennaio era come un fantasma.
Restiamo in silenzio per un po'.
— E nonostante questo, ti piace il natale? — domando, gli occhi ancora fissi nella tazza fumante.
— Sì, mi piace — risponde con un sorriso infantile. — Perché è il mio natale. E il mio natale lo passo come voglio io e con chi voglio. E quest'anno lo passo di nuovo con te. Insieme.
— Ma quest'anno siamo solo noi due. Non c'è il tuo ex, né qualche tua amica per farmi compagnia.
Aggrotta la fronte, perplessa. — Quindi? Che vuoi dire?
— Niente. Pensavo ad alta voce.
Poggia una mano sulla mia coscia, la voce tagliente. — Non ti va di passarlo con me?
— Non ho detto questo.
— Io ho capito questo.
La guardo negli occhi. — Non so cosa volevo dire. L'ho detto e basta.
— Ma vuoi passarlo con me, no? Come gli altri anni? L'abbiamo sempre fatto.
— Ma non eravamo mai soli. C'era sempre qualcuno. Un tuo ragazzo e le tue amiche dell'ufficio.
Il viso di Ilaria si avvicina leggermente al mio. — Non capisco cosa stai cercando di dire. Non ti seguo. Parla chiaramente. Non girarci intorno.
— Non ci sto girando intorno. È solo che... Non lo so.
— Non vuoi passarlo da solo con me? — chiede, seria.
— Certo che voglio passarlo con te.
— Allora perché hai detto...
— Non lo so.
Un breve silenzio.
Ilaria poggia la tazza sul nuovo basso tavolino di vetro, si alza e raggiunge il camino. Lo ravviva. Le fiamme si levano in uno sbuffo. Torna da me e si siede. Prende la tazza e beve un sorso. — L'anno scorso mi sono ubriacata, ricordi? Tu ti sei addormentato di là, nella camera degli ospiti. Dormivi come un ghiro a pancia in giù. — Fa un sorrisetto. — E avevi il culetto fuori dai boxer.
Corrugo le sopracciglia, confuso. Non parlo.
Ilaria sospira con un sorriso malizioso. — Ammetto di avertelo guardato per un po'. Facciamo... un bel po'. Non so perché, ma... mi sono eccitata. Quando gli altri sono andati tutti via, mi sono messa accanto a te. E sì, l'ho ammetto... Ti ho toccato un po'. — Sorride. — Un po' troppo.
Mi limito a guardarla. La cosa non mi sorprende per niente.
— Abbiamo dormito insieme abbracciati. Il mattino dopo...
— Mi hai preso in giro dicendo che l'avessimo fatto — rispondo.
Ridacchia. — Sì, dovevi vedere la tua faccia. Eri nel panico.
— Beh, sì. Non avevo bevuto molto. Anzi, non avevo toccato quasi niente. E ricordo di essermi addormentato sul letto da solo, quindi...
— Dimmi la verità — dice Ilaria, gli occhi nei miei. — L'idea di averlo fatto con me... Cosa hai pensato in quel momento?
Abbasso lo sguardo. Per un attimo. — Di aver rovinato un'amicizia... di aver fatto l'ennesimo casino.
— Solo questo? — chiede, delusa.
— Ci tenevo troppo a te per... Insomma, farlo con te... Non lo so. Forse l'ho trovato eccitante, ma allo stesso tempo spaventoso. Aver superato quel confine con la mia migliore amica... Credevo che saremmo finiti per litigare.
Ilaria mi stringe una mano. — E ora? Ora ci tieni ancora a me come prima?
Non rispondo subito. — Le cose sono cambiate. E sinceramente... Non mi aspettavo che saremmo finiti così. Farlo ogni giorno. Vederti nuda... Fare cose che pensavo non facessi o non avresti mai fatto con me. Non lo so... È tutto diverso. Abbiamo varcato un confine, capisci?
Le sue dita si stringo attorno al dorso della mia mano. — E non ti piace?
— Quello che so... Quello che sento...
— Rispondimi. Non ti piace?
— Mi piace e non mi piace.
Posa la tazza sul basso tavolino e si stringe al mio braccio. — A me piace. Mi viene facile. Certo, mi fai incazzare sempre, ma io so chi sei. So come sei fatto. Sei pieno di dubbi e incertezze. E io ti amo per ciò che sei. E se devo essere sincera, fare l'amore con te mi completa. Cioè, so che sei giusto per me, che stiamo bene insieme. Avrei voluto capirlo tempo fa. Fin dal liceo. Invece ho avuto paura. Paura di rovinare tutto. Proprio come te.
— Ma io...
— Lo so — dice mentre appoggia la testa sul mio braccio. — Non mi hai amata subito. Non come è successo a me. Ma non fa niente, perché mi hai amata dopo. E mi ami tutt'ora, lo so.
Rimaniamo in silenzio per un po'.
Il fuoco scoppietta nel camino.
— Comunque, — dice Ilaria — se non mi fossi controllata, quella notte avrei cercato di fare l'amore con te. Mi avresti respinta?
— Non credo.
— Ti saresti lasciato andare? Subito?
— Non lo so. Forse no. Forse avrei cercato di fermarti. Anzi, ti avrei fermata di sicuro. Eri ubriaca, no? Sarei andato via.
— Anche se questo comportava allontanarsi?
— Allontanarsi? In che senso?
Prende la tazza dalla mia mano e l'appoggia sul basso tavolino. Si sdraia sul divano, la testa sulle mie cosce. — Il giorno dopo sarei stata troppo imbarazzata per stare con te o parlarti. Ci saremmo allontanati, non credi?
— Può darsi.
— Sarebbe stato un peccato.
— Non è detto che sarebbe andata così.
Sorride. — Già, non è detto. La prima volta che l'abbiamo fatto è stato... Goffo. Selvaggio, ma romantico. Sotto le stelle, ricordi?
Annuisco. — Sì, ricordo. È stato strano, però.
— Strano?
— Beh, non mi aspettavo che quella sera sarei finito per fare l'amore con te.
— Quella sera abbiamo varcato il confine. Lo stesso confine che non avresti varcato quella notte.
Non rispondo subito. — Dopo è stato un casino, però. Noi... siamo cambiati.
— Già, un bel casino. Tu mi hai fatto impazzire e mi fai impazzire tutt'ora.
— Prima di tutto ciò, eri quasi un pezzo di ghiaccio inespressivo.
— Senti chi parla. Ma ammetto che tu non sia cambiato molto, a parte la depressione e la tua ossessione per tua cugina. — Sospira. — Vorrei che la tua ossessione fossi io.
Non rispondo.
Un lungo silenzio.
— Tu lo sei per me — dice lei. — Al di là di tutto, non riesco a staccarmi da te. Non riesco a guardare altri uomini. Ma per te non è così, no? Anche se ora se qui, anche se ora vieni tutti i giorni, non sei solo per me, vero?
— Che vuoi dire?
— Paula. Te la scopi ancora, vero?
— Sì — dico, secco.
Ilaria si alza di scatto a sedere, lo sguardo sorpreso, quasi incredulo. Balbetta qualcosa e si zittisce.
— Ti aspettavi un no? — domando.
— No — risponde con un filo di voce, il viso rivolto al camino. — Anzi, me lo aspettavo.
— Allora perché me lo hai chiesto?
— Volevo vedere se mi mentivi.
— Non l'ho fatto.
— Già...
Silenzio. Pesante. Lungo.
— Forse è meglio che vada — dico.
— Resta.
— Non mi sembra il caso.
Si volta verso di me. — Ti ho inviato qui per passare la serata insieme. E lo faremo.
La guardo. Non so se sia arrabbiata o meno. Il suo viso è una lastra di ghiaccio senza imperfezioni. Riesco persino a vedere il vapore gelido. — Riguardo a Paula...
— Non ne voglio parlare.
— Non c'è niente tra noi.
— Lo so.
— Perciò...
Ilaria si alza, prende le due tazze dal basso tavolino di vetro e si dirige in cucina.
La guardo il sedere. Piccolo, di marmo. Allenato. Poi sposto lo sguardo sulle fiamme del camino e ascolto lo scoppiettio del legno. Resto così per un po', la mente annebbiata. Non so perché continuo a venire qui. Non so più che cosa sto facendo. La mia vita sembra essere incastrata in un loop senza fine. Tutto si ripete. Ogni luogo. Ogni parola. Ogni sorriso. Ogni cosa. Non so come uscirne. O forse non voglio farlo.
Mi acciglio, perplesso. Ilaria ci sta mettendo troppo a tornare. Mi alzo e vado in cucina. Aggrotto la fronte, turbato.
Ilaria è davanti al lavandino mentre mi dà le spalle, le mani sui bordo, la testa bassa. Singhiozza leggermente. Sta piangendo. Piano. Senza fare rumore.
— Tutto bene? — domando.
Lei sobbalza leggermente e si asciuga gli occhi con il dorso della mano. Apre il rubinetto. L'acqua scorre nel lavabo. — Sì, sto bene.
— Sicura?
Non risponde. Solo il rumore del getto d'acqua.
— Ehi, sicura di...
— Ti ho detto che sto bene, cazzo! — urla.
Un breve silenzio. L'acqua continua a scorrere.
Sospiro, afflitto. Lo so che sta così per colpa mia, per ciò che ho detto prima. Anche se con Paula non c'è niente e non ci sarà mai niente, continuo a scoparla. È lei che viene da me, che si fa avanti. Ma non è una giustificazione. Anzi, non trovo nemmeno il senso in ciò che ho detto.
Ilaria chiude il rubinetto e si gira verso di me, gli occhi lucidi, freddi, arrossati. — Non ci andrai più in Grecia, giusto?
Mi acciglio, confuso. Cosa c'entra adesso la Grecia con tutto il resto? — Perché?
— Rispondi. Non ci andrai più, no?
— Ci sarei già andato, se fosse così.
— Pensi ancora a Sarah?
Sì, sempre. — Non tanto.
Si avvicina a me e mi guarda negli occhi. — So che non è così. — Mi punzecchia la fronte con un dito. — Ce l'hai sempre qui dentro. Sempre. Tutto il tempo. Anche quando mi scopi, pensi a lei. Credi che non lo sappia?
Non rispondo.
Mi supera e va a sedersi sul divano, le gambe accavallate. Accende la tv.
Vado da lei e mi siedo accanto. — Ha senso che resti?
— Sì, ha senso.
— Per me no.
— Per me sì.
Silenzio.
In TV, la pubblicità di un fuoristrada. L'auto sfreccia lungo il deserto, sale una duna e scende dall'altro lato, sotto un cielo azzurro.
— Continuerai a fartela? — chiede Ilaria, lo sguardo fisso sullo schermo.
— Chi? Paula?
Mi guarda. — Chi sennò? Oppure c'è qualcun'altra?
— Non c'è nessuno. Solo lei.
— Non mi hai risposto.
— Non lo so.
— Non lo sai? — chiede con una smorfia.
— Già, non lo so.
— Come fai a non saperlo?!
Mi limito a guardarla.
Lei sbuffa leggermente. — Continui a fartela, perché ti piace. Ecco perché. È inutile che mi dici "non lo so".
— Non è così.
— Se non è così, allora com'è? Sentiamo.
Non rispondo.
— Visto? È come ho detto. Immagino che anch'io sia un passatempo.
— Non lo sei.
— Come no.
Un lungo silenzio.
Dopo la pubblicità, ricomincia il film. Die Hard. Ma non lo guardo. I miei occhi faticano a mettere a fuoco. Fisso le immagini sfocate.
Ilaria incrocia le gambe sul divano, gli occhi sulla TV. — Perché non lo fai con me e basta? Faccio così pena a letto?
— No.
— Allora perché? Perché hai bisogno di farlo con Paula?
— Non lo so.
Sbuffa, esasperata. Forte. — Non lo so. Non lo so. E non lo so! — Si volta verso di me. — Sei un disco rotto! Ripeti le stesse cose all'infinito.
Già, proprio così. All'infinito. E non solo le parole. Ma tutto quanto. — Non c'è un motivo. È così e basta.
Mi fissa per un attimo. — Quindi potresti fare a me di meno, no? Tanto ti sbatti Paula. Che senso ha farlo anche con me, giusto?
— Senti...
— No, senti tu! — dice, il viso arrossato per la rabbia, un dito puntato contro. — Tua cugina se n'è andata. Non tornerà. E Paula non fa per te, perciò... Smetti di cazzeggiare e prenditi le tue responsabilità, ok?! Qui ci sono io. Ci sono sempre stata. E ora che cominci a tenermi in considerazione!
— Ma io già lo faccio.
— Non lo fai! — dice, tesa, ad alta voce. — Vieni qui, mi scopi e te ne vai. E quando rimani, non sai che dire per tutto il tempo.
— Non è così. Ora sono qui.
— Non c'entra niente! Tu non sei qui. Non mentalmente. Non lo sei mai.
Ha ragione. Sono altrove. Dove? Non lo so nemmeno io. — Non è così.
— Non è mai così per te. Eppure, è "esattamente" così. Per tutto il tempo!
Silenzio.
Ci combattiamo a colpi di sguardi, di silenzi, di respiri. In TV, colpi di pistola, grida. Poi anche lo schermo tace.
— Smetti di scoparti Paula e inizia a maturare — dice Ilaria, la voce bassa, controllata. Fa quasi paura.
Non rispondo.
— Voglio una famiglia con te. E lo so che te l'ho già detto miliardi di volte, ma non smetterò di dirtelo. E sai benissimo anche quanto io sia seria al riguardo, perciò smettila con le stronzate, le seghe mentali e tutto il resto e concentrati su di me! Su di noi!
Distolgo lo sguardo verso la TV. Sullo schermo, immagino sbiadite. I miei occhi si rifiutano ancora di mettere a fuoco.
— Mi stai ascoltando? — domanda, scorbutica.
— Sì, ti sto ascoltando.
— Ma non stai rispondendo. Ti limiti a dire le stesse cose.
La guardo. — Che vuoi che ti dica? Hai ragione. Hai ragione su tutto. Ma più di questo... non so cosa dirti.
Sospira, seccata. — Quindi vuoi rimanere così come sei? Non vuoi nemmeno tentare di maturare un po'?
Abbasso lo sguardo. — Se non ti vado bene, allora...
— Non giocarti la carta della vittima con me. Non attacca.
— Non sto...
— Senti, — dice, il viso serio, di ghiaccio — da adesso in poi non ti darò più fastidio. Non ti dirò più niente su Sarah e Paula. Fai quello che vuoi. — Incrocia le braccia e si stravacca nell'angolo del divano. — Non ho perso la pazienza, se te lo stessi chiedendo, né mi sto arrendendo. Voglio che tu mi scelga, come hai scelto tua cugina. Punto.
La guardo, turbato. Non so perché, ma è seria. Stavolta non farà niente, me lo sento. Le altre volte c'è sempre stata una sfumatura di contraddizione nella sua voce. Ma ora è chiara, coerente, precisa. Non rispondo. Non so cosa dire. Come sempre.


Torno a casa verso l'una. L'appartamento puzza di disperazione, di solitudine. Mi faccio una doccia calda e mi butto sul letto, le dita incrociate dietro la nuca. Fisso il soffitto. Stasera, per la prima volta dopo un mese, non ho fatto l'amore con Ilaria. Non so se sia una cosa positiva o negativa. Un tempo sarei stato sicuro che fosse stata una cosa positiva. Ma ora non più. Le cose sono cambiate. Ilaria non è più la stessa. È ancora pazza, ma sa cosa vuole e non ha dubbi al riguardo. Io, invece, sono l'opposto. Annebbiato, indeciso, bugiardo, stronzo, incoerente. Tutto e di più. Sono lo schifo fatto persona.
Squilla il cellulare. Mi alzo a sedere e lo prendo da sopra il comodino. Sullo schermo, il nome di Paula. Che vuole a quest'ora?
Me lo porto all'orecchio. — Sì?
— Vieni al Flowers — dice, la voce pesante, acuta.
— Eh? Perché?
— Vieni!
— Che succede?
— Ti ho detto di venire! — dice, il tono smorzato, rotto.
— Ma che succede? Stai piangendo?!
— C'è un maniaco che mi sta seguendo.
— Eh? Cosa? Non scherzare.
— Non sto scherzando! — risponde, il respiro e la voce ancora più rotta, pesante. — Mi sta seguendo da quando sono uscita dal Destiny! Ho paura...
Corrugo la fronte, turbato. Non credo stia scherzando. Non ammetterebbe mai che ha paura. Non con me. — Ok, dove sei ora?
— Te l'ho detto! Al Flowers!
Guardo l'orario sullo schermo, le 01:43. — Il Flowers chiude a mezzanotte. Se questo è uno scherzo...
— Non è uno scherzo, cazzo! — urla a bassa voce, la voce rotta. Smorza un singhiozzo. — Sono dietro il vicolo. Mi sono nascosta sotto le scale di emergenza. Ma quel maniaco è ancora qui. Lo sento camminare.
— Ok, arrivo. Non chiudere. Stai al telefono, ok?
— Sì...
Metto il vivavoce, poggio il cellulare sul letto e mi metto la prima tuta che trovo nell'armadio. Poi mi fiondo fuori dall'appartamento. Scendo le scale saltando da un pianerottolo all'altro e corro fuori.
Entro in macchina, accendo il motore e parto, le gomme fischiano sull'asfalto. In strada, non c'è nessuno. I semafori sono spenti. Accelero quasi a tavoletta, il cuore in gola. Faccio per prendere il cellulare dal sedile accanto, ma trovo il vuoto. Sbarro gli occhi. L'ho dimenticata a casa. Faccio per tirare un pugno sul manubrio, ma ci ripenso. Cazzo, che idiota!
La mia mente si riempie di scenari terrificanti. Paula sgozzata, fatta a pezzi, stuprata e…
Scuoto la testa. Devo rimanere lucido. Andrà tutto bene. Forse si è sbagliata. Forse quel tipo stava facendo la stessa strada. Anche a me capita che le donne si spaventino quando mi vedono da sole di notte. Ormai mi ci sono fatto l'abitudine, sebbene mi ferisca un po'.
Continuo a guidare per cinque minuti e inchiodo davanti al Flowers. Esco e mi precipito verso il vicolo. Non c'è nessuno. Solo il buio. Anche la strada è un deserto.
Attraverso il vicolo. — Paula...
Niente.
Stringo le mani a pugni, deglutisco. I miei pensieri mi tormentano. — Paula...
Silenzio.
Mi fermo davanti alle scale di emergenza, che portano al secondo piano del Flowers. Solo oscurità. — Paula...
Nessuna risposta.
Il cuore comincia a esplodere nel petto, il fiato corto, gli occhi sbarrati. Mi guardo intorno, terrorizzato. E se le fosse successo qualcosa? Per che cazzo ho dimenticato il cellulare a casa?!
Mi addentro nel buio del sottoscala. Scendo i pochi gradini e urto contro qualcosa. Sobbalzo. — Paula...?
Silenzio.
Mi piego e allungo una mano, pallido in viso, la bocca secca. La mia mano trema come tutto il mio corpo. Tocco qualcosa. Una stoffa? Sotto, qualcosa di morbido. I miei occhi si riempiono di lacrime. Non riesco a fermarle. Scendono automatiche.
Tocco di nuovo quella cosa morbida, l'altra mano sul viso rigato dalle lacrime. — Paula...? Paula...? — La mano risale fino a toccare qualcosa di freddo. Una spranga? Cos'è? Non capisco. Come fa a esserci qualcosa di freddo. Forse è piantata nel suo corpo?
Ritraggo la mano in modo brusco e cado all'indietro. Le spalle urtano contro uno scatolone. — Paula...?
Diversi passi. Si avvicinano. Giungono da sopra.
Scatto la testa da dove sono sceso, mi alzo e risalgo lentamente i gradini. Spalanco gli occhi, felice. — Paula?
Lei mi fissa, pensierosa, le braccia conserte. — Alla buon'ora.
Le corro incontro e la abbraccio. La stringo forte. — Pensavo... pensavo che...
Lei mi spinge via. — Ma che fai?
— Tu... Credevo che... — Dico. I miei occhi cadono su un uomo. Basso, tarchiato. Cappuccio di lana nero in testa e una sciarpa di lana nera attorno al collo. La faccia quasi non si vede, ma i suoi occhi sono tristi, profondi, assenti. Un miscuglio di cose. Indossa un giubbotto nero e pantaloni neri. Mi fissa, senza dire una parola. Gli corro incontro, incazzato. È il maniaco!
Paula mi blocca la strada. — Che stai facendo?!
— Lui...
— No, non è come pensi.
Aggrotto le sopracciglia, perplesso. Rilasso un poco le spalle. — Che vuoi dire?
— È Ettore.
Lo squadro da capo a piede del tutto confuso. — Ettore?
— Sì, Ettore. Te ne ho parlato, ricordi?
Annuisco ancora confuso. — Ma hai detto che... Insomma, hai detto che ti stava seguendo, che pensavi che...
— Mi sono sbagliata — dice lei con una risatina. — Ho frainteso tutto.
— Come diavolo fai a...
— Dai, non prendertela. È stato solo un malinteso.
— Pensavo che ti avessero uccisa! — grido.
Mi guarda negli occhi. — Ah, ora capisco perché hai gli occhi gonfi. — Fa un sorrisetto dolce. — Hai pianto per me?
Alzo lo sguardo in aria con uno sbuffo. — Cazzo, mi hai fatto preoccupare.
— Che dolce.
Ettore continua a fissarmi come una statua inespressiva. Non ha detto una parola.
Pianto le mani sui fianchi e scuoto la testa. Ho ancora il cuore in gola e la bocca secca. Le mani mi tremano.
— Perché non mi hai risposto più? — chiede Paula, la voce piatta.
Mi porto una mano sulla testa. — Ah, già. Ho dimenticato il cellulare a casa. Scusa.
Scuote la testa e guarda Ettore. — Comunque, lui è Tommaso, il mio capo.
Lui annuisce. Non fiata.
— Non sono il tuo capo — dico.
— In un certo senso sì. Sei un mio superiore, no?
— Lasciamo stare.
Un breve silenzio.
Gli occhi di Ettore ancora su di me. Mi sta squadrando. Ma non sembra geloso o altro. Non so come definirlo.
— Comunque, — dico — ora stai bene, no? È stato solo un malinteso. Meglio così. Allora... Io vado.
— In realtà, — risponde lei — me ne stavo già andando, ma Ettore ha detto di aspettarti. Sai, nel caso ti fossi preoccupato per me.
Lancio uno sguardo a Ettore. Non batte ciglio. Inespressivo come sempre. Guardo Paula. — Beh, allora...
Lei afferra il braccio di lui — Sì, ci vediamo un ufficio. — Se lo tira dietro come un bambolotto. Ma si ferma a metà strada e si gira verso di me. — Ah, quasi dimenticavo. Fatti vedere più spesso in ufficio. Girano troppe voci su di te e la tua "amichetta".
— Non posso fare nulla.
— Tu presentati e la gente smetterà di parlare. Il tuo modo di fare… Sei troppo schivo. Questo non fa che aumentare le voci. — Fa una pausa. — Devi affrontare le cose di petto. Là sono tutte pettegole, lo sai. Se affrontassi quelle oche come affronti i maniaci, — smorza una risata — smetterebbero di parlare in un batter d’occhio.
Annuisco leggermente. Non rispondo.
— Bene — dice Paula con un sorriso compiaciuto. — Come puoi immaginare, ora ho da fare. Ci vediamo. E grazie per essere venuto in mio soccorso "prode cavaliere". — E si tira di nuovo dietro Ettore.
Quando spariscono dietro l'angolo, abbasso lo sguardo a terra e mi piego sulle ginocchia. Resto così per un po'. Poi mi alzo e lancio un ultimo sguardo al sottoscala buio.
Ho tante domande. Troppe. Che ci fa Ettore qui? E perché l'ha seguita, invece di avvicinarla fin da subito?
Spengo il cervello. Ho già troppi casini per la testa.
Vado via.


La sera prima di natale, come ogni anno, vado a casa dei miei per gli auguri. L'aria è asettica come quella di un ospedale. Mia madre, che sta cucinando con mia zia in cucina, ha pulito da cima a fondo ogni angolo della casa come un ossessa. Mio padre è sbronzo sulla poltrona già dal pomeriggio. E mio zio, seduto accanto, non è meno. Tracannano vino come se non ci fosse un domani mentre biascicano parole che capiscono solo loro.
L'atmosfera è pesantissima.
Forse Dario ha detto a sua madre di essere gay. Anzi, ne sono più che sicuro. Non ci vuole certo un genio per capirlo dalla faccia di mia zia.
Non è un'atmosfera natalizia. Per niente. Manca persino l'albero. Mia madre non lo fa più da anni. Non ricordo nemmeno da quando. Sembra un giorno qualunque. Forse una domenica qualunque.
Dario è seduto in un angolo del soggiorno, gli occhi oltre la finestra.
Mi avvicino. — Com'è stato il viaggio di ritorno?
Volta lo sguardo verso di me. — Noioso.
— Ti sei divertito in Sardegna? Immagino di sì.
— Non vedo l'ora di ritornarci. Anzi, ho in mente di rimanere lì in futuro. Qua... Questa città mi va stretta.
— Capisco.
Un breve silenzio.
— Ti sei sentito con Marta? — domanda, la voce piatta.
— No. Da quando è tornata nella sua città, non ci siamo più sentiti.
— Si è fidanzata.
Non mi sorprende. — Sì?
— Con un tizio che lavora al museo. Ha dieci anni più di lei. Divorziato.
— Ah, ci è andata giù pesante.
Dario non si scompone. — È un bravo ragazzo. L'ho conosciuto prima di tornare qui. Un po' eccentrico, ma una brava persona.
— Capisco.
— Ho in mente di trasferirmi lì — dice mio cugino.
— Lì? Da Marta?
Annuisce. — Un anno. Non di più.
— Come mai? — chiedo, stranito.
Guarda in direzione della cucina. Le nostre madri sono ancora lì. — Voglio allontanarmi da qui.
Non rispondo subito. — È successo qualcosa?
Mi guarda. — Tipo?
Faccio spallucce. — Non lo so.
Sposta lo sguardo fuori dalla finestra. — A parte dire a mia madre che sono gay, nient'altro.
— Ah...
— Sorpreso?
— Non direi. Sapevo che sarebbe arrivato questo giorno.
Un breve silenzio.
Mio padre e mio zio stanno ancora bevendo vino mentre biascicano. L'aria ne è pregna.
— Mia madre lo sospettava — dice Dario, la voce pacata. — Mi ha detto che ha notato delle cose fin da quando ero un bambino. Piccole cose. Mi piaceva giocare con le bambole di mia sorella. Mi piaceva vestirle.
Mi limito a guardarlo. So già queste cose. Le avevo notate anch'io.
Fa un sorriso amaro. — Beh, potresti pensare che mia madre l'abbia presa bene, ma...
— Non credo l'abbia presa bene — rispondo.
— Già, proprio così. Ha dato di matto. Ha rotto il servizio di piatti di tua madre. Quello che le ha regalato due anni fa a natale. — Fa una pausa. — Sapevo che avrebbe reagito così. Per lei ora sono solo... un malato.
— Non dire così.
— Parole sue — dice mio cugino, secco. — Anche se oggi sono qui, in realtà, non vuole più vedermi. Mi ha diseredato.
Silenzio.
Dalla cucina, oltre al profumo di arrosto, arrivano le voci concitate delle nostre madri.
— Mio padre lo sa — dice Dario. — L'ha sempre saputo. Forse perché è un uomo, oppure non lo so. Ma non gliene importa. — Mi guarda con un sorriso storto. — Buffo, vero? Mio padre è un uomo all'antica. Casa-lavoro, per intenderci. Pensavo che mi avrebbe picchiato a morte, invece... — Scuote la testa con un altro sorriso. — Non ha detto niente. Mi ha fissato per un momento e ha continuato a guardare il telegiornale come se nulla fosse. Mia madre sbraitava come una pazza isterica e lui guardava il telegiornale. Non è strano?
— Mi spiace...
— Per cosa?
— Per tutto ciò.
Volta la testa a guardare fuori dalla finestra. — Mica è colpa tua.
— Per questo vai da Marta?
— In realtà, volevo già andarci con lei settimane fa. Ne abbiamo parlato per un po'. Poi sono andato in Sardegna, come sai.
Annuisco. — Il tuo amico? Verrà con te?
— No, lui mi raggiungerà tra un anno.
— Come mai? Avete litigato?
Scuote la testa con un sorriso dolce. — No. Lui studia medicina in Canada. Il prossimo anno darà l'esame. Dopodiché, mi raggiungerà qui.
— Capisco.
Mia madre si ferma sotto la soglia della cucina. — È pronto! Venite a tavola. — Sparisce di nuovo in cucina.
Mio padre e mio zio bevono l'ultimo bicchiere di vino, biascicano qualcosa mentre si alzano e vanno in cucina.
Mio cugino mi mette una mano sulla spalla. Mi sorride. — Dopo dobbiamo parlare di Sarah.
Mi si gela il sangue nelle vene. Mi pietrifico. Deglutisco. Non rispondo.
Lui mi dà una pacca sulla spalla e si avvia verso la cucina.


Il pranzo è suntuoso. Sulla tavola, lasagna, cosce di pollo, insalata, patate al forno. Mangio poco o niente. Mio padre e mio zio si puliscono tutte le pietanze. Mio cugino mangia solo tre porzioni di lasagna. E mia zia e mia madre piccole porzioni di tutto.
Per tutto tempo, anche se mia zia parlava con mia madre, lanciava occhiatacce a Dario. Mia madre fingeva di non vedere, ma penso che abbia capito cosa stia succedendo. Non le sfugge mai nulla. E poi sa che Dario è gay. Mio padre e mio zio, invece, continuano a biascicare come se fossero da tutt'altra parte.
Mio cugino si alza e lascia la cucina, senza dire niente. Sua madre lo segue con lo sguardo mentre parla con mia madre.
Io resto seduto a mangiare le patate al forno. Ma vorrei andarmene. Anzi, vorrei poter non essere venuto affatto. Questi pranzi in famiglia mi prosciugano le energie. Sono falsi, deleteri. L'aria che si respira è così pesante da essere opprimente. Sarah ha fatto bene a non essere venuta. Più che bene, non è potuta venire. È ancora in Grecia con suo nonno. Ma non so se le cose le stiano andando bene. E poi sarebbe stato strano incontrarci qui, dopo ciò che è successo tra noi.
Mi riempio un bicchiere di acqua e lo bevo lentamente. Guardo mia madre. — Vado di là.
Lei annuisce, distratta, tutta presa dal discorso di mia zia sulle offerte all'Ikea.
Mi alzo e lascio la cucina. Vado in bagno. Faccio pipì, mi leva le mani ed esco.
Dario mi sta guardando seduto sul divano, la TV accesa su rai due. Stanno dando un film di natale. L'ennesimo film trasmesso ogni anno.
Mi avvicino. I suoi occhi me lo stanno dicendo chiaramente.
— Hai preso una sbandata per mia sorella? — domanda, il tono neutro, basso.
Il cuore manca un battito, il volto mi diventa di ghiaccio. L'ha chiesto così su due piedi come una cosa da niente. — Io...
Mi fissa. — Tu?
— No.
— No? Non ti piace?
Smorzo una risata, nervosa. — Ma che stai dicendo? È assurdo.
Non risponde subito. I suoi occhi sono seri. — Non sono scemo. C'è qualcosa tra voi due.
Altra risata, nervosa. — No, ma che dici. Non scherzare.
— Ti sembra che stia scherzando?
Non fiato. Distolgo lo sguardo.
Mio cugino sposta gli occhi sulla TV. — Siediti.
Non mi muovo.
Mi guarda. — Siediti, dai.
Mi siedo accanto a lui, lo sguardo sul film. Non fiato.
— Sai, mia sorella era strana — dice. — Prima di partire, ha litigato con nostra madra. Non ho ben capito per cosa, ma sembrava c'entrasse un ragazzo.
Stringo le mani a pugno. Non rispondo.
— O almeno credo — continua Dario. — Mia madre le ha detto che stava partendo per scappare o qualcosa del genere. Lei le ha risposto che non era così, che stava solo sfruttando l'opportunità di gestire un ristorante. — Sposta gli occhi su di me. — Insomma, hanno litigato parecchio. Se non fossi tornato prima dalla Sardegna, mi sarei perso questo spettacolo raro.
— Raro? — chiedo, perplesso.
— Già, raro. Non litigano mai. E sai perché? Perché mia sorella è molto accondiscendente con nostra madre. Anche quando mia madre ha torto. Non le va mai contro. Al massimo, la ignora. Ma litigare? — Scuote la testa. — Nah, non è da Sarah. Non con nostra madre, almeno.
Con me ci litiga sempre. Anzi, ci litigava sempre. E non penso succederà più. — Non lo sapevo.
— Certo. Come potresti saperlo, no?
Annuisco.
Un breve silenzio.
— Mia sorella... — dice Dario — Cosa c'è tra voi?
Lo guardo, nervoso. — Te l'ho detto niente...
— Dai, non prendermi in giro. Mia sorella non dà i numeri così facilmente. È successo qualcosa. E penso che tu…
Deglutisco mentre pianto gli occhi sul film. — Niente. Non c'è niente.
Dario prende il cellulare dalla tasca, lo sblocca e me lo mette sotto il naso. — Questo qui, cos'è?
Abbasso lo sguardo sullo schermo. Sgrano gli occhi. Io e mia cugina in macchina. Un frame fermo su me che la bacio. È lo stesso video che mi ha fatto vedere Ilaria.
Dario posa il cellulare sulla coscia. — Me l'ha mandato un'amica. Per essere precisi, una tua collega. Mi ha chiesto se quella fosse mia sorella? A te che sembra?
— Non è... — balbetto dal nervoso — non è come sembra. Noi...
— A me sembra che la stavi baciando. Forse se ti faccio vedere tutto il video, puoi...
— No — rispondo di getto.
— Quindi è così? Tu e lei...
Non parlo. Non ha senso. Mi sento uno schifo. La testa mi formicola, la gola secca, le labbra asciutte. Quel cazzo di video. Perché abbiamo litigato proprio lì? Perché non sono rimasto calmo?
— Quindi mia madre aveva ragione? — domanda Dario, la voce calma. — Sarah è andata via per scappare da te?
Non rispondo.
— Se non avessi visto questo video, — dice mio cugino — non avrei mai detto che voi due... — Fa una pausa. — Voglio dire, sospettavo qualcosa anche prima, ma... Davvero... davvero ti piace Sarah? Voi due avete già...
Sospiro. — La amo.
Nel soggiorno cala un silenzio pesantissimo.
Non sento più le gambe. Non sento niente. Tutto sembra essersi fatto distante. È come se mi stessi guardando dall'esterno.
Dario abbassa gli occhi sul cellulare. Lo sento respirare. Respiri lunghi, pesanti. Le sue dita si serrano attorno al cellulare. — Immagino che voi due... Insomma, l'avete...
Faccio per dire di sì, ma uno schiaffo mi prende in pieno dietro la testa. Cado in avanti, stordito.
— Cosa?! — grida mia zia a squarciagola.
Mi volto. Un altro schiaffo mi colpisce il viso.
— Cosa hai fatto?! — urla lei, gli occhi spiritati, il viso stravolto.
Allungo le mani per proteggermi, ma i suoi ceffoni mi raggiungono in faccia. Colpi potenti, violenti. Una raffica.
Mio cugino scatta in piedi e le blocca le braccia da dietro mentre la allontana verso la cucina. Sulla soglia, sbucano mia madre, mio padre e mio zio. Sono interdetti. Non capiscono cosa stia succedendo. Mio padre e mio zio sembrano essersi ripresi di colpo dall'ubriacatura.
Mia zia si dimena. — Tu... Tommaso! Cosa hai fatto a mia figlia?! Cosa le hai fatto, bastardo!
La faccia mi brucia per gli schiaffi e il cuore mi martella nel petto. Fatico a respirare. Sento una stretta allo stomaco. Ho la nausea. Mi vomito sui pantaloni. Diverse volte. Copiosamente.
Mia madre mi raggiunge, il viso teso, preoccupato. — Che succede? Cosa hai fatto? — Poggia una mano sul mio braccio. — Tommaso! Che hai fatto? Perché tua zia sta...
Scaccio bruscamente la mano e mi alzo.
— Ti denuncio! — urla mia zia dalla cucina. — Chiamo i carabinieri e ti denuncio! Hai stuprato la mia bambina! La mia povera bambina! — Scoppia a piangere. — Ti farò passare le pene dell'inferno!
— Mamma, calmati — risponde mio cugino, il tono pacato. — Non è come sembra. Tommaso e Sarah...
— Stai zitto tu! — strilla mia zia come una matta. — Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo…?
Mio padre e mio zio si guardano, confusi, le guance arrossate. Forse non hanno ancora capito cosa sta succedendo. Non del tutto. Se fosse così, mi padre mi avrebbe già preso a calci e pugni e lasciato morto a terra.
Gli occhi, arcigni, di mia madre sono fissi nei miei. Mi afferra un braccio, mi torce la pelle sotto la camicia nera e mi pianta un ceffone in faccia. Un colpo violento. Potente. Non quanto quello di mia zia, ma forte da stordirmi.
Sento qualcosa sulle mie labbra. Me lo tocco. È sangue. Lo schiaffo mi ha preso sul naso. Sanguina abbondantemente.
Mia madre sbarra gli occhi, preoccupata, le mani sulla bocca.
Mi porto la testa all'indietro e mi alzo mentre tengo una mano sul naso. Mi avvio verso l'uscita.
Mia zia sbuca sulla soglia della cucina, spinge mio zio e mio padre per passare e si lancia verso di me. — Ti denuncio! Chiamo i carabinieri!
Mio cugino le corre dietro. — Mamma!
Lei mi spintona forte da dietro e cado in avanti. Urto la testa contro il muro. I suoi schiaffi mi martellano la testa, mi centrano in faccia. Due mi colpiscono il naso. L'osso si rompe.
Dario l'afferra da dietro e la allontana mentre mi dice con lo sguardo di andarmene.
— Lasciami! — strilla mia zia a squarciagola. — Devo chiamare i carabinieri! Devo farlo arrestare! Lasciami!
Mia madre mi raggiunge e mi posa una mano sul braccio mentre si porta una mano sulla bocca e mi guarda le labbra, il mento e il petto della camicia lordi di sangue. Fa per dire qualcosa, ma si blocca.
Scaccio la sua mano. Mi alzo ed esco dalla porta. Alle mie spalle, mia zia continua a urlare.
Entro in macchina e ci rimango per non so quanto tempo. La gente che passa da lì mi guarda, stranita. Ma nessuno si avvicina. Nessuno chiede perché ho la camicia lorda di sangue. A nessuno importa. Si limitano a delle occhiate, a dei commenti sotto voce. Persino le persone che incrocio spesso tirano dritto.
Metto in moto e mi dirigo al pronto soccorso. Il naso non smette di sanguinare.


Dieci minuti dopo, lascio la macchina nel parcheggio dell'ospedale e scendo. Barcollo. Ho le vertigini e sento appena le gambe. Appoggio una mano sul tettuccio dell'auto per non cadere. Ho la vista un poco sfocata e punteggiata da puntini bianchi.
Un uomo di mezz'età mi si avvicina. — Tutto bene?
Annuisco. — Sì, non si preoccupi.
— Che succede? — domanda una voce femminile alle mie spalle. Si ferma davanti a me e si mette una mano sulla bocca. — Oh, santo cielo. Quanto sangue...
— Venga, — dice l'uomo di mezz'età — l'accompagno al pronto soccorso.
— Non si disturbi — rispondo, la vista ancora più sfocata. La testa mi gira. Crolla a terra. Non sento più le gambe.
I due si chinano su di me. I loro volti sono annebbiati.
Perdo i sensi.


Quando mi sveglio, sono steso su un letto d'ospedale. Il sole crepuscolare entra dalla finestra. Pareti bianchi. Un TV ad angolo spenta. L'aria asettica. Ho la flebo attaccata al braccio. Mi tocco il naso e smorzo un gemito di dolore. Me l'hanno sistemato, credo. Ho qualcosa sopra.
Mi volto alla mia sinistra. Sull'altro letto, un uomo anziano. Sta dormendo.
Faccio per alzarmi, ma avverto un dolore alla testa. Ci insisto e mi metto seduto.
Il dottore entra, seguito da un infermiera. Si ferma davanti a me mentre l'infermiera controlla la flebo. — Si è svegliato. Come si sente?
— Frastornato.
— Le abbiamo medicato il naso. Niente di grave. Ma dovrebbe fare attenzione per le prossime due settimane e cambiare l’impacco, o rischia un infezione.
Annuisco, un bombardamento continuo in testa. — Grazie.
— Vuole che chiami qualcuno per lei?
— No, grazie.
— Tra un'ora, può andare via.
Annuisco.
Fa un sorriso meccanico e va via insieme all'infermiera.
Sospiro. Un lungo sospiro. Mi hanno scoperto. Mia zia, mia madre, tutti. Lo sanno tutti. Ciò che temevo di più si è avverato. Non potrò più guardarli in faccia. Quel cazzo di sogno. Quel cazzo di sogno contorto e disturbante che ho fatto mentre aspettavo Ilaria si è rivelato essere un sogno premonitore.
Resto seduto per un po'. Poi mi stendo e fisso la parete bianca. Non riesco a pensare a niente. Ho la mente talmente annebbiata che mi sembra di essere altrove.
Nel letto accanto, l'anziano si sveglia con forti colpi di tosse grassa. Ha molto catarro nei polmoni. Mi guarda per un attimo. I suoi occhi si chiudono e si riaprono. — Devo smettere di fumare...
Arriccio un sorriso. Non rispondo.
— Sono trent'anni che lo dico — continua lui, un sorriso storto sulle labbra. — Eppure, non smetto. Anzi, fumo. Sono arrivato a cinque pacchetti al giorno.
Non rispondo. Non so che dire.
Tossisce di nuovo. Forte. Si rischiara la voce. — Sai, ho i polmoni bruciati. Non riesco a respirare da solo. — Sospira. — Quanto vorrei fumare una sigaretta, adesso. Anche sentire l'odore di nicotina, mi basterebbe. — Sospira di nuovo. Più a lungo. Si gira sul fianco, di spalle. — Non fumare o finirai come me.


Dopo un'ora, esco dall'ospedale. L'aria è gelida. Il cielo, una tela stellata. Ho il naso dolorante. Tutta la faccia mi fa male. Persino respirare è una sofferenza. Mi avvio verso la mia macchina. Il parcheggio è strapieno di veicoli. Fatico a trovare la mia auto. Dove l'ho lasciata? Non me lo ricordo.
Mi aggiro tra le macchine per una decina di minuti. Passo dagli stessi punti più volte. Non riesco proprio a trovarla. Appena sto per per rinunciare, la trovo. Anzi, me la ritrovo davanti. È in mezzo a un camper e un fuori strada. Per questo non riuscivo a vederla.
Salgo a bordo e guardo il cellulare. Nessun messaggio. Nessuna chiamata. Mi aspettavo che mi chiamasse mia madre per accusarmi di tutto e di più. Invece niente. Silenzio.
Gli occhi spiritati di mia zia mi balenano nella mente. I suoi schiaffi, le sue grida, le sue accuse, ogni cosa mi riecheggia dentro. E fa male. Perché so già che è tutta colpa mia. Solo mia. Ho distrutto tutto.
Abbasso gli occhi sui pantaloni vomitati e fisso i residui di cibo ancora appiccicati. Il dottore e l'infermiera non hanno fatto domande. Forse non si sono nemmeno accorti che mi sono vomitato sopra. Non che importi qualcosa, adesso.
Metto in moto e faccio retromarcia. Poi mi allontano verso l'unico posto sicuro, verso il covo dei mostri, verso l'anfratto del diavolo.
Il mio appartamento.
Poco dopo, varco la porta di casa. Entro bagno e mi faccio una lunghissima doccia. L'acqua calda mi scorre sulla testa, sulla pelle. Lava via la vergogna, ma non ciò che sono. Una persona orrenda. Qualcuno da evitare, da cui stare lontano. Mentre il vapore annebbia il bagno, chiudo gli occhi e lascio che l'acqua mi scorra sul viso. Resto così per un po'. Poi chiudo l'acqua ed esco dalla doccia. Mi asciugo, mi metto una tuta e mi butto sul divano. Fisso la mia immagine sulla TV spenta. Comincio a odiare quella figura. La odio troppo. Eppure, so già che rifarei tutto senza pensarci due volte. Controllo di nuovo il cellulare. Niente. Né messaggi né chiamate. Lo spengo e lo butto sul divano.
Sono morto. Per tutti.
Anche per me stesso.

scritto il
2025-11-17
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