Mia cugina: Parte 48
di
Catartico
genere
incesti
Quando Ilaria esce dalla clinica, sono le due del pomeriggio.
Sale in auto, mi guarda. — Pensavo fossi andato via.
Accendo il motore. — Ti riporto a casa.
— Stai bene?
— Tu stai bene?
— Non mi hai risposto.
Mi dirigo verso l'uscita del piazzale. — Cosa ha detto il dottore?
— Che hai?
— Non è niente di serio, giusto?
— Vuoi dirmi che hai? Sei strano?
Mi fermo per uscire dal piazzale, le auto che sfrecciano da ambo i lati. — Sto bene.
— Non stai bene. Voglio dire, prima di entrare nella clinica non avevi quello sguardo.
Osservo i veicoli passare. — Che sguardo?
— Come se tu abbia visto un fantasma.
— Sono solo preoccupato per te.
Ilaria mi fissa. Non mi crede. — Può darsi, ma ti è successo qualcosa dopo che sono andata via.
— Ti ho aspettata per tutto il tempo. Cosa doveva succedermi?
Il suo sguardo si fa più opprimente. — Non lo so.
La strada si libera.
Mi immetto nella corsia di destra. — Che ha detto il dottore?
— Non te lo dico, se non mi dici prima cos’hai?
Sbuffo irritato. — Te l’ho detto, sono solo preoccupato per…
— Me?! — dice con una punta di acidità. — Pensi che me la beva? C'è altro? C'è sempre altro con te!
— Senti…
— No, sentimi tu! — urla, il viso rosso dalla rabbia. — Mi hai quasi uccisa! E ora devi assumerti le tue responsabilità.
Le lancio un’occhiata fugace. — Lo farò, ma non nel modo che pensi tu.
— E quale sarebbe il mio modo?
— Non lascio Sarah per te.
Silenzio. Un lungo silenzio.
Sento i suoi occhi penetrarmi nella carne, nelle ossa. Li sento strisciare verso il mio cuore, avvolgerlo in una stretta mortale come un pitone. La sua voce si fa piatta, scandita. — Devi. Assumerti. Le tue. Responsabilità.
— È una minaccia?
Si limita a fissarmi.
— Lo prendo come un sì.
Solleva il foulard, il collo violaceo, ci punta il dito. — Guarda cosa mi hai fatto? Guarda!
— Stai giocando la carta della vittima? Non cadere così in basso. Non è da te.
Si riabbassa il foulard, gli occhi che ribollono d’ira. Non risponde. Sta pianificando. Lo fa sempre.
Mi fermo al semaforo rosso.
Ilaria apre la portiera e scende.
— Ma che fai!? — grido dall'abitacolo.
Si incammina tra le auto ferme, la testa bassa, una mano sul foulard.
Scendo dalla macchina e le corro dietro. La fermo per un polso. — Ehi, sali in auto.
Lei lo ritrae di colpo. — Lasciami!
La gente sui marciapiedi si ferma a guardarci. Quella nei veicoli anche. Un bell’uomo sui vent’anni apre la portiera, un piede e la testa fuori. Lo sguardo rivolto a Ilaria. — Tutto bene?
Lei si dirige da lui. — Mi può dare un passaggio, per favore?
Lui esce dall’auto, la guarda un po' strana per via della faccia gonfia, i capillari rotti attorno al naso che non possono essere coperti dagli occhiali. — Certo, entri.
La blocco di nuovo per il polso. — Ehi, che ti prende? Perché stai facendo così?
Si libera dalla presa. — Non toccarmi! Lasciami stare!
Faccio per riprenderla, ma il tizio si frappone tra me e lei. Faccio una smorfia nervosa. — Non sono affari tuoi.
Scatta il verde.
Nessun veicolo si muove. Le persone sul marciapiede si avvicinano per osservare.
Ilaria si mette dietro di lui.
Il tizio si gasa, avvicina il viso al mio. — Lasciala stare.
Lo ignoro. Faccio per superarlo, ma mi spintona via. Faccio un ghigno. — Toccami un'altra volta e ti lascio a terra!
Il tipo sogghigna, si avvicina. Fa per tirarmi pugno.
Ilaria gli blocca il braccio. — Non ne vale la pena.
Lui si volta, la guarda. Poi volta verso di me con fare torvo. Mi punta il dito per dirmi qualcosa, ma non fiata.
La gente rumoreggia.
Ilaria lo tira per un braccio. — Andiamo. Accompagnami a casa.
Lui la conduce alla portiera anteriore, la apre.
Mi avvicino a loro, guardo Ilaria. — Se entri in quella macchina, io e te avremo finto. Per sempre.
Un impercettibile sorriso compiaciuto le sfiora le labbra. Forse pensa che sia geloso, ma si sbaglia. — Vattene da Sarah! Non voglio più vederti!
La fisso per un momento, il brusio della gente tutt’attorno. Mi giro e mi dirigo verso la mia macchina. Quando faccio per entrare, una mano mi blocca il braccio, mi fa girare.
Un pugno in pieno volto.
Sbatto contro la portiera e cado a terra. Le orecchie mi fischiano, la vista sfuocata. La sagoma del tizio troneggia su di me. Fa per tirarmi un calcio.
Ilaria lo blocca. — Fermo — dice.
La gente si preme attorno a lui. Alcuni si mettono in mezzo, lo allontanano.
Ilaria si china su di me, mi controlla il viso con una mano. — Stai bene?
Le sue parole arrivano ovattate. L’udito continua a fischiare. Scaccio la sua mano, il labbro superiore spaccato, sanguinante. Mi asciugo il sangue con il dorso della mano e smorzo un gemito di dolore. Faccio per alzarmi, ma ricado frastornato sul posto.
— È tutta colpa mia… — dice Ilaria mentre mi stringe una mano.
La ritraggo, l’appoggio sulla portiera e mi alzo lentamente.
Lei mi prende sottobraccio. — Scusa...
Mi libero dalla presa in modo brusco, apro la portiera ed entro in macchina.
Un anziano si china dietro il finestrino, mi guarda. — Sta bene?
Annuisco, le mani sul volante, il motore ancora acceso.
Fuori, il tizio che mi ha colpito grida qualcosa contro di me. La gente lo attornia. Guarda me. Guarda lui. Poi la sua voce diventa più chiara, più alta. — Avete visto quella ragazza?! Avete visto la sua faccia?! È stato quel tipo là a conciarla così, ne sono sicuro!
Le persone mi fissano. I loro sguardi sono guardinghi, severi. Stanno riflettendo. Si chiedono se sia davvero così, oppure no?
Ilaria apre la portiera e si siede accanto a me. — Andiamo.
— Scendi.
— Senti, mi dispiace.
— Ti ho detto di scendere!
I suoi occhi si restringono irati, mi tira un pugno sul braccio. — Parti! Vai!
La guardo di traverso. Malissimo. Non fiato. Lei regge lo sguardo.
Scatta di nuovo il verde.
La gente si avvicina alla mia macchina. Il tizio sui vent'anni che mi ha colpito in testa.
Ilaria mi dà un altro pugno sul braccio. — Parti, cretino!
Schiaccio il piede sull'acceleratore, senza pensarci. Parto.
Le persone urlano alle mie spalle, mi inseguono per un paio di metri.
Guido per una decina di minuti, poi accosto. Mi porto una mano sulla fronte, la testa mi sta esplodendo.
— Guido io? — domanda Ilaria.
— Devi smetterla di comportarti così — rispondo, la voce carica di rabbia.
— Allora non farmi incazzare!
Sospiro, gli occhi bassi. — Hai degli sbalzi d’umore da psicopatica.
Mi afferra per un braccio, mi guarda dietro i suoi occhiali da sole. — Mi stai dando della matta?!
La guardo. Faccio per rispondere, ma il mio sguardo cade sul lembo del collo violaceo che emerge da sotto il foulard. Mi libero dalla presa e scendo dall’auto. Fisso l’altra parte della strada, il marciapiede semivuoto. I veicoli sfrecciano lungo le quattro corsie.
Ilaria scende, mi raggiunge. — Ti ho detto che mi dispiace, ok?
Un tir passa lungo la corsia. Lo spostamento d’aria ci colpisce in pieno viso come un raffica di vento improvviso. Il suo foulard si stacca, vola via verso il centro della strada come risucchiato dall’aria.
Lei sobbalza e si copre il collo violaceo con una mano. Attraversa per prenderlo.
Una taxi sta arrivando a tutta velocità verso di lei. Ilaria si volta nella sua direzione.
La prendo per il polso e la tiro verso di me. Il taxi le sfreccia accanto e prosegue spedito con colpi di clacson.
Lei urta la fronte contro il mio mento. Smorzo un grido di dolore.
Pure lei. — Il mio foulard! — urla.
— Sei scema? — domando furioso. — Vuoi farti mettere sotto!?
Si copre il collo con entrambe le mani, osserva il suo foulard volare qua e là per lo spostamento d’aria dei veicoli. — Il foulard…
Scuoto la testa e salgo al posto di guida. La guardo attraverso il finestrino aperto. — Dai, sali.
Fissa ancora un po’ il foulard finito chissà dove. Rientra dentro, si mette la cintura. — Sarah resterà in Grecia.
Così, di colpo. Un missile terra-aria non rintracciato diretto contro un bersaglio preciso. Me.
Mi acciglio turbato. — Era... era questo che volevi dirmi prima?
Non risponde, lo sguardo fuori dal finestrino metà aperto.
— Te l’ha detto tuo nonno?
— Accompagnami a casa.
— Rispondi. Era questo che…
— Grazie per prima. Non ho visto il taxi.
La fisso ancora un po'. Poi riprendo a guidare, la testa che mi scoppia più di prima.
Dopo un po' mi fermo davanti al cancello della sua villa.
Lei non scende, una mano sul collo violaceo, l’altra stretta sulla cintura. In strada, il deserto punteggiato di veicoli di lusso.
La guardo, il labbro spaccato dolorante. — Sarah... Lei...
— Devi dirmi come fai... — risponde lei, la voce piatta.
— A fare cosa?
Si volta, gli occhi freddi nei miei. — A farmi perdere il controllo.
— Sei tu che impazzisci da sola. Lo fai sempre. Ogni volta.
Il suo viso si accende. — Lo faccio solo con te! Anche ora!
— Lo vedi che fai tutto tu?
— Io non faccio proprio niente. Sei tu che mi fai...
— Hai sbalzi d’umore. Sei lunatica. Non è colpa mia se sei così!
Mi tira un pugno sul braccio. — È tua soltanto! Mi fai imbestialire!
— Allora non farlo. Non ascoltarmi.
— Io ti ascolto sempre.
— Appunto. Non farlo
I suoi occhi si fanno minacciosi. — Dimmi come fai?
— Ancora?
— Dimmelo! — urla, la voce graffiata.
— Te l’ho detto, io non faccio proprio niente.
— Sei tu che mi spingi a fare così, non io. Come fai!? Dimmi come fai!?
— Calmati...
— Sono calmissima! Sei tu quello agitato!
— Lo vedi? Io non faccio niente. Ti arrabbi da sola.
Ilaria sbuffa dal nervoso e comincia a tossire in modo violento.
— Ehi — dico preoccupato. — Non ti...
Mi spinge via con una mano e continua a tossire diverse volte. Smette. Mi fissa. — Hai troppo potere su di me. E non mi piace.
Mi passo una mano sulla faccia frustrato mentre poggio la testa sul poggiatesta del sedile. — Dici sempre le stesse cose. Da quando abbiamo fatto l’amore per la prima volta, tu…
— Il sesso — dice, la voce stupita. — Mi tieni incatenata con quello.
— Tu mi ami. È quella la tua catena. E lo sai perfettamente. Perciò, non fingere di non sapere. Non dirmi come faccio, perché io…
— Anche tu mi ami! O non saresti qui.
Silenzio. Assoluto. Palpabile.
Stringo le dita attorno al manubrio fino a farmi venire le nocche bianche. — Ti rendi conto che ogni volta finiamo per parlare delle stesse cose?
— Non credi che significhi qualcosa? — risponde, gli occhi decisi, seri.
— Può significare tutto e niente.
— Per quanto tu possa resistere, mandarmi via o altro, siamo legati. E questo legame durerà per sempre.
Sospiro. Non rispondo.
— Puoi anche sposarti con tua cugina o con chissà chi, ma non troncherai mai con me. Mi cercherai, mi vorrai. E io farò lo stesso.
Mi massaggio gli occhi con i polpastrelli. — Spiegami una cosa. Come fai a passare dalla modalità pazza alla modalità lucida in una frazione di secondi?
Il suo viso freme di rabbia finché esplode in una risata divertita e rabbiosa. Mi prende a schiaffi. Colpi leggeri, quasi carezze. — Sei uno stronzo! Un cretino!
Rido anch'io. — Ahia! È la verità!
Mi picchia per un po’. — Cretino! — E mi abbraccia come se volesse essere assimilata da me. Mi stringe così forte che sputo l'aria dai polmoni. Affonda la testa nel mio petto. — Sarah vuole restare lì.
Mi acciglio, fatico a respirare. Non per la sua stretta, ma per ciò che ha detto. — Come... come lo sai?
— Me ne ha parlato mio nonno. Non mi ha detto il motivo. Ha detto solo che vorrebbe restare lì.
Mi libero dal suo abbraccio, la guardo negli occhi. — Perché?!
Lei mi fissa. Nei suoi occhi intravedo un velo di tristezza. Non mi risponde subito. — Non lo so.
Sposto lo sguardo verso il nulla. — Io... Lei... No, non ci credo. — La guardo. — Stai mentendo. Vuoi farci litigare!
Ilaria appoggia le spalle allo schienale del sedile, incrocia le braccia sui seni. — Sei ridicolo...
— Ridicolo? Tu stai...
Scatta la testa verso di me e smorza un gemito di dolore. Si porta una mano sul collo violaceo. — Mi stai facendo imbestialire! Di nuovo!
— E tu stai cercando di...
— Non sto facendo proprio niente! — urla, la voce roca, graffiata. Tossisce. Più volte.
Corrugo le sopracciglia. Non parlo.
Mi tira un pugno sul braccio. Forte.
— Ahia! — grido. Mi massaggio il punto colpito. — La finisci di alzarmi le mani, cazzo?!
— Sei ridicolo!
Sbuffo seccato. — Credi che mentendomi io...
Si lancia contro di me, gli schiaffi che volano e colpiscono ovunque. Braccia, petto, viso. — Sei tu che non capisci!
Le blocco i polsi, i nostri visi vicinissimi. — Smettila! — dico piano.
— Non ti ho mentito — risponde lei, gli occhi fissi nei miei.
Il suo alito mi sfiora il viso, sa di mente. I suoi occhi non mentono. Lo capirei. Mollo la presa dai suoi polsi, mi volto dall'altra parte. Non rispondo.
Lei resta china su di me, il suo respiro che accarezza un lato della mia faccia. — Ecco perché non te lo volevo dire. Ormai reagisci sempre così. Mi dai la colpa di tutto.
Non fiato. Osservo una donna di mezz’età affacciarsi al balcone. Lei guarda giù in strada, poi verso di me. Mi fissa. Sicuramente trova strano che una macchina comune come la mia sia davanti al cancello di una villa. Stona parecchio. Distoglie lo sguardo e rientra dentro.
Ilaria si rimette seduta. — Tu non ci sta più con la testa, te lo dico io.
Non rispondo. Ha ragione. Quando si tratta di Sarah, ormai, perdo la testa.
— Se non te ne ha parlato, vuol dire che...
— Non vuol dire niente.
— Di certo non vuole che tu lo sappia.
— Se non voleva, allora perché era d'accordo che la raggiungessi per un mese?
— È un mese. Non una vita.
Mi volto a guardarla. — Tu vuoi questo, no?
— Ora perché te la stai prendendo di nuovo con me?
Distolgo lo sguardo. Non lo so nemmeno io perché. Mi viene in automatico.
— Pensi ancora che sia io il problema tra voi due? — domanda Ilaria, la voce graffiata.
— Non penso niente.
— Come no.
— Comunque siamo davanti casa tua, se non te ne sei accorta.
Non risponde subito. Il tono un po' acido. — Sei proprio immaturo. Un cretino.
— Grazie.
— Uno stronzo!
Sospiro. Non rispondo.
— Ti ho dato tutta me stessa — dice risentita.
— Non iniziare.
— Non sto iniziando. È un dato di fatto.
Mi volto a guardarla negli occhi. — E quindi? Ora mi dirai di lasciar perdere Sarah e di stare con te? Non vuoi dirmi questo?
Sposta lo sguardo altrove. Non risponde.
— Lo vedi perché penso che mi menti quando parli di lei? Il tuo obiettivo è sempre quello.
Sbuffa in una smorfia. — Obiettivo? Non c'è nessun obiettivo. Sai bene cosa provo per te. Sto solo cercando di ficcartelo bene in testa.
— Lasciamo stare.
Mi fissa dietro i suoi occhiali da sole per un momento. Poi si volta e scende dall’auto. Non si gira. Tira dritto verso il cancello pedonale, lo apre e ci sparisce dietro.
Guido per la città. Strade secondarie. Poco traffico, poca gente. Ho la mente in subbuglio. Perché Sarah non me ne ha parlato? E se è vero, perché vuole restare in Grecia? E per colpa mia? Per non essere tentata da me? No, forse mi sto rendendo troppo importante. Forse vuole solo restare lì. Ma perché allora?
Mezz’ora dopo accosto la macchina davanti casa di mia cugina. Guardo le finestre su cui si riflette il cielo. Le tende sono tirate. Forse è al lavoro. Lavora stamattina? Non me lo ricordo.
La gente passa lungo il marciapiede. Alcuni incrociano il mio sguardo per un attimo. Poi si allontanano, altrove, persi chissà dove. Un bambino, mano nella mano con la madre che parla al cellulare, mi guarda, mi indica. La madre non fa caso a me, se lo tira dietro. Spariscono.
Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrivo un messaggio a Sarah. “Mi hanno dato un mese. Non vedo l’ora di passarlo insieme.” Cancello tutto.
Ilaria ha ragione. Sono patetico. Il re dei patetici.
Poggio la testa sul poggiatesta, gli occhi persi sul tettuccio. Li chiudo mentre serro una mano a pugno. Stringo così forte da far diventare le nocche bianche. Poi tiro un lungo sospiro. Apro gli occhi, scorro la rubrica del cellulare e chiamo Sarah. Me lo porto all'orecchio.
Squilla sei volte.
— Pronto? — dice lei. Nessun rumore di fondo. Forse non è al lavoro
— Ehi... sei... sei a casa?
— No, perché?
— Volevo... Ecco, volevo parlarti.
— Di cosa?
— Quindi non sei a casa?
— Sono con mia madre.
— Con tua madre?
Mia cugina non risponde subito. — Di cosa mi vuoi parlare?
— Di…
Bussano sul finestrino.
Mi volto. Ed eccola lì, Sarah. Il suo sorriso mi penetra dentro come una lama affilata. Accanto, mia zia, sua madre. I suoi occhi guardinghi mi scrutano da cima a fondo. Una maschera di bronzo. Zero espressione.
Abbasso il cellulare, un sorriso da idiota su volto. — Ehi...
— Che ci fai... — dice Sarah, ma si ammutolisce subito. Guarda sua madre.
Lei guarda me, poi lei. Non fiata, lo sguardo inquisitore.
— Ero... — dico nervoso — ero di passaggio. Un mio amico abita più avanti, perciò...
— Un tuo amico? — domanda mia zia, la voce piatta.
— Sì, a due isolati da qui — mento.
Mia zia guarda sua figlia, poi me. — Hai chiamato Sarah e poi ti trovo davanti al suo appartamento...
— Mamma — dice mia cugina seria, il tono che tradisce un po' di ansia.
Il viso di mia zia si rilassa in un sorriso. — Niente, niente. Non sapevo che voi due… Voglio dire, vi chiamate al cellulare. Dovete essere... vicini.
Il mio occhio cade sulle sue tette. Abbasso lo sguardo per la vergogna, l'immagine onirica dei suoi seni nudi echeggia ancora nella mia mente. Però nella sua voce non c’è malizia. Anzi, sembra felice. E non penso stia mentendo. Mia zia non è brava come mia madre a fare buon viso a cattivo gioco.
— Siamo amici — dice mia cugina.
Sollevo gli occhi, incrocio i suoi. Guardo mia zia. — Sì, siamo amici.
— Mi fa piacere — dice lei. — Da piccoli eravate molto affiatati. Ricordo che giocavate sempre nella macchina di tua padre. — Guarda entrambi. — Vi ricordate?
Un tuffo al cuore. Lo ricordo benissimo. E lei come fa a ricordarlo?
— Mamma... — dice Sarah.
Mia zia sorride, scaccia l'aria con una mano. — Eravate così piccoli.
— Mamma!
— Va bene, va bene.
Cala un silenzio pesante.
Gli occhi di mia zia mi fissano. Sorride, ma dietro quel sorriso non c'è sospetto. Eppure poco fa avrei giurato che ce l'avesse spiaccicato in faccia.
— Mamma — dice mia cugina. — Andiamo.
— Ma non ti aveva chiamato?
Ecco, la domanda insidiosa.
— Sì, ma...
— È anche venuto sotto casa tua. Dev'essere importante.
Sarah sposta lo sguardo su di me, gli occhi che chiedono aiuto.
— Zia, — dico — sto aspettando un amico.
— Un amico? — domanda lei, la voce curiosa. — Non hai detto che eri nei paraggi? Che il tuo amico abita più avanti?
Distolgo lo sguardo. Non so bene cosa dire. — Sì, infatti... Infatti lo sto aspettando.
— E lo aspetti qui? Non più avanti? Sotto casa sua magari? Oppure non c'è parcheggio?
Perché è diventata improvvisamente così sospettosa? Non penso sappia di me e Sarah o mi avrebbe ammazzato.
Sarah afferra per un braccio sua madre. — Mamma, andiamo. O arriveremo tardi alla posta.
Mia zia la guarda. — Oh, sì. Che sbadata. — Guarda me. — Salutami tua madre.
— Sì, certo, zia.
Mi guarda ancora per un momento e si allontana con Sarah. Lei, appiccicata con un braccio alla madre, non si volta nemmeno una volta.
Mi passo una mano sul viso ansioso. Perché ho la strana sensazione che mia zia abbia capito qualcosa? E da cosa poi? Non è così acuta come mia madre. Forse è tutto nella mia testa. Magari le è sembrato solo strano che io e mia cugina ci siamo ravvicinati, oppure che fossi sotto il suo appartamento.
Faccio per mettere in moto, ma il motore è già accesso. Non me ne sono nemmeno accorto Non ci sto proprio con la testa. Pigio l'acceleratore, mi allontano.
Verso le undici e mezza di sera esco dal bar, il cellulare in mano. Chiamo Sarah. C'è poca gente dentro. Serata moscia come la musica.
Squilla diverse volte. Non risponde. Forse è ancora occupata. La richiamo mentre mi guardo intorno. Altri squilli. Niente. Rimetto il cellulare in tasca e rientro dentro, la musica house un suono di fondo, fastidioso.
Paula è seduta insieme ai miei amici. Parla, ride. Sembra stare bene. Ma può essere una facciata.
Mi siedo accanto a loro. Stanno parlando di un film giapponese o forse coreano. Non lo so, non m'importa. Non partecipo alla discussione. Lo faccio raramente. Bevo la pinta di birra e fisso la schiuma nel bicchiere per il resto della serata. Forse dovevo chiamare Sarah prima che iniziasse a lavorare. Ma tra un po' staccherà, quindi mi chiamerà lei.
Verso l'una vanno via tutti. Nessuna chiamata da parte di mia cugina. Nessun messaggio. Ho controllato il cellulare quasi ossessivamente per tutta la serata. Paula l'ha notato, i suoi occhi parlavano da sé.
Esco dal locale insieme a lei e ci incamminiamo lungo il marciapiede. Su una panchina, una coppia sta limonando.
— Tra poco pioverà — dice Paula, lo sguardo al cielo nero.
— Come lo sai?
— Ho controllato l'app del meteo.
Proseguiamo in silenzio per un po'. Un auto sfreccia lungo la strada con la musica a palla.
— La tua cuginetta del cuore non ti ha risposto? — chiede Paula, il tono canzonatorio.
— Mi sembrava strano che non mi stessi prendendo in giro.
— Non ti sto prendendo in giro.
— Come no.
Ci fermiamo davanti alla sua auto.
— Vieni da me? — chiede lei come se mi stesse domandando di andare a mangiare un gelato.
— Non avevi detto che era l'ultima volta.
— Ho cambiato idea.
La fisso negli occhi. — È successo qualcosa, vero?
Lei sbuffa seccata. — Ed ecco arrivare il prode cavaliere dall'armatura scintillante in aiuto della donzella in pericolo. In questo caso... Mmm, come dovrei dire? Ah! In aiuto della donzella triste e sola.
Scuoto la testa con un sorriso. — Certo che ne hai di fantasia.
— Vieni sì o no?
— Ho da fare.
— A l'una di notte?
Annuisco. Non rispondo.
— Ah, già — dice lei, il viso malizioso. — La tua cuginetta del cuore, giusto? Non ti ha risposto, perciò devi andare da lei. Controllare che stia bene.
Come sa che non mi ha risposto? Suppongo l'abbia intuito dal modo ossessivo in cui controllavo il cellulare.
Pigia il bottone del piccolo telecomando che ha in mano. Le portiere della sua auto si aprono. — Beh, se cambi idea... Vieni da me.
— Non verrò. Lo sai.
Alza gli occhi al cielo. — Mamma mia quanto sei palloso. — Sale in auto, muove le dita da dietro il finestrino in un saluto e va via.
Poco dopo sono sotto il condominio di mia cugina. Nessuna luce alla finestre. Forse non è ancora arrivata, oppure sta già dormendo. Guardo l’ora sul cellulare che ho in mano, l’una e cinquantatré. Dovrebbe essere già qui. Anzi, forse è già qui. Guardo il cellulare, vado sulla sua chat. Non ha ancora visualizzato. Strano. Parecchio strano. Che le sia successo qualcosa? Un incidente, oppure... Scuoto la testa. No, non è successo nulla. Forse era troppo stanca.
Resto a guardare le sue finestre per un po'. In giro, la desolazione. Non passa una persona, né un'auto. Sembra che siano spariti tutti. Accendo il motore. Quando faccio per andare via, le finestre si illuminano. È a casa. Le fisso per un momento, poi guardo la sua chat. Non visualizzato. Ancora.
Spengo il motore, scendo dalla macchina e mi incammino verso il condominio. I miei piedi vanno da soli. Non so nemmeno io che sto facendo. Voglio solo parlare, chiedere della Grecia. Mi sembra strano che abbia deciso di trasferirsi lì per sempre. Non conosce il luogo e non sa nemmeno se si troverà bene. È troppo strano.
Alzo un dito per citofonare, ma mi blocco. Sospiro, mi passo una mano sul viso ansioso e pigio il bottone. Aspetto. Non risponde nessuno. Citofono di nuovo. Più a lungo. Attendo. Niente. Non risponde.
Mi allontano dall'ingresso e guardo verso le finestre. Le luci sono ancora accese. Perché non risponde? Sa che sono io? E poi oggi le ho detto che volevo parlare, perciò può immaginare chi può essere a quest'ora.
Un auto sfreccia a tutto gas, seguito da una moto. Torna il silenzio.
Le luci si spengono.
Corrugo la fronte per il nervoso e la chiamo al cellulare. Squilla diverse volte. Non risponde. La richiamo. Più volte. Ancora niente. Non vuole rispondere. Anche se non rifiuta la chiamata, so che non vuole rispondere.
Torno all'ingresso, citofono. Tengo premuto il tasto quasi per venti secondi. Niente. Non risponde. Lo pigio di nuovo. Per un minuto. Nessuna risposta.
Raggiungo il marciapiede, guardo verso le finestre. Nessuna luce. Mi sta ignorando. Volutamente. Perché? Per via della Grecia? Oppure c'è qualcuno con lei? No, che cazzo sto pensando. Sarah non è così. Mi sta solo evitando. E io sto diventando un maniaco.
Mi porto una mano sul viso, sospiro. Mi sembra di impazzire. Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrivo un messaggio. "Sono fuori. Devo parlarti."
Un altro messaggio che si aggiunge a quelli non letti.
Ne scrivo un altro. "Per che cazzo non mi apri!? Mi stai facendo incazzare! Apri!"
Il mio pollice è fermo sul tasto invio. Rileggo il messaggio. Ancora, ancora e ancora. Sbuffo irritato. Lo cancello.
Riguardo le finestre buie a lungo. Vorrei imprecare, gridare, prendere a pugni tutto, ma resto immobile. — Vaffanculo! — bisbiglio tra me. — E vado via.
Il mattino dopo, alle nove, mi presento sotto il suo appartamento. Non so se sia a casa, ma posso aspettare. Ho dormito di merda, mi sono fatto una doccia e sono uscito. Non ho nemmeno fatto colazione. Non ho fame. I miei pensieri sono tutti occupati da Sarah. Non riesco a pensare ad altro. Non sono nemmeno andato al lavoro. Non ho nemmeno chiamato per giustificare l'assenza. Non me ne frega un cazzo. E il fatto che non abbia nemmeno visualizzato i miei messaggi mi ha fatto incazzare ancora di più.
Fisso le sue finestre chiuse per un po'. Alcuni passanti mi fissano mentre camminano. Forse ai loro occhi sembro uno psicopatico. Ed è quello che mi sento di essere. Mi sto comportando esattamente così.
Un'ora dopo Sarah esce dal condominio. È da sola. Indossa pantaloni di una tuta e una maglietta verde scuro. Non è truccata. Esco dalla macchina, attraverso la strada in tutta fretta e le vado dietro. Cammina per due isolati tra la gente, poi scende in un garage sotterraneo. La seguo. Non so nemmeno io perché non la stia fermando o chiamando. È come se temessi di parlarle. Qualcosa mi blocca.
Lei apre la portiera dell'auto, fa per salire.
La raggiungo rapidamente e ci sbatto una mano sopra. La portiera si chiude con un suono secco.
Sarah trasale con un grido e mi guarda terrorizzato. Poi i suoi occhi si rilassano quando capisce che sono io e non uno con cattive intenzioni. — Tommaso...
— Perché mi stai evitando? — domando di getto, la voce incrinata per la rabbia.
— Non ti sto evitando — risponde mentre sposta lo sguardo.
— Non hai risposta a nessuna chiamata, né letto i miei messaggi. Perché?
Non risponde.
— Ho fatto qualcosa di male? Oppure è per ieri... Per tua madre?
Lei mi lancia un'occhiata. Non risponde.
— È così? È per lei? Oppure c'è altro?
— Non c'è niente.
— Parla. Spiegami.
— Ti ho detto che non c'è niente.
— Invece c'è — dico, il tono irato. — E non vuoi dirmelo. Me sai una cosa? Io lo so.
Mi fissa negli occhi. Fa per dire qualcosa, ma non lo fa.
Fuori dal garage, il brusio lontano dei passanti. Il rumore del traffico. Colpi di clacson.
Pianto le mani sui fianchi, mi guardo intorno frustrato. — Vuoi trasferirti per sempre in Grecia, vero?
Nessuna risposta.
Sposto lo sguardo su di lei. I suoi occhi parlano da soli. Ho centrato il punto. — Perché non me lo hai detto? Potevamo parlarne insieme.
Il suo sguardo si fa serio. — Avevo già deciso.
— Avevi già deciso? Ma non sai nemmeno se ti piacerà!? Se ti troverai bene lì!?
— Lo so, ma voglio rischiare.
Scuoto la testa. — Non ha senso. Perché? Perché non lavori qui?
Non risponde.
Restiamo in silenzio per un po', tra l'odore di benzina, di olio di motore, di chiuso, di umidità.
— Senti, — dico — se è per me che stai fuggendo, allora...
— Perché ti metti sempre in mezzo!? — risponde scorbutica. — La mia vita non gira intorno a te. Non sei il centro del mondo.
— Ma tu...
— Non te l'ho detto, perché ti saresti comportato proprio così.
Non rispondo subito, lo sguardo basso. — Perché ci tengo e...
— Smettila! — dice mia cugina, la voce secca, dura. — Ormai ho deciso. Non puoi farci niente.
— Posso licenziarmi e venire da te — rispondo d'impeto, senza pensarci.
— Sei impazzito!? Vuoi mandare all'aria la tua carriera!?
La fisso. — Non me ne frega un cazzo! Quello che m'importa è stare con te.
— Sei proprio un cretino!
— Lo so, ma...
— Non ti farò mandare all'aria la tua vita. Non verrai con me.
— Lo farò. Verrò.
Mi fissa negli occhi decisa, inamovibile. — Provaci e dico tutto a mia madre!
Sbianco. Balbetto qualcosa, muovo le labbra. Non esce nessun suono.
Lei continua a guardarmi, una mano sul volante. — Ieri mia madre mi ha bombardato di domande su di te. Non so perché, ma penso che abbia intuito qualcosa.
Mi acciglio turbato. Impossibile. Mia zia non è così acuta. Forse sta mentendo. — Non tirare in mezzo tua madre. Lei non ha capito proprio niente. È impossibile. Tu ti sei solo stancata di me.
Sarah sbuffa irritata. — Pensala come vuoi.
— Se è vero, allora... Cosa c'entra con il fatto che hai deciso di trasferirti in Grecia?
— Nulla. Non c'entra nulla.
Un breve silenzio.
Sono così confuso che non ci sto capendo niente. Grecia. Mia zia. Che collegamento c'è? Anzi, non c'è.
— Ora devo andare da mia madre — dice.
— Aspetta.
Sbuffa. — Che c'è ancora?
— Ho ottenuto un mese di congedo.
— Quindi? — risponde. Nessuna reazione.
— Come quindi? — domando irritato. — Non sei contenta che possa...
— Ancora non l'hai capito?
— Che cosa?
— Che non ci sarà mai niente tra noi due.
— C'è già qualcosa.
— Non c'è. È tutto nella tua testa. È sempre stato così.
Corrugo la fronte dal nervoso. — Perché fai così? Perché ogni volta devi complicare tutto?
— Perché è complicato. Noi siamo complicati. Siamo cugi...
— Cugini, lo so. E non me me frega un cazzo.
— A me importa. E lo sai.
— Perché vuoi avere figli? — domando quasi sprezzante. — Una vita normale? Ti ci vedi intrappolata in una vita simile?
Devia il mio sguardo. Non risponde.
— Lo vedi? — dico con un sorriso un po' compiaciuto. — Non sai cosa rispondere, perché ho ragione. Tu...
— Con te no — risponde secca.
— Con me no cosa?
— Avere figli... Una vita normale. Con te... non riesco a immaginarla. Per quanto possa sforzarmi, non ci riesco.
Alzo gli occhi all'aria, arriccio le labbra ancora più nervoso, le mani sui fianchi. — Perché abbiamo lo stesso sangue, no? Non è questa la tua fissazione?
Non risponde, la mano stretta sul manubrio.
Getto un'occhiata verso il cancello aperto del garage. La luce del sole fatica ad arrivare fino in fondo. Fino a noi.— Se non ci fosse il sangue...
— Ma c'è!
— Ma se non ci fosse...
— I "se" non portano da nessuna parte.
Faccio per rispondere, ma mi inceppo. Ha ragione. I "se" non portano da nessuna parte. Non in questo caso. Non saremo uguali a tutti gli altri. Ma non me ne frega. — Quindi... Puoi fare a meno di me?
— Sei tu che mi vieni dietro.
— Non è una risposta.
— È una risposta.
Lo è. Indiretta, codificata, ma lo è. — Te ne andrai senza guardarti indietro?
— L'ho già fatto.
Sospiro abbattuto. — Come fa essere così facile per te?
Mi guarda negli occhi, un piede fuori dall'abitacolo. — Non lo è. Ma è l'unica cosa da fare.
— Tu hai solo paura.
— È così.
— Di tua madre. Di cosa potrebbero dire la gente di lei, di te... di noi.
— Perché tu no!?
Anch'io. Ma solo per mia madre, non per me. Non rispondo.
— Non c'è futuro. E io non voglio bruciarmi la vita con...
— Con uno come me?
— No, con una relazione che porterà solo problemi.
— Questo lo dici tu.
— È così. E lo sai.
Restiamo in silenzio per un momento.
— Non è detto che non potremmo avere figli — dico di getto.
— E se li avremmo, cosa penseranno loro una volta cresciuti? — dice, la voce dura, di sfida. — Come si sentiranno davanti ai loro amici? Cosa penseranno nel capire che siamo cugini, in realtà?
Una mazzata dietro l'altra. Sta scavando la fossa al posto mio così da gettarmi dentro. E ci sta riuscendo alla perfezione. Non rispondo.
— Allora? — chiede, la voce ancora più dura. — Sai quanti problemi causeremmo loro? Sai come ti sentiranno a disagio con i loro amici? Vuoi questo?
— No — rispondo secco, subito.
Restiamo in silenzio.
Non so cosa dire. Ha ragione. Ha ragione su tutto. Ha inquadrato le cose alle perfezione. Ci ha visto lungo. Io sono troppo innamorato di lei per essere così lucido.
Sarah sospira. — Ora capisci perché non può esserci niente tra noi?
Sposto lo sguardo verso il cancello aperto del garage, il brusio della gente l'unico rumore.
— Non venire — dice. — Non venire in Grecia. Resta qui.
Abbasso lo sguardo. — Ho un mese di ferie. Dove dovrei passarlo?
— Ovunque, ma non con me.
Un breve silenzio.
— È così importante per te? — domando, senza voltarmi. — I figli?
— Sai già la risposta.
— Se non fossero importanti, non resteresti comunque con me. Quindi...
— Evitiamo di tornare sullo stesso argomento.
Mi volto a guardarla. — Verrò. Un mese.
Lei sbuffa. — Perché ti ostini a...
— Lo sai perché. E poi... non riesco a lasciarti andare.
Lei chiude la portiera, mette in moto e si dirige lentamente verso l'uscita del garage sotterraneo. Non esce. Si ferma sulla soglia.
La raggiungo e mi chino sul finestrino chiuso. Faccio per parlare, ma mi blocco. Non so cosa dire. Non so nemmeno perché mi sia chinato. Forse per trattenerla? Per ripetere le stesse cose?
Sarah continua a guardarmi per un attimo. Va via. Il cancello si chiude alle spalle.
Guardo la sua macchina allontanarsi, la gente che mi passa accanto. Visi duri, inespressivi. Ognuno con i suoi macigni, la sua merda.
Un'ora dopo sono al lavoro. Mi sembrava l'unico posto dove fuggire. Ilaria non c'è. È alla sua villa. Non si farà vedere per un paio di giorni.
Bussano alla porta. È Federica. Entra e ripone sulla scrivania alcuni fascicoli. — La vicepresidenti Neri vuole che dia un'occhiata a questi clienti.
Ci getto un'occhiata veloce. — È qui? Ilaria... Ehm, la vicepresidente.
— No, mi ha chiamata stamattina. Mi ha detto di prendere questi fascicoli dal suo ufficio e di darglieli. Ma le ho detto che non era ancora arrivato.
Già, perché venire a lavorare era l'ultimo dei miei pensieri. Voglio licenziarmi e sparire con Sarah. — Capisco.
— Posso... posso farle una domanda?
— Sì.
— Come mai la vicepresidente non è venuta? Non si è mai assentata in tutti questi anni. Neanche una volta.
Distolgo lo sguardo su fascicoli. — Non lo so. — Ne apro uno, gli occhi che corrono sulla prima riga. — È tutto?
— Sì — risponde. Va via.
Rialzo lo sguardo sulla porta chiusa. Non potevo dirle che l'ho quasi soffocata a morte mentre facevamo l'amore, che ho perso il controllo del mio corpo, delle mie mani. E che il suo viso è così gonfio da sembrare un pallone.
Alla pausa pranzo, i cubicoli dell'ufficio sono vuoti. Compro il solito sandwich che sa di plastica dal distributore e vado a sedermi sulla terrazza. Non c'è nessuno. Lo scarto, ci do un morso mentre guardo il cielo. Si è ingrigito un po', il sole che sbuca timido da dietro le nuvole.
— Alla fine non sei venuto da me — dice Paula.
Mi volto a guardarla. — Te l'avevo detto.
Si siede accanto a me e comincia a mangiare l'insalata nel contenitore di plastica. L'odore di aceto mi pizzica il naso.
Mangiamo in silenzio per un po', il tempo che si turba ancora di più.
— Quindi sei andato dalla cuginetta del cuore? — chiede lei mentre lascia la forchetta nel contenitore vuoto.
— Non sai parlare di altro?
— Mi piace darti fastidio.
— L'ho notato.
— Allora? Avete...
Mi alzo e raggiungo il parapetto, ci appoggio le braccia. Guardo la città, le auto lungo le strade come formiche.
Paula mi affianca. — Oggi non sei dell'umore adatto, eh?
Non rispondo.
— Che ne dici se ci divertiamo un po'?
— Pensi sempre al sesso?
— A cosa dovrei pensare?
— Non lo so. A qualcos'altro.
Arriccia le labbra pensierosa. — Beh, non ho altro a cui pensare.
Chissà se è vero. Ma se lo fosse, beata te. Non rispondo.
Mette una mano sul mio braccio. Un tocco delicato. — Allora? Una sveltina?
La guardo. — Non hai altri oltre me?
— Beh, sì, ma... Tu sei qui, quindi...
Sposto il braccio dalla sua mano. — E se non fossi qui?
— Non vado con chiunque, se intendi dire questo.
— Non ho detto questo.
— A me pare di sì.
— Pensala come vuoi.
Un breve silenzio.
Lei solleva la braccia dal parapetto. — Beh, visto che non vuoi fare niente...
— Non sai startene semplicemente ferma?
— Ferma?
— Stare qui. Senza fare niente.
Paula sorride melliflua. — Ah, ti piace la mia compagnia.
— Non ho detto questo.
Mi dà una piccola spinta affettuosa. — Non c'è bisogno di mentire.
— Mi hai frainteso. Volevo dire che puoi stare qui anche senza...
— Non arrampicarti sugli specchi. Ho capito. — Riappoggia le braccia sul parapetto, guarda il cielo mentre il vento le smuove un po' il caschetto irregolare.
Non ha capito un cazzo, ma va bene così. Non rispondo.
Restiamo a guardare il cielo per un po', i suoni del traffico di sottofondo.
— Pensavo non venissi a lavorare, oggi — dice, la voce piatta.
— Sono venuto.
Sorride. — La cuginetta del cuore non è riuscita a spomparti come si deve?
— Il discorso cade sempre lì, eh? Rasenti l'ossessione.
— Che c'è di male se mi piace parlare di sesso?
— Non stai parlando di sesso, ma di me e mia cugina.
Arriccia le labbra con finto disappunto. — È la stessa cosa.
— Non è la stessa cosa.
— Comunque ho troppa voglia. Ma tu non vuoi fare niente.
— Non sono un giocattolo. Trovati un altro.
— Che palle, sempre a fare il prezioso. — Sbuffa seccata. — Sono troppo stressata e mi serve una sveltina.
La guardo. — Tu hai un problema.
— Sei tu che hai un problema.
— Ah, sì?
— Nessun ragazzo rifiuterebbe di fare l'amore con me.
— Forse perché non sono un ragazzo, ma un uomo.
Paula smorza una risata divertita. — Tu sei solo un cretino. Ecco cosa sei.
Sposto lo sguardo sulla strada sottostante. — Può darsi. Chi lo sa.
— Più resisti, più mi fai venir voglia.
Alzo gli occhi al cielo esasperato. — Io non resisto. Semplicemente non ho voglia.
Mi dà un colpetto affettuoso sul braccio. — Lo tieni ben conservato per la tua cuginetta del cuore, vero?
— Certo che sei proprio fissata...
— Ho capito. Forse ho capito...
Mi volto a guardarla. — Che hai capito? Sentiamo.
— Venire con me equivale a tradirla, giusto?
No. Se fosse così, non avrei fatto sesso con Ilaria. Non l'avrai quasi uccisa, soffocandola. Questa volta ha toppato. Non mi ha letto come un libro aperto. — Forse.
— Forse? Quindi è un no. Ma certo, te lo si legge in faccia.
Non rispondo.
— Suppongo che non hai problemi se... — dice mentre mi afferra una mano. — Oggi fa un po' freddino. Conosco un posticino sicuro, dove...
Ritraggo la mano. — Piantala. Non mi va.
Mi riafferra la mano. Più decisa. — Sei proprio palloso! — E mi trascina fuori dalla terrazza. Non oppongo resistenza. Anzi, la seguo. Non ho voglia, ma la seguo.
Percorriamo il corridoio, attraversiamo i cubicoli vuoti e varchiamo una porta laterale. È un piccolo ufficio in disuso usato come magazzino. Regna la penombra. Le tende alla finestra sono tirate. Le veneziane chiuse. Scatoloni di cartoni ovunque. Diverse sedie. Tre scrivanie. L'aria odora di chiuso, di carta, di legno.
Paula mi porta dietro le due scrivanie sopra cui ci sono altri scatoloni. Da qui, possiamo vedere chi entra senza essere visti. Non che serva a qualcosa. Se ci beccano, ci beccano. Punto. E non possiamo certo dire che stavamo solo prendendo una boccata d'aria.
Paula si stringe a me, mi bacia il collo, una mano sul mio pene dietro i pantaloni. Mi diventa duro. Lei lo stringe un po', lo palpa.
Io non mi muovo. Resto immobile. Ho la mente invasa da mia cugina, dalla scena di stamattina. Lei che mi smonta pezzo dopo pezzo. Un pensiero che si ripete ancora è ancora.
Paula mi slaccia la cinta, mi abbassa pantaloni e mutande, si inginocchia e se lo mette in bocca. La sua lingua si muove attorno al mio glande, la sua saliva cola lungo l'asta del pene.
Metto entrambe le mani sulla sua testa e affondo l'uccello in profondità nella sua bocca. Comincio a muovere il bacino, i suoi occhi sollevati verso di me. Sento il rumore della sua saliva, del suo respiro. Poi la faccio alzare, le abbasso pantaloni e mutandine e mi inginocchio. Ci guardiamo negli occhi un momento e le lecco il clitoride. È duro. Caldo. Lo lecco lentamente mentre la penetro con due dita a forma di uncino. Dentro, è una fornace. Fradicia. Muovo le dite come se la stessi chiamando a me, i polpastrelli che accarezzano il suo interno.
Lei pianta una mano nei miei capelli, li stringe, si contorce mentre ansima. Le sue gambe cominciano a fremere, il suo bacino preme contro il mio viso. Ho le labbra tutte arrossate, bagnate.
Poi mi viene in faccia. Letteralmente.
Sposto il viso bagnato, lordo dei suoi liquidi. Paula continua a tremare, il corpo teso, il viso rilassato, una mano sulla bocca. Mi rimette di nuovo il viso sulla sua vagina, ci preme contro. Ricomincio a leccare le grandi labbra, poi salgo al clitoride. Infilo di nuovo due dita dentro, le muovo lentamente. Lei geme, rafforza la presa sui miei capelli. E mi viene di nuovo in faccia. Un getto d'acqua forte, intenso. Si mantiene alla scrivania con le mani, il sedere poggiato sopra, mentre il suo corpo freme con le gambe spalancate.
Poi resta ferma a guardarmi per un momento, lo sguardo sfatto. Mi prende per un braccio, mi tira a sé e guida il mio pene nella vagina. È caldissima. Fradicia. Lo facciamo in piedi. Lei muove i fianchi contro di me mentre mi bacia il collo e la mascella. Non resisto più di dieci secondi. Con lei è impossibile di più. La sua vagina non ha pietà di me.
Tiro fuori il pene e le vengo sull'addome.
Paula mi guarda malissimo. — Sei già venuto?!
Abbasso lo sguardo. Non rispondo.
— Ogni volta fai così — dice irritata. Prende dei fazzoletti dalla tasca dei pantaloni e si pulisce l'addome. Poi mi afferra l'uccello, mi fissa torva e se lo infila dentro. Mi abbraccia, geme.
La stringo a me con un braccio mentre muovo due dita sul suo clitoride. Comincio a spingere i fianchi. Colpi lenti, secchi. Poi più veloci, più intensi. Le braccia di Sarah si serrano attorno a me con forza, il suo viso affonda sul mio petto. Muove il bacino con più intensità. Colpi secchi, veloci. Lei ansima, geme. Io continuo a spingere. Le vengo dentro. Ma continuo a muovermi per un po'. Poi le un ultimo colpo deciso di bacino e mi fermo.
Non fiatiamo. Restiamo abbracciati per un po', i respiri che danzano nella stanza.
Lei si stacca da me, si pulisce la vagina con un fazzoletto e si rimette mutandine e pantaloni. Mi tocca la punta del naso con un dito in modo giocoso. — Beh, ora sto molto meglio.
Mi rimetto mutande e pantaloni. Non rispondo.
Lei raggiunge la porta, la apre e sbircia fuori. Mi fa segno di andare.
Usciamo dall'ufficio in disuso e ci incamminiamo lungo il corridoio.
— Visto? — dice lei.
— Cosa? — rispondo.
— Che è divertente farlo.
— Ti ricordo che l'ultima volta hai detto che non potevi farlo più con me.
— Certo che ti segni tutto.
Ci fermiamo vicino ai cubicoli vuoti dell'ufficio.
— Non è che mi segno tutto, — dico — è che mi sembravi seria in quel momento.
— Lo ero. Poi... poi ho cambiato idea.
— Perché?
Mi fissa per un momento. Non vuole dirmelo, si vede. Non vuole parlare di Ettore. Deve essere accaduto qualcosa di sicuro.
Distolgo lo sguardo. — Lascia stare. Me ne torno nel mio ufficio.
— Ettore se n'è andato — dice, la voce bassa, quasi piatta.
— Oh... mi dispiace.
Lei mi tira uno schiaffetto sul braccio. — Che hai capito?
— Eh?
— Non è morto. Si è trasferito in Spagna.
Mi acciglio confuso e turbato. Pensavo davvero che fosse morto. — In Spagna?
— Me l'ha detto mio fratello. È andato lì per stare con i nonni.
— Ah, capisco.
Lei alza lo sguardo al soffitto pensierosa. — Ho pensato di andare a trovarlo, a dire la verità.
Non rispondo.
Abbassa lo sguardo a disagio, le guance arrossate. — Ma cosa gli dirò?
— Beh, non sarebbe meglio mettersi in contatto prima?
— Sì, ma...
— Ma?
— Forse è meglio non fare niente.
— Potresti pentirtene.
— Lo so. Forse è meglio guardare avanti.
La fisso. Dovrei fare la stessa cosa. Lasciare andare mia cugina e guardare avanti. Sarebbe tutto più semplice. — Quindi... hai deciso?
Lei fa spallucce, arriccia le labbra. Se ne va.
Lasciarmi su due piedi è proprio nel suo stile.
Verso le cinque e mezza di sera la incontro di nuovo davanti all'ascensore. C'è altra gente. Uomini e donne. Un brusio continuo, quasi insopportabile. Le porte dell'ascensore si aprono, entriamo. Qualcuno pigia il bottone per il piano terra. L'ascensore comincia a scendere. Il brusio non cessa.
Guardo Paula di sottecchi. Lei sta facendo la stessa cosa. Incrocia il mignolo con il mio. Lo tiro indietro. Lei smorza una risata mentre i colleghi, ignari, si voltano confusi verso di lei.
Le porte si aprono. Usciamo e attraversiamo l'atrio punteggiato di gente.
— Mi fai morire — dice lei con un sorriso.
Le lancio un'occhiata. Non rispondo.
— Dovevi vedere la tua faccia — continua lei mentre ridacchia. — Eri tutto rosso. E i tuoi occhi poi... — Ridacchia ancora. — Se non fosse che l'abbiamo fatto un paio di volte, penserei che tu sia un verginello.
La guardo male. Non fiato.
Usciamo dall'edificio, percorriamo il vialetto di siepi e alberi e ci fermiamo in mezzo al marciapiede. Le auto sfrecciano sulla strada. Le persone ci passano accanto indaffarate. Il cielo si è aperto.
Lei alza una mano, muove le dita con fare infantile. — Aur Revoir!
La guardo allontanarsi per un po'. Poi mi volto e vado via.
Verso le otto di sera mi chiama Ilaria mentre mi sto sistemando la barba allo specchio. Guardo lo schermo del cellulare, il rasoio che corre sulla guancia sinistra. Il marmo del lavabo trema sotto la vibrazione del cellulare.
Spengo il rasoio, prendo il cellulare e me lo porto all'orecchio. — Sì?
— Sei a casa? — chiede, la voce fredda.
— Sì. Perché?
— Vieni da me.
Mi acciglio. — Tutto bene?
Riaggancia.
Guardo lo schermo per un momento. Lo appoggio sul lavabo e torno a radermi.
Un'ora dopo sono davanti al cancello pedonale di Ilaria. Citofono. Il cancello vibra. Mi ha aperto senza nemmeno accertarsi chi fossi.
Entro, attraverso il vialetto costeggiato di alberi e cespugli e varco la porta della villa dalle pareti a vetri.
Ilaria è sdraiata sul divano. Indossa un paio di leggings neri e una maglietta bianca. Sta guardando un film sulla TV a schermo piatto da più di mille euro. Sa che sono entrato. Mi ignora.
La raggiungo. — Stai bene?
Volta il viso verso di me. È meno sgonfio rispetto a prima. I capillari rotti attorno al naso e sotto gli occhi sono diminuiti. Ma il collo resta violaceo. — Oggi avevo intenzione di andare al Destiny.
Mi siedo accanto ai suoi piedi allungato sul divano. Non rispondo.
Sposta lo sguardo sulla TV. — Forse è meglio se resto a casa. Non posso farmi vedere in queste condizioni. I nostri amici parlerebbero.
— Ti senti meglio? — domando.
Mette i piedi sulle mie cosce. — Mi fai un messaggio?
Prendo il piede sinistro e comincio a massaggiarlo.
Un lungo silenzio.
Fuori, un gufo bubola. Poi la pubblicità di una brioche. E altre ancora.
Cambio piede. Lo massaggio. — Oggi Federica mi ha chiesto di te.
Ilaria non si volta, gli occhi sulla TV. — Che ha detto?
— Che non ti sei mai assentata dal lavoro.
— Che le hai risposto?
— Niente.
Altro silenzio.
Appoggia i piedi a terra e si stende verso di me, la testa in mezzo alle gambe. Sento un lato della sua faccia premere sul mio pene. Lei lo sa. Lo sento indurirsi. Ma non fa nulla. Non dice nulla. Poi allunga la mano sul cellulare sul basso tavolino, va su Netflix e cerca un film. — Che vuoi guardare?
— Scegli tu.
Cerca per un po'. Si sofferma sulla locandina dei film, poi sulla trama. Ne scarta parecchi. Passa quasi un'ora. Fuori, il gufo bubola ancora.
— Mettine uno a caso — dico, il tono un po' seccato. — Tanto sono tutti uguali.
Ilaria mi ignora. Sulla tv, una locandina e una scritta, il mio anno a Oxford. Preme play. Il film parte. Si sistema meglio la testa sulle mie gambe. Il mio pene duro preme contro il suo orecchio.
— Che film è? — domando.
— Un film.
— D'amore?
— Sì, così pare.
— L'hai già visto?
Allunga un braccio alla cieca verso di me e mi tocca il viso finché mi tappa la bocca con una mano. — Sssh.
Me la tolgo. Guardo il film.
Mi annoio per circa un'ora e mezza. Il film non è male. Anzi, è fatto bene. Ma non sono dell'umore giusto. Ilaria non si è sposta di un millimetro da me. La sua testa è rimasta appiccicata sulle mie gambe, il suo orecchio sul mio pene. Il mio uccello è rimasto duro per tutto il tempo come il gufo che bubbola fuori.
Il film finisce. Titoli di coda.
Ilaria si alza leggermente da me, mi guarda. — Non si è addormento per niente, eh?
Non rispondo.
Mi abbassa i pantaloni, prende il mano il mio pene e lo tira fuori da sotto i boxer. Le sue dita sono fredde. — Non ti dispiace, no?
Il mio sguardo cade sul suo collo violaceo. Non fiato.
Ilaria se lo mette in bocca. Le sue labbra corrono lungo l'asta del pene, la sua lingua gira attorno al mio glande. Succhia lentamente, gli occhi nei miei. La sua saliva inizia a colare sul mio inguine.
Appoggio la testa sul divano e allargo le gambe, una mano sulla sua spalla, l'altra che penzola giù dal bracciolo. — Sto venendo.
Non si sposta. Continua a succhiare.
Faccio per allontanare la testa, ma scaccia la mia mano. Mi irrigidisco, tendo il bacino contro la sua testa. Le vengo in bocca. Poco. Quasi acqua. Ho dato tutto con Paula, oggi.
Le labbra di Ilaria continua a fare su e giù per una decina di secondi. Poi si tira su, apra la bocca per farmi vedere il liquido e lo inghiotte con un sorriso compiaciuto.
La guardo stranito, turbato. Non parlo. Non so se sia una sorta di devozione malata nei miei confronti oppure non so. Ormai una cosa vale l'altra.
Lei si pulisce le labbra sbavate con le dita, si alza e va in bagno.
Resto con il pene ancora duro sul divano mentre le guardo il piccolo sedere a mandolino da dietro. I leggings lo modellano, lo fanno risaltare. Mi vien voglia di sfondarlo.
Scuto la testa e chiudo gli occhi. Il gufo sta ancora bubolando, fuori. L'unico suono in mezzo alla quiete.
Mi addormento.
Sale in auto, mi guarda. — Pensavo fossi andato via.
Accendo il motore. — Ti riporto a casa.
— Stai bene?
— Tu stai bene?
— Non mi hai risposto.
Mi dirigo verso l'uscita del piazzale. — Cosa ha detto il dottore?
— Che hai?
— Non è niente di serio, giusto?
— Vuoi dirmi che hai? Sei strano?
Mi fermo per uscire dal piazzale, le auto che sfrecciano da ambo i lati. — Sto bene.
— Non stai bene. Voglio dire, prima di entrare nella clinica non avevi quello sguardo.
Osservo i veicoli passare. — Che sguardo?
— Come se tu abbia visto un fantasma.
— Sono solo preoccupato per te.
Ilaria mi fissa. Non mi crede. — Può darsi, ma ti è successo qualcosa dopo che sono andata via.
— Ti ho aspettata per tutto il tempo. Cosa doveva succedermi?
Il suo sguardo si fa più opprimente. — Non lo so.
La strada si libera.
Mi immetto nella corsia di destra. — Che ha detto il dottore?
— Non te lo dico, se non mi dici prima cos’hai?
Sbuffo irritato. — Te l’ho detto, sono solo preoccupato per…
— Me?! — dice con una punta di acidità. — Pensi che me la beva? C'è altro? C'è sempre altro con te!
— Senti…
— No, sentimi tu! — urla, il viso rosso dalla rabbia. — Mi hai quasi uccisa! E ora devi assumerti le tue responsabilità.
Le lancio un’occhiata fugace. — Lo farò, ma non nel modo che pensi tu.
— E quale sarebbe il mio modo?
— Non lascio Sarah per te.
Silenzio. Un lungo silenzio.
Sento i suoi occhi penetrarmi nella carne, nelle ossa. Li sento strisciare verso il mio cuore, avvolgerlo in una stretta mortale come un pitone. La sua voce si fa piatta, scandita. — Devi. Assumerti. Le tue. Responsabilità.
— È una minaccia?
Si limita a fissarmi.
— Lo prendo come un sì.
Solleva il foulard, il collo violaceo, ci punta il dito. — Guarda cosa mi hai fatto? Guarda!
— Stai giocando la carta della vittima? Non cadere così in basso. Non è da te.
Si riabbassa il foulard, gli occhi che ribollono d’ira. Non risponde. Sta pianificando. Lo fa sempre.
Mi fermo al semaforo rosso.
Ilaria apre la portiera e scende.
— Ma che fai!? — grido dall'abitacolo.
Si incammina tra le auto ferme, la testa bassa, una mano sul foulard.
Scendo dalla macchina e le corro dietro. La fermo per un polso. — Ehi, sali in auto.
Lei lo ritrae di colpo. — Lasciami!
La gente sui marciapiedi si ferma a guardarci. Quella nei veicoli anche. Un bell’uomo sui vent’anni apre la portiera, un piede e la testa fuori. Lo sguardo rivolto a Ilaria. — Tutto bene?
Lei si dirige da lui. — Mi può dare un passaggio, per favore?
Lui esce dall’auto, la guarda un po' strana per via della faccia gonfia, i capillari rotti attorno al naso che non possono essere coperti dagli occhiali. — Certo, entri.
La blocco di nuovo per il polso. — Ehi, che ti prende? Perché stai facendo così?
Si libera dalla presa. — Non toccarmi! Lasciami stare!
Faccio per riprenderla, ma il tizio si frappone tra me e lei. Faccio una smorfia nervosa. — Non sono affari tuoi.
Scatta il verde.
Nessun veicolo si muove. Le persone sul marciapiede si avvicinano per osservare.
Ilaria si mette dietro di lui.
Il tizio si gasa, avvicina il viso al mio. — Lasciala stare.
Lo ignoro. Faccio per superarlo, ma mi spintona via. Faccio un ghigno. — Toccami un'altra volta e ti lascio a terra!
Il tipo sogghigna, si avvicina. Fa per tirarmi pugno.
Ilaria gli blocca il braccio. — Non ne vale la pena.
Lui si volta, la guarda. Poi volta verso di me con fare torvo. Mi punta il dito per dirmi qualcosa, ma non fiata.
La gente rumoreggia.
Ilaria lo tira per un braccio. — Andiamo. Accompagnami a casa.
Lui la conduce alla portiera anteriore, la apre.
Mi avvicino a loro, guardo Ilaria. — Se entri in quella macchina, io e te avremo finto. Per sempre.
Un impercettibile sorriso compiaciuto le sfiora le labbra. Forse pensa che sia geloso, ma si sbaglia. — Vattene da Sarah! Non voglio più vederti!
La fisso per un momento, il brusio della gente tutt’attorno. Mi giro e mi dirigo verso la mia macchina. Quando faccio per entrare, una mano mi blocca il braccio, mi fa girare.
Un pugno in pieno volto.
Sbatto contro la portiera e cado a terra. Le orecchie mi fischiano, la vista sfuocata. La sagoma del tizio troneggia su di me. Fa per tirarmi un calcio.
Ilaria lo blocca. — Fermo — dice.
La gente si preme attorno a lui. Alcuni si mettono in mezzo, lo allontanano.
Ilaria si china su di me, mi controlla il viso con una mano. — Stai bene?
Le sue parole arrivano ovattate. L’udito continua a fischiare. Scaccio la sua mano, il labbro superiore spaccato, sanguinante. Mi asciugo il sangue con il dorso della mano e smorzo un gemito di dolore. Faccio per alzarmi, ma ricado frastornato sul posto.
— È tutta colpa mia… — dice Ilaria mentre mi stringe una mano.
La ritraggo, l’appoggio sulla portiera e mi alzo lentamente.
Lei mi prende sottobraccio. — Scusa...
Mi libero dalla presa in modo brusco, apro la portiera ed entro in macchina.
Un anziano si china dietro il finestrino, mi guarda. — Sta bene?
Annuisco, le mani sul volante, il motore ancora acceso.
Fuori, il tizio che mi ha colpito grida qualcosa contro di me. La gente lo attornia. Guarda me. Guarda lui. Poi la sua voce diventa più chiara, più alta. — Avete visto quella ragazza?! Avete visto la sua faccia?! È stato quel tipo là a conciarla così, ne sono sicuro!
Le persone mi fissano. I loro sguardi sono guardinghi, severi. Stanno riflettendo. Si chiedono se sia davvero così, oppure no?
Ilaria apre la portiera e si siede accanto a me. — Andiamo.
— Scendi.
— Senti, mi dispiace.
— Ti ho detto di scendere!
I suoi occhi si restringono irati, mi tira un pugno sul braccio. — Parti! Vai!
La guardo di traverso. Malissimo. Non fiato. Lei regge lo sguardo.
Scatta di nuovo il verde.
La gente si avvicina alla mia macchina. Il tizio sui vent'anni che mi ha colpito in testa.
Ilaria mi dà un altro pugno sul braccio. — Parti, cretino!
Schiaccio il piede sull'acceleratore, senza pensarci. Parto.
Le persone urlano alle mie spalle, mi inseguono per un paio di metri.
Guido per una decina di minuti, poi accosto. Mi porto una mano sulla fronte, la testa mi sta esplodendo.
— Guido io? — domanda Ilaria.
— Devi smetterla di comportarti così — rispondo, la voce carica di rabbia.
— Allora non farmi incazzare!
Sospiro, gli occhi bassi. — Hai degli sbalzi d’umore da psicopatica.
Mi afferra per un braccio, mi guarda dietro i suoi occhiali da sole. — Mi stai dando della matta?!
La guardo. Faccio per rispondere, ma il mio sguardo cade sul lembo del collo violaceo che emerge da sotto il foulard. Mi libero dalla presa e scendo dall’auto. Fisso l’altra parte della strada, il marciapiede semivuoto. I veicoli sfrecciano lungo le quattro corsie.
Ilaria scende, mi raggiunge. — Ti ho detto che mi dispiace, ok?
Un tir passa lungo la corsia. Lo spostamento d’aria ci colpisce in pieno viso come un raffica di vento improvviso. Il suo foulard si stacca, vola via verso il centro della strada come risucchiato dall’aria.
Lei sobbalza e si copre il collo violaceo con una mano. Attraversa per prenderlo.
Una taxi sta arrivando a tutta velocità verso di lei. Ilaria si volta nella sua direzione.
La prendo per il polso e la tiro verso di me. Il taxi le sfreccia accanto e prosegue spedito con colpi di clacson.
Lei urta la fronte contro il mio mento. Smorzo un grido di dolore.
Pure lei. — Il mio foulard! — urla.
— Sei scema? — domando furioso. — Vuoi farti mettere sotto!?
Si copre il collo con entrambe le mani, osserva il suo foulard volare qua e là per lo spostamento d’aria dei veicoli. — Il foulard…
Scuoto la testa e salgo al posto di guida. La guardo attraverso il finestrino aperto. — Dai, sali.
Fissa ancora un po’ il foulard finito chissà dove. Rientra dentro, si mette la cintura. — Sarah resterà in Grecia.
Così, di colpo. Un missile terra-aria non rintracciato diretto contro un bersaglio preciso. Me.
Mi acciglio turbato. — Era... era questo che volevi dirmi prima?
Non risponde, lo sguardo fuori dal finestrino metà aperto.
— Te l’ha detto tuo nonno?
— Accompagnami a casa.
— Rispondi. Era questo che…
— Grazie per prima. Non ho visto il taxi.
La fisso ancora un po'. Poi riprendo a guidare, la testa che mi scoppia più di prima.
Dopo un po' mi fermo davanti al cancello della sua villa.
Lei non scende, una mano sul collo violaceo, l’altra stretta sulla cintura. In strada, il deserto punteggiato di veicoli di lusso.
La guardo, il labbro spaccato dolorante. — Sarah... Lei...
— Devi dirmi come fai... — risponde lei, la voce piatta.
— A fare cosa?
Si volta, gli occhi freddi nei miei. — A farmi perdere il controllo.
— Sei tu che impazzisci da sola. Lo fai sempre. Ogni volta.
Il suo viso si accende. — Lo faccio solo con te! Anche ora!
— Lo vedi che fai tutto tu?
— Io non faccio proprio niente. Sei tu che mi fai...
— Hai sbalzi d’umore. Sei lunatica. Non è colpa mia se sei così!
Mi tira un pugno sul braccio. — È tua soltanto! Mi fai imbestialire!
— Allora non farlo. Non ascoltarmi.
— Io ti ascolto sempre.
— Appunto. Non farlo
I suoi occhi si fanno minacciosi. — Dimmi come fai?
— Ancora?
— Dimmelo! — urla, la voce graffiata.
— Te l’ho detto, io non faccio proprio niente.
— Sei tu che mi spingi a fare così, non io. Come fai!? Dimmi come fai!?
— Calmati...
— Sono calmissima! Sei tu quello agitato!
— Lo vedi? Io non faccio niente. Ti arrabbi da sola.
Ilaria sbuffa dal nervoso e comincia a tossire in modo violento.
— Ehi — dico preoccupato. — Non ti...
Mi spinge via con una mano e continua a tossire diverse volte. Smette. Mi fissa. — Hai troppo potere su di me. E non mi piace.
Mi passo una mano sulla faccia frustrato mentre poggio la testa sul poggiatesta del sedile. — Dici sempre le stesse cose. Da quando abbiamo fatto l’amore per la prima volta, tu…
— Il sesso — dice, la voce stupita. — Mi tieni incatenata con quello.
— Tu mi ami. È quella la tua catena. E lo sai perfettamente. Perciò, non fingere di non sapere. Non dirmi come faccio, perché io…
— Anche tu mi ami! O non saresti qui.
Silenzio. Assoluto. Palpabile.
Stringo le dita attorno al manubrio fino a farmi venire le nocche bianche. — Ti rendi conto che ogni volta finiamo per parlare delle stesse cose?
— Non credi che significhi qualcosa? — risponde, gli occhi decisi, seri.
— Può significare tutto e niente.
— Per quanto tu possa resistere, mandarmi via o altro, siamo legati. E questo legame durerà per sempre.
Sospiro. Non rispondo.
— Puoi anche sposarti con tua cugina o con chissà chi, ma non troncherai mai con me. Mi cercherai, mi vorrai. E io farò lo stesso.
Mi massaggio gli occhi con i polpastrelli. — Spiegami una cosa. Come fai a passare dalla modalità pazza alla modalità lucida in una frazione di secondi?
Il suo viso freme di rabbia finché esplode in una risata divertita e rabbiosa. Mi prende a schiaffi. Colpi leggeri, quasi carezze. — Sei uno stronzo! Un cretino!
Rido anch'io. — Ahia! È la verità!
Mi picchia per un po’. — Cretino! — E mi abbraccia come se volesse essere assimilata da me. Mi stringe così forte che sputo l'aria dai polmoni. Affonda la testa nel mio petto. — Sarah vuole restare lì.
Mi acciglio, fatico a respirare. Non per la sua stretta, ma per ciò che ha detto. — Come... come lo sai?
— Me ne ha parlato mio nonno. Non mi ha detto il motivo. Ha detto solo che vorrebbe restare lì.
Mi libero dal suo abbraccio, la guardo negli occhi. — Perché?!
Lei mi fissa. Nei suoi occhi intravedo un velo di tristezza. Non mi risponde subito. — Non lo so.
Sposto lo sguardo verso il nulla. — Io... Lei... No, non ci credo. — La guardo. — Stai mentendo. Vuoi farci litigare!
Ilaria appoggia le spalle allo schienale del sedile, incrocia le braccia sui seni. — Sei ridicolo...
— Ridicolo? Tu stai...
Scatta la testa verso di me e smorza un gemito di dolore. Si porta una mano sul collo violaceo. — Mi stai facendo imbestialire! Di nuovo!
— E tu stai cercando di...
— Non sto facendo proprio niente! — urla, la voce roca, graffiata. Tossisce. Più volte.
Corrugo le sopracciglia. Non parlo.
Mi tira un pugno sul braccio. Forte.
— Ahia! — grido. Mi massaggio il punto colpito. — La finisci di alzarmi le mani, cazzo?!
— Sei ridicolo!
Sbuffo seccato. — Credi che mentendomi io...
Si lancia contro di me, gli schiaffi che volano e colpiscono ovunque. Braccia, petto, viso. — Sei tu che non capisci!
Le blocco i polsi, i nostri visi vicinissimi. — Smettila! — dico piano.
— Non ti ho mentito — risponde lei, gli occhi fissi nei miei.
Il suo alito mi sfiora il viso, sa di mente. I suoi occhi non mentono. Lo capirei. Mollo la presa dai suoi polsi, mi volto dall'altra parte. Non rispondo.
Lei resta china su di me, il suo respiro che accarezza un lato della mia faccia. — Ecco perché non te lo volevo dire. Ormai reagisci sempre così. Mi dai la colpa di tutto.
Non fiato. Osservo una donna di mezz’età affacciarsi al balcone. Lei guarda giù in strada, poi verso di me. Mi fissa. Sicuramente trova strano che una macchina comune come la mia sia davanti al cancello di una villa. Stona parecchio. Distoglie lo sguardo e rientra dentro.
Ilaria si rimette seduta. — Tu non ci sta più con la testa, te lo dico io.
Non rispondo. Ha ragione. Quando si tratta di Sarah, ormai, perdo la testa.
— Se non te ne ha parlato, vuol dire che...
— Non vuol dire niente.
— Di certo non vuole che tu lo sappia.
— Se non voleva, allora perché era d'accordo che la raggiungessi per un mese?
— È un mese. Non una vita.
Mi volto a guardarla. — Tu vuoi questo, no?
— Ora perché te la stai prendendo di nuovo con me?
Distolgo lo sguardo. Non lo so nemmeno io perché. Mi viene in automatico.
— Pensi ancora che sia io il problema tra voi due? — domanda Ilaria, la voce graffiata.
— Non penso niente.
— Come no.
— Comunque siamo davanti casa tua, se non te ne sei accorta.
Non risponde subito. Il tono un po' acido. — Sei proprio immaturo. Un cretino.
— Grazie.
— Uno stronzo!
Sospiro. Non rispondo.
— Ti ho dato tutta me stessa — dice risentita.
— Non iniziare.
— Non sto iniziando. È un dato di fatto.
Mi volto a guardarla negli occhi. — E quindi? Ora mi dirai di lasciar perdere Sarah e di stare con te? Non vuoi dirmi questo?
Sposta lo sguardo altrove. Non risponde.
— Lo vedi perché penso che mi menti quando parli di lei? Il tuo obiettivo è sempre quello.
Sbuffa in una smorfia. — Obiettivo? Non c'è nessun obiettivo. Sai bene cosa provo per te. Sto solo cercando di ficcartelo bene in testa.
— Lasciamo stare.
Mi fissa dietro i suoi occhiali da sole per un momento. Poi si volta e scende dall’auto. Non si gira. Tira dritto verso il cancello pedonale, lo apre e ci sparisce dietro.
Guido per la città. Strade secondarie. Poco traffico, poca gente. Ho la mente in subbuglio. Perché Sarah non me ne ha parlato? E se è vero, perché vuole restare in Grecia? E per colpa mia? Per non essere tentata da me? No, forse mi sto rendendo troppo importante. Forse vuole solo restare lì. Ma perché allora?
Mezz’ora dopo accosto la macchina davanti casa di mia cugina. Guardo le finestre su cui si riflette il cielo. Le tende sono tirate. Forse è al lavoro. Lavora stamattina? Non me lo ricordo.
La gente passa lungo il marciapiede. Alcuni incrociano il mio sguardo per un attimo. Poi si allontanano, altrove, persi chissà dove. Un bambino, mano nella mano con la madre che parla al cellulare, mi guarda, mi indica. La madre non fa caso a me, se lo tira dietro. Spariscono.
Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrivo un messaggio a Sarah. “Mi hanno dato un mese. Non vedo l’ora di passarlo insieme.” Cancello tutto.
Ilaria ha ragione. Sono patetico. Il re dei patetici.
Poggio la testa sul poggiatesta, gli occhi persi sul tettuccio. Li chiudo mentre serro una mano a pugno. Stringo così forte da far diventare le nocche bianche. Poi tiro un lungo sospiro. Apro gli occhi, scorro la rubrica del cellulare e chiamo Sarah. Me lo porto all'orecchio.
Squilla sei volte.
— Pronto? — dice lei. Nessun rumore di fondo. Forse non è al lavoro
— Ehi... sei... sei a casa?
— No, perché?
— Volevo... Ecco, volevo parlarti.
— Di cosa?
— Quindi non sei a casa?
— Sono con mia madre.
— Con tua madre?
Mia cugina non risponde subito. — Di cosa mi vuoi parlare?
— Di…
Bussano sul finestrino.
Mi volto. Ed eccola lì, Sarah. Il suo sorriso mi penetra dentro come una lama affilata. Accanto, mia zia, sua madre. I suoi occhi guardinghi mi scrutano da cima a fondo. Una maschera di bronzo. Zero espressione.
Abbasso il cellulare, un sorriso da idiota su volto. — Ehi...
— Che ci fai... — dice Sarah, ma si ammutolisce subito. Guarda sua madre.
Lei guarda me, poi lei. Non fiata, lo sguardo inquisitore.
— Ero... — dico nervoso — ero di passaggio. Un mio amico abita più avanti, perciò...
— Un tuo amico? — domanda mia zia, la voce piatta.
— Sì, a due isolati da qui — mento.
Mia zia guarda sua figlia, poi me. — Hai chiamato Sarah e poi ti trovo davanti al suo appartamento...
— Mamma — dice mia cugina seria, il tono che tradisce un po' di ansia.
Il viso di mia zia si rilassa in un sorriso. — Niente, niente. Non sapevo che voi due… Voglio dire, vi chiamate al cellulare. Dovete essere... vicini.
Il mio occhio cade sulle sue tette. Abbasso lo sguardo per la vergogna, l'immagine onirica dei suoi seni nudi echeggia ancora nella mia mente. Però nella sua voce non c’è malizia. Anzi, sembra felice. E non penso stia mentendo. Mia zia non è brava come mia madre a fare buon viso a cattivo gioco.
— Siamo amici — dice mia cugina.
Sollevo gli occhi, incrocio i suoi. Guardo mia zia. — Sì, siamo amici.
— Mi fa piacere — dice lei. — Da piccoli eravate molto affiatati. Ricordo che giocavate sempre nella macchina di tua padre. — Guarda entrambi. — Vi ricordate?
Un tuffo al cuore. Lo ricordo benissimo. E lei come fa a ricordarlo?
— Mamma... — dice Sarah.
Mia zia sorride, scaccia l'aria con una mano. — Eravate così piccoli.
— Mamma!
— Va bene, va bene.
Cala un silenzio pesante.
Gli occhi di mia zia mi fissano. Sorride, ma dietro quel sorriso non c'è sospetto. Eppure poco fa avrei giurato che ce l'avesse spiaccicato in faccia.
— Mamma — dice mia cugina. — Andiamo.
— Ma non ti aveva chiamato?
Ecco, la domanda insidiosa.
— Sì, ma...
— È anche venuto sotto casa tua. Dev'essere importante.
Sarah sposta lo sguardo su di me, gli occhi che chiedono aiuto.
— Zia, — dico — sto aspettando un amico.
— Un amico? — domanda lei, la voce curiosa. — Non hai detto che eri nei paraggi? Che il tuo amico abita più avanti?
Distolgo lo sguardo. Non so bene cosa dire. — Sì, infatti... Infatti lo sto aspettando.
— E lo aspetti qui? Non più avanti? Sotto casa sua magari? Oppure non c'è parcheggio?
Perché è diventata improvvisamente così sospettosa? Non penso sappia di me e Sarah o mi avrebbe ammazzato.
Sarah afferra per un braccio sua madre. — Mamma, andiamo. O arriveremo tardi alla posta.
Mia zia la guarda. — Oh, sì. Che sbadata. — Guarda me. — Salutami tua madre.
— Sì, certo, zia.
Mi guarda ancora per un momento e si allontana con Sarah. Lei, appiccicata con un braccio alla madre, non si volta nemmeno una volta.
Mi passo una mano sul viso ansioso. Perché ho la strana sensazione che mia zia abbia capito qualcosa? E da cosa poi? Non è così acuta come mia madre. Forse è tutto nella mia testa. Magari le è sembrato solo strano che io e mia cugina ci siamo ravvicinati, oppure che fossi sotto il suo appartamento.
Faccio per mettere in moto, ma il motore è già accesso. Non me ne sono nemmeno accorto Non ci sto proprio con la testa. Pigio l'acceleratore, mi allontano.
Verso le undici e mezza di sera esco dal bar, il cellulare in mano. Chiamo Sarah. C'è poca gente dentro. Serata moscia come la musica.
Squilla diverse volte. Non risponde. Forse è ancora occupata. La richiamo mentre mi guardo intorno. Altri squilli. Niente. Rimetto il cellulare in tasca e rientro dentro, la musica house un suono di fondo, fastidioso.
Paula è seduta insieme ai miei amici. Parla, ride. Sembra stare bene. Ma può essere una facciata.
Mi siedo accanto a loro. Stanno parlando di un film giapponese o forse coreano. Non lo so, non m'importa. Non partecipo alla discussione. Lo faccio raramente. Bevo la pinta di birra e fisso la schiuma nel bicchiere per il resto della serata. Forse dovevo chiamare Sarah prima che iniziasse a lavorare. Ma tra un po' staccherà, quindi mi chiamerà lei.
Verso l'una vanno via tutti. Nessuna chiamata da parte di mia cugina. Nessun messaggio. Ho controllato il cellulare quasi ossessivamente per tutta la serata. Paula l'ha notato, i suoi occhi parlavano da sé.
Esco dal locale insieme a lei e ci incamminiamo lungo il marciapiede. Su una panchina, una coppia sta limonando.
— Tra poco pioverà — dice Paula, lo sguardo al cielo nero.
— Come lo sai?
— Ho controllato l'app del meteo.
Proseguiamo in silenzio per un po'. Un auto sfreccia lungo la strada con la musica a palla.
— La tua cuginetta del cuore non ti ha risposto? — chiede Paula, il tono canzonatorio.
— Mi sembrava strano che non mi stessi prendendo in giro.
— Non ti sto prendendo in giro.
— Come no.
Ci fermiamo davanti alla sua auto.
— Vieni da me? — chiede lei come se mi stesse domandando di andare a mangiare un gelato.
— Non avevi detto che era l'ultima volta.
— Ho cambiato idea.
La fisso negli occhi. — È successo qualcosa, vero?
Lei sbuffa seccata. — Ed ecco arrivare il prode cavaliere dall'armatura scintillante in aiuto della donzella in pericolo. In questo caso... Mmm, come dovrei dire? Ah! In aiuto della donzella triste e sola.
Scuoto la testa con un sorriso. — Certo che ne hai di fantasia.
— Vieni sì o no?
— Ho da fare.
— A l'una di notte?
Annuisco. Non rispondo.
— Ah, già — dice lei, il viso malizioso. — La tua cuginetta del cuore, giusto? Non ti ha risposto, perciò devi andare da lei. Controllare che stia bene.
Come sa che non mi ha risposto? Suppongo l'abbia intuito dal modo ossessivo in cui controllavo il cellulare.
Pigia il bottone del piccolo telecomando che ha in mano. Le portiere della sua auto si aprono. — Beh, se cambi idea... Vieni da me.
— Non verrò. Lo sai.
Alza gli occhi al cielo. — Mamma mia quanto sei palloso. — Sale in auto, muove le dita da dietro il finestrino in un saluto e va via.
Poco dopo sono sotto il condominio di mia cugina. Nessuna luce alla finestre. Forse non è ancora arrivata, oppure sta già dormendo. Guardo l’ora sul cellulare che ho in mano, l’una e cinquantatré. Dovrebbe essere già qui. Anzi, forse è già qui. Guardo il cellulare, vado sulla sua chat. Non ha ancora visualizzato. Strano. Parecchio strano. Che le sia successo qualcosa? Un incidente, oppure... Scuoto la testa. No, non è successo nulla. Forse era troppo stanca.
Resto a guardare le sue finestre per un po'. In giro, la desolazione. Non passa una persona, né un'auto. Sembra che siano spariti tutti. Accendo il motore. Quando faccio per andare via, le finestre si illuminano. È a casa. Le fisso per un momento, poi guardo la sua chat. Non visualizzato. Ancora.
Spengo il motore, scendo dalla macchina e mi incammino verso il condominio. I miei piedi vanno da soli. Non so nemmeno io che sto facendo. Voglio solo parlare, chiedere della Grecia. Mi sembra strano che abbia deciso di trasferirsi lì per sempre. Non conosce il luogo e non sa nemmeno se si troverà bene. È troppo strano.
Alzo un dito per citofonare, ma mi blocco. Sospiro, mi passo una mano sul viso ansioso e pigio il bottone. Aspetto. Non risponde nessuno. Citofono di nuovo. Più a lungo. Attendo. Niente. Non risponde.
Mi allontano dall'ingresso e guardo verso le finestre. Le luci sono ancora accese. Perché non risponde? Sa che sono io? E poi oggi le ho detto che volevo parlare, perciò può immaginare chi può essere a quest'ora.
Un auto sfreccia a tutto gas, seguito da una moto. Torna il silenzio.
Le luci si spengono.
Corrugo la fronte per il nervoso e la chiamo al cellulare. Squilla diverse volte. Non risponde. La richiamo. Più volte. Ancora niente. Non vuole rispondere. Anche se non rifiuta la chiamata, so che non vuole rispondere.
Torno all'ingresso, citofono. Tengo premuto il tasto quasi per venti secondi. Niente. Non risponde. Lo pigio di nuovo. Per un minuto. Nessuna risposta.
Raggiungo il marciapiede, guardo verso le finestre. Nessuna luce. Mi sta ignorando. Volutamente. Perché? Per via della Grecia? Oppure c'è qualcuno con lei? No, che cazzo sto pensando. Sarah non è così. Mi sta solo evitando. E io sto diventando un maniaco.
Mi porto una mano sul viso, sospiro. Mi sembra di impazzire. Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrivo un messaggio. "Sono fuori. Devo parlarti."
Un altro messaggio che si aggiunge a quelli non letti.
Ne scrivo un altro. "Per che cazzo non mi apri!? Mi stai facendo incazzare! Apri!"
Il mio pollice è fermo sul tasto invio. Rileggo il messaggio. Ancora, ancora e ancora. Sbuffo irritato. Lo cancello.
Riguardo le finestre buie a lungo. Vorrei imprecare, gridare, prendere a pugni tutto, ma resto immobile. — Vaffanculo! — bisbiglio tra me. — E vado via.
Il mattino dopo, alle nove, mi presento sotto il suo appartamento. Non so se sia a casa, ma posso aspettare. Ho dormito di merda, mi sono fatto una doccia e sono uscito. Non ho nemmeno fatto colazione. Non ho fame. I miei pensieri sono tutti occupati da Sarah. Non riesco a pensare ad altro. Non sono nemmeno andato al lavoro. Non ho nemmeno chiamato per giustificare l'assenza. Non me ne frega un cazzo. E il fatto che non abbia nemmeno visualizzato i miei messaggi mi ha fatto incazzare ancora di più.
Fisso le sue finestre chiuse per un po'. Alcuni passanti mi fissano mentre camminano. Forse ai loro occhi sembro uno psicopatico. Ed è quello che mi sento di essere. Mi sto comportando esattamente così.
Un'ora dopo Sarah esce dal condominio. È da sola. Indossa pantaloni di una tuta e una maglietta verde scuro. Non è truccata. Esco dalla macchina, attraverso la strada in tutta fretta e le vado dietro. Cammina per due isolati tra la gente, poi scende in un garage sotterraneo. La seguo. Non so nemmeno io perché non la stia fermando o chiamando. È come se temessi di parlarle. Qualcosa mi blocca.
Lei apre la portiera dell'auto, fa per salire.
La raggiungo rapidamente e ci sbatto una mano sopra. La portiera si chiude con un suono secco.
Sarah trasale con un grido e mi guarda terrorizzato. Poi i suoi occhi si rilassano quando capisce che sono io e non uno con cattive intenzioni. — Tommaso...
— Perché mi stai evitando? — domando di getto, la voce incrinata per la rabbia.
— Non ti sto evitando — risponde mentre sposta lo sguardo.
— Non hai risposta a nessuna chiamata, né letto i miei messaggi. Perché?
Non risponde.
— Ho fatto qualcosa di male? Oppure è per ieri... Per tua madre?
Lei mi lancia un'occhiata. Non risponde.
— È così? È per lei? Oppure c'è altro?
— Non c'è niente.
— Parla. Spiegami.
— Ti ho detto che non c'è niente.
— Invece c'è — dico, il tono irato. — E non vuoi dirmelo. Me sai una cosa? Io lo so.
Mi fissa negli occhi. Fa per dire qualcosa, ma non lo fa.
Fuori dal garage, il brusio lontano dei passanti. Il rumore del traffico. Colpi di clacson.
Pianto le mani sui fianchi, mi guardo intorno frustrato. — Vuoi trasferirti per sempre in Grecia, vero?
Nessuna risposta.
Sposto lo sguardo su di lei. I suoi occhi parlano da soli. Ho centrato il punto. — Perché non me lo hai detto? Potevamo parlarne insieme.
Il suo sguardo si fa serio. — Avevo già deciso.
— Avevi già deciso? Ma non sai nemmeno se ti piacerà!? Se ti troverai bene lì!?
— Lo so, ma voglio rischiare.
Scuoto la testa. — Non ha senso. Perché? Perché non lavori qui?
Non risponde.
Restiamo in silenzio per un po', tra l'odore di benzina, di olio di motore, di chiuso, di umidità.
— Senti, — dico — se è per me che stai fuggendo, allora...
— Perché ti metti sempre in mezzo!? — risponde scorbutica. — La mia vita non gira intorno a te. Non sei il centro del mondo.
— Ma tu...
— Non te l'ho detto, perché ti saresti comportato proprio così.
Non rispondo subito, lo sguardo basso. — Perché ci tengo e...
— Smettila! — dice mia cugina, la voce secca, dura. — Ormai ho deciso. Non puoi farci niente.
— Posso licenziarmi e venire da te — rispondo d'impeto, senza pensarci.
— Sei impazzito!? Vuoi mandare all'aria la tua carriera!?
La fisso. — Non me ne frega un cazzo! Quello che m'importa è stare con te.
— Sei proprio un cretino!
— Lo so, ma...
— Non ti farò mandare all'aria la tua vita. Non verrai con me.
— Lo farò. Verrò.
Mi fissa negli occhi decisa, inamovibile. — Provaci e dico tutto a mia madre!
Sbianco. Balbetto qualcosa, muovo le labbra. Non esce nessun suono.
Lei continua a guardarmi, una mano sul volante. — Ieri mia madre mi ha bombardato di domande su di te. Non so perché, ma penso che abbia intuito qualcosa.
Mi acciglio turbato. Impossibile. Mia zia non è così acuta. Forse sta mentendo. — Non tirare in mezzo tua madre. Lei non ha capito proprio niente. È impossibile. Tu ti sei solo stancata di me.
Sarah sbuffa irritata. — Pensala come vuoi.
— Se è vero, allora... Cosa c'entra con il fatto che hai deciso di trasferirti in Grecia?
— Nulla. Non c'entra nulla.
Un breve silenzio.
Sono così confuso che non ci sto capendo niente. Grecia. Mia zia. Che collegamento c'è? Anzi, non c'è.
— Ora devo andare da mia madre — dice.
— Aspetta.
Sbuffa. — Che c'è ancora?
— Ho ottenuto un mese di congedo.
— Quindi? — risponde. Nessuna reazione.
— Come quindi? — domando irritato. — Non sei contenta che possa...
— Ancora non l'hai capito?
— Che cosa?
— Che non ci sarà mai niente tra noi due.
— C'è già qualcosa.
— Non c'è. È tutto nella tua testa. È sempre stato così.
Corrugo la fronte dal nervoso. — Perché fai così? Perché ogni volta devi complicare tutto?
— Perché è complicato. Noi siamo complicati. Siamo cugi...
— Cugini, lo so. E non me me frega un cazzo.
— A me importa. E lo sai.
— Perché vuoi avere figli? — domando quasi sprezzante. — Una vita normale? Ti ci vedi intrappolata in una vita simile?
Devia il mio sguardo. Non risponde.
— Lo vedi? — dico con un sorriso un po' compiaciuto. — Non sai cosa rispondere, perché ho ragione. Tu...
— Con te no — risponde secca.
— Con me no cosa?
— Avere figli... Una vita normale. Con te... non riesco a immaginarla. Per quanto possa sforzarmi, non ci riesco.
Alzo gli occhi all'aria, arriccio le labbra ancora più nervoso, le mani sui fianchi. — Perché abbiamo lo stesso sangue, no? Non è questa la tua fissazione?
Non risponde, la mano stretta sul manubrio.
Getto un'occhiata verso il cancello aperto del garage. La luce del sole fatica ad arrivare fino in fondo. Fino a noi.— Se non ci fosse il sangue...
— Ma c'è!
— Ma se non ci fosse...
— I "se" non portano da nessuna parte.
Faccio per rispondere, ma mi inceppo. Ha ragione. I "se" non portano da nessuna parte. Non in questo caso. Non saremo uguali a tutti gli altri. Ma non me ne frega. — Quindi... Puoi fare a meno di me?
— Sei tu che mi vieni dietro.
— Non è una risposta.
— È una risposta.
Lo è. Indiretta, codificata, ma lo è. — Te ne andrai senza guardarti indietro?
— L'ho già fatto.
Sospiro abbattuto. — Come fa essere così facile per te?
Mi guarda negli occhi, un piede fuori dall'abitacolo. — Non lo è. Ma è l'unica cosa da fare.
— Tu hai solo paura.
— È così.
— Di tua madre. Di cosa potrebbero dire la gente di lei, di te... di noi.
— Perché tu no!?
Anch'io. Ma solo per mia madre, non per me. Non rispondo.
— Non c'è futuro. E io non voglio bruciarmi la vita con...
— Con uno come me?
— No, con una relazione che porterà solo problemi.
— Questo lo dici tu.
— È così. E lo sai.
Restiamo in silenzio per un momento.
— Non è detto che non potremmo avere figli — dico di getto.
— E se li avremmo, cosa penseranno loro una volta cresciuti? — dice, la voce dura, di sfida. — Come si sentiranno davanti ai loro amici? Cosa penseranno nel capire che siamo cugini, in realtà?
Una mazzata dietro l'altra. Sta scavando la fossa al posto mio così da gettarmi dentro. E ci sta riuscendo alla perfezione. Non rispondo.
— Allora? — chiede, la voce ancora più dura. — Sai quanti problemi causeremmo loro? Sai come ti sentiranno a disagio con i loro amici? Vuoi questo?
— No — rispondo secco, subito.
Restiamo in silenzio.
Non so cosa dire. Ha ragione. Ha ragione su tutto. Ha inquadrato le cose alle perfezione. Ci ha visto lungo. Io sono troppo innamorato di lei per essere così lucido.
Sarah sospira. — Ora capisci perché non può esserci niente tra noi?
Sposto lo sguardo verso il cancello aperto del garage, il brusio della gente l'unico rumore.
— Non venire — dice. — Non venire in Grecia. Resta qui.
Abbasso lo sguardo. — Ho un mese di ferie. Dove dovrei passarlo?
— Ovunque, ma non con me.
Un breve silenzio.
— È così importante per te? — domando, senza voltarmi. — I figli?
— Sai già la risposta.
— Se non fossero importanti, non resteresti comunque con me. Quindi...
— Evitiamo di tornare sullo stesso argomento.
Mi volto a guardarla. — Verrò. Un mese.
Lei sbuffa. — Perché ti ostini a...
— Lo sai perché. E poi... non riesco a lasciarti andare.
Lei chiude la portiera, mette in moto e si dirige lentamente verso l'uscita del garage sotterraneo. Non esce. Si ferma sulla soglia.
La raggiungo e mi chino sul finestrino chiuso. Faccio per parlare, ma mi blocco. Non so cosa dire. Non so nemmeno perché mi sia chinato. Forse per trattenerla? Per ripetere le stesse cose?
Sarah continua a guardarmi per un attimo. Va via. Il cancello si chiude alle spalle.
Guardo la sua macchina allontanarsi, la gente che mi passa accanto. Visi duri, inespressivi. Ognuno con i suoi macigni, la sua merda.
Un'ora dopo sono al lavoro. Mi sembrava l'unico posto dove fuggire. Ilaria non c'è. È alla sua villa. Non si farà vedere per un paio di giorni.
Bussano alla porta. È Federica. Entra e ripone sulla scrivania alcuni fascicoli. — La vicepresidenti Neri vuole che dia un'occhiata a questi clienti.
Ci getto un'occhiata veloce. — È qui? Ilaria... Ehm, la vicepresidente.
— No, mi ha chiamata stamattina. Mi ha detto di prendere questi fascicoli dal suo ufficio e di darglieli. Ma le ho detto che non era ancora arrivato.
Già, perché venire a lavorare era l'ultimo dei miei pensieri. Voglio licenziarmi e sparire con Sarah. — Capisco.
— Posso... posso farle una domanda?
— Sì.
— Come mai la vicepresidente non è venuta? Non si è mai assentata in tutti questi anni. Neanche una volta.
Distolgo lo sguardo su fascicoli. — Non lo so. — Ne apro uno, gli occhi che corrono sulla prima riga. — È tutto?
— Sì — risponde. Va via.
Rialzo lo sguardo sulla porta chiusa. Non potevo dirle che l'ho quasi soffocata a morte mentre facevamo l'amore, che ho perso il controllo del mio corpo, delle mie mani. E che il suo viso è così gonfio da sembrare un pallone.
Alla pausa pranzo, i cubicoli dell'ufficio sono vuoti. Compro il solito sandwich che sa di plastica dal distributore e vado a sedermi sulla terrazza. Non c'è nessuno. Lo scarto, ci do un morso mentre guardo il cielo. Si è ingrigito un po', il sole che sbuca timido da dietro le nuvole.
— Alla fine non sei venuto da me — dice Paula.
Mi volto a guardarla. — Te l'avevo detto.
Si siede accanto a me e comincia a mangiare l'insalata nel contenitore di plastica. L'odore di aceto mi pizzica il naso.
Mangiamo in silenzio per un po', il tempo che si turba ancora di più.
— Quindi sei andato dalla cuginetta del cuore? — chiede lei mentre lascia la forchetta nel contenitore vuoto.
— Non sai parlare di altro?
— Mi piace darti fastidio.
— L'ho notato.
— Allora? Avete...
Mi alzo e raggiungo il parapetto, ci appoggio le braccia. Guardo la città, le auto lungo le strade come formiche.
Paula mi affianca. — Oggi non sei dell'umore adatto, eh?
Non rispondo.
— Che ne dici se ci divertiamo un po'?
— Pensi sempre al sesso?
— A cosa dovrei pensare?
— Non lo so. A qualcos'altro.
Arriccia le labbra pensierosa. — Beh, non ho altro a cui pensare.
Chissà se è vero. Ma se lo fosse, beata te. Non rispondo.
Mette una mano sul mio braccio. Un tocco delicato. — Allora? Una sveltina?
La guardo. — Non hai altri oltre me?
— Beh, sì, ma... Tu sei qui, quindi...
Sposto il braccio dalla sua mano. — E se non fossi qui?
— Non vado con chiunque, se intendi dire questo.
— Non ho detto questo.
— A me pare di sì.
— Pensala come vuoi.
Un breve silenzio.
Lei solleva la braccia dal parapetto. — Beh, visto che non vuoi fare niente...
— Non sai startene semplicemente ferma?
— Ferma?
— Stare qui. Senza fare niente.
Paula sorride melliflua. — Ah, ti piace la mia compagnia.
— Non ho detto questo.
Mi dà una piccola spinta affettuosa. — Non c'è bisogno di mentire.
— Mi hai frainteso. Volevo dire che puoi stare qui anche senza...
— Non arrampicarti sugli specchi. Ho capito. — Riappoggia le braccia sul parapetto, guarda il cielo mentre il vento le smuove un po' il caschetto irregolare.
Non ha capito un cazzo, ma va bene così. Non rispondo.
Restiamo a guardare il cielo per un po', i suoni del traffico di sottofondo.
— Pensavo non venissi a lavorare, oggi — dice, la voce piatta.
— Sono venuto.
Sorride. — La cuginetta del cuore non è riuscita a spomparti come si deve?
— Il discorso cade sempre lì, eh? Rasenti l'ossessione.
— Che c'è di male se mi piace parlare di sesso?
— Non stai parlando di sesso, ma di me e mia cugina.
Arriccia le labbra con finto disappunto. — È la stessa cosa.
— Non è la stessa cosa.
— Comunque ho troppa voglia. Ma tu non vuoi fare niente.
— Non sono un giocattolo. Trovati un altro.
— Che palle, sempre a fare il prezioso. — Sbuffa seccata. — Sono troppo stressata e mi serve una sveltina.
La guardo. — Tu hai un problema.
— Sei tu che hai un problema.
— Ah, sì?
— Nessun ragazzo rifiuterebbe di fare l'amore con me.
— Forse perché non sono un ragazzo, ma un uomo.
Paula smorza una risata divertita. — Tu sei solo un cretino. Ecco cosa sei.
Sposto lo sguardo sulla strada sottostante. — Può darsi. Chi lo sa.
— Più resisti, più mi fai venir voglia.
Alzo gli occhi al cielo esasperato. — Io non resisto. Semplicemente non ho voglia.
Mi dà un colpetto affettuoso sul braccio. — Lo tieni ben conservato per la tua cuginetta del cuore, vero?
— Certo che sei proprio fissata...
— Ho capito. Forse ho capito...
Mi volto a guardarla. — Che hai capito? Sentiamo.
— Venire con me equivale a tradirla, giusto?
No. Se fosse così, non avrei fatto sesso con Ilaria. Non l'avrai quasi uccisa, soffocandola. Questa volta ha toppato. Non mi ha letto come un libro aperto. — Forse.
— Forse? Quindi è un no. Ma certo, te lo si legge in faccia.
Non rispondo.
— Suppongo che non hai problemi se... — dice mentre mi afferra una mano. — Oggi fa un po' freddino. Conosco un posticino sicuro, dove...
Ritraggo la mano. — Piantala. Non mi va.
Mi riafferra la mano. Più decisa. — Sei proprio palloso! — E mi trascina fuori dalla terrazza. Non oppongo resistenza. Anzi, la seguo. Non ho voglia, ma la seguo.
Percorriamo il corridoio, attraversiamo i cubicoli vuoti e varchiamo una porta laterale. È un piccolo ufficio in disuso usato come magazzino. Regna la penombra. Le tende alla finestra sono tirate. Le veneziane chiuse. Scatoloni di cartoni ovunque. Diverse sedie. Tre scrivanie. L'aria odora di chiuso, di carta, di legno.
Paula mi porta dietro le due scrivanie sopra cui ci sono altri scatoloni. Da qui, possiamo vedere chi entra senza essere visti. Non che serva a qualcosa. Se ci beccano, ci beccano. Punto. E non possiamo certo dire che stavamo solo prendendo una boccata d'aria.
Paula si stringe a me, mi bacia il collo, una mano sul mio pene dietro i pantaloni. Mi diventa duro. Lei lo stringe un po', lo palpa.
Io non mi muovo. Resto immobile. Ho la mente invasa da mia cugina, dalla scena di stamattina. Lei che mi smonta pezzo dopo pezzo. Un pensiero che si ripete ancora è ancora.
Paula mi slaccia la cinta, mi abbassa pantaloni e mutande, si inginocchia e se lo mette in bocca. La sua lingua si muove attorno al mio glande, la sua saliva cola lungo l'asta del pene.
Metto entrambe le mani sulla sua testa e affondo l'uccello in profondità nella sua bocca. Comincio a muovere il bacino, i suoi occhi sollevati verso di me. Sento il rumore della sua saliva, del suo respiro. Poi la faccio alzare, le abbasso pantaloni e mutandine e mi inginocchio. Ci guardiamo negli occhi un momento e le lecco il clitoride. È duro. Caldo. Lo lecco lentamente mentre la penetro con due dita a forma di uncino. Dentro, è una fornace. Fradicia. Muovo le dite come se la stessi chiamando a me, i polpastrelli che accarezzano il suo interno.
Lei pianta una mano nei miei capelli, li stringe, si contorce mentre ansima. Le sue gambe cominciano a fremere, il suo bacino preme contro il mio viso. Ho le labbra tutte arrossate, bagnate.
Poi mi viene in faccia. Letteralmente.
Sposto il viso bagnato, lordo dei suoi liquidi. Paula continua a tremare, il corpo teso, il viso rilassato, una mano sulla bocca. Mi rimette di nuovo il viso sulla sua vagina, ci preme contro. Ricomincio a leccare le grandi labbra, poi salgo al clitoride. Infilo di nuovo due dita dentro, le muovo lentamente. Lei geme, rafforza la presa sui miei capelli. E mi viene di nuovo in faccia. Un getto d'acqua forte, intenso. Si mantiene alla scrivania con le mani, il sedere poggiato sopra, mentre il suo corpo freme con le gambe spalancate.
Poi resta ferma a guardarmi per un momento, lo sguardo sfatto. Mi prende per un braccio, mi tira a sé e guida il mio pene nella vagina. È caldissima. Fradicia. Lo facciamo in piedi. Lei muove i fianchi contro di me mentre mi bacia il collo e la mascella. Non resisto più di dieci secondi. Con lei è impossibile di più. La sua vagina non ha pietà di me.
Tiro fuori il pene e le vengo sull'addome.
Paula mi guarda malissimo. — Sei già venuto?!
Abbasso lo sguardo. Non rispondo.
— Ogni volta fai così — dice irritata. Prende dei fazzoletti dalla tasca dei pantaloni e si pulisce l'addome. Poi mi afferra l'uccello, mi fissa torva e se lo infila dentro. Mi abbraccia, geme.
La stringo a me con un braccio mentre muovo due dita sul suo clitoride. Comincio a spingere i fianchi. Colpi lenti, secchi. Poi più veloci, più intensi. Le braccia di Sarah si serrano attorno a me con forza, il suo viso affonda sul mio petto. Muove il bacino con più intensità. Colpi secchi, veloci. Lei ansima, geme. Io continuo a spingere. Le vengo dentro. Ma continuo a muovermi per un po'. Poi le un ultimo colpo deciso di bacino e mi fermo.
Non fiatiamo. Restiamo abbracciati per un po', i respiri che danzano nella stanza.
Lei si stacca da me, si pulisce la vagina con un fazzoletto e si rimette mutandine e pantaloni. Mi tocca la punta del naso con un dito in modo giocoso. — Beh, ora sto molto meglio.
Mi rimetto mutande e pantaloni. Non rispondo.
Lei raggiunge la porta, la apre e sbircia fuori. Mi fa segno di andare.
Usciamo dall'ufficio in disuso e ci incamminiamo lungo il corridoio.
— Visto? — dice lei.
— Cosa? — rispondo.
— Che è divertente farlo.
— Ti ricordo che l'ultima volta hai detto che non potevi farlo più con me.
— Certo che ti segni tutto.
Ci fermiamo vicino ai cubicoli vuoti dell'ufficio.
— Non è che mi segno tutto, — dico — è che mi sembravi seria in quel momento.
— Lo ero. Poi... poi ho cambiato idea.
— Perché?
Mi fissa per un momento. Non vuole dirmelo, si vede. Non vuole parlare di Ettore. Deve essere accaduto qualcosa di sicuro.
Distolgo lo sguardo. — Lascia stare. Me ne torno nel mio ufficio.
— Ettore se n'è andato — dice, la voce bassa, quasi piatta.
— Oh... mi dispiace.
Lei mi tira uno schiaffetto sul braccio. — Che hai capito?
— Eh?
— Non è morto. Si è trasferito in Spagna.
Mi acciglio confuso e turbato. Pensavo davvero che fosse morto. — In Spagna?
— Me l'ha detto mio fratello. È andato lì per stare con i nonni.
— Ah, capisco.
Lei alza lo sguardo al soffitto pensierosa. — Ho pensato di andare a trovarlo, a dire la verità.
Non rispondo.
Abbassa lo sguardo a disagio, le guance arrossate. — Ma cosa gli dirò?
— Beh, non sarebbe meglio mettersi in contatto prima?
— Sì, ma...
— Ma?
— Forse è meglio non fare niente.
— Potresti pentirtene.
— Lo so. Forse è meglio guardare avanti.
La fisso. Dovrei fare la stessa cosa. Lasciare andare mia cugina e guardare avanti. Sarebbe tutto più semplice. — Quindi... hai deciso?
Lei fa spallucce, arriccia le labbra. Se ne va.
Lasciarmi su due piedi è proprio nel suo stile.
Verso le cinque e mezza di sera la incontro di nuovo davanti all'ascensore. C'è altra gente. Uomini e donne. Un brusio continuo, quasi insopportabile. Le porte dell'ascensore si aprono, entriamo. Qualcuno pigia il bottone per il piano terra. L'ascensore comincia a scendere. Il brusio non cessa.
Guardo Paula di sottecchi. Lei sta facendo la stessa cosa. Incrocia il mignolo con il mio. Lo tiro indietro. Lei smorza una risata mentre i colleghi, ignari, si voltano confusi verso di lei.
Le porte si aprono. Usciamo e attraversiamo l'atrio punteggiato di gente.
— Mi fai morire — dice lei con un sorriso.
Le lancio un'occhiata. Non rispondo.
— Dovevi vedere la tua faccia — continua lei mentre ridacchia. — Eri tutto rosso. E i tuoi occhi poi... — Ridacchia ancora. — Se non fosse che l'abbiamo fatto un paio di volte, penserei che tu sia un verginello.
La guardo male. Non fiato.
Usciamo dall'edificio, percorriamo il vialetto di siepi e alberi e ci fermiamo in mezzo al marciapiede. Le auto sfrecciano sulla strada. Le persone ci passano accanto indaffarate. Il cielo si è aperto.
Lei alza una mano, muove le dita con fare infantile. — Aur Revoir!
La guardo allontanarsi per un po'. Poi mi volto e vado via.
Verso le otto di sera mi chiama Ilaria mentre mi sto sistemando la barba allo specchio. Guardo lo schermo del cellulare, il rasoio che corre sulla guancia sinistra. Il marmo del lavabo trema sotto la vibrazione del cellulare.
Spengo il rasoio, prendo il cellulare e me lo porto all'orecchio. — Sì?
— Sei a casa? — chiede, la voce fredda.
— Sì. Perché?
— Vieni da me.
Mi acciglio. — Tutto bene?
Riaggancia.
Guardo lo schermo per un momento. Lo appoggio sul lavabo e torno a radermi.
Un'ora dopo sono davanti al cancello pedonale di Ilaria. Citofono. Il cancello vibra. Mi ha aperto senza nemmeno accertarsi chi fossi.
Entro, attraverso il vialetto costeggiato di alberi e cespugli e varco la porta della villa dalle pareti a vetri.
Ilaria è sdraiata sul divano. Indossa un paio di leggings neri e una maglietta bianca. Sta guardando un film sulla TV a schermo piatto da più di mille euro. Sa che sono entrato. Mi ignora.
La raggiungo. — Stai bene?
Volta il viso verso di me. È meno sgonfio rispetto a prima. I capillari rotti attorno al naso e sotto gli occhi sono diminuiti. Ma il collo resta violaceo. — Oggi avevo intenzione di andare al Destiny.
Mi siedo accanto ai suoi piedi allungato sul divano. Non rispondo.
Sposta lo sguardo sulla TV. — Forse è meglio se resto a casa. Non posso farmi vedere in queste condizioni. I nostri amici parlerebbero.
— Ti senti meglio? — domando.
Mette i piedi sulle mie cosce. — Mi fai un messaggio?
Prendo il piede sinistro e comincio a massaggiarlo.
Un lungo silenzio.
Fuori, un gufo bubola. Poi la pubblicità di una brioche. E altre ancora.
Cambio piede. Lo massaggio. — Oggi Federica mi ha chiesto di te.
Ilaria non si volta, gli occhi sulla TV. — Che ha detto?
— Che non ti sei mai assentata dal lavoro.
— Che le hai risposto?
— Niente.
Altro silenzio.
Appoggia i piedi a terra e si stende verso di me, la testa in mezzo alle gambe. Sento un lato della sua faccia premere sul mio pene. Lei lo sa. Lo sento indurirsi. Ma non fa nulla. Non dice nulla. Poi allunga la mano sul cellulare sul basso tavolino, va su Netflix e cerca un film. — Che vuoi guardare?
— Scegli tu.
Cerca per un po'. Si sofferma sulla locandina dei film, poi sulla trama. Ne scarta parecchi. Passa quasi un'ora. Fuori, il gufo bubola ancora.
— Mettine uno a caso — dico, il tono un po' seccato. — Tanto sono tutti uguali.
Ilaria mi ignora. Sulla tv, una locandina e una scritta, il mio anno a Oxford. Preme play. Il film parte. Si sistema meglio la testa sulle mie gambe. Il mio pene duro preme contro il suo orecchio.
— Che film è? — domando.
— Un film.
— D'amore?
— Sì, così pare.
— L'hai già visto?
Allunga un braccio alla cieca verso di me e mi tocca il viso finché mi tappa la bocca con una mano. — Sssh.
Me la tolgo. Guardo il film.
Mi annoio per circa un'ora e mezza. Il film non è male. Anzi, è fatto bene. Ma non sono dell'umore giusto. Ilaria non si è sposta di un millimetro da me. La sua testa è rimasta appiccicata sulle mie gambe, il suo orecchio sul mio pene. Il mio uccello è rimasto duro per tutto il tempo come il gufo che bubbola fuori.
Il film finisce. Titoli di coda.
Ilaria si alza leggermente da me, mi guarda. — Non si è addormento per niente, eh?
Non rispondo.
Mi abbassa i pantaloni, prende il mano il mio pene e lo tira fuori da sotto i boxer. Le sue dita sono fredde. — Non ti dispiace, no?
Il mio sguardo cade sul suo collo violaceo. Non fiato.
Ilaria se lo mette in bocca. Le sue labbra corrono lungo l'asta del pene, la sua lingua gira attorno al mio glande. Succhia lentamente, gli occhi nei miei. La sua saliva inizia a colare sul mio inguine.
Appoggio la testa sul divano e allargo le gambe, una mano sulla sua spalla, l'altra che penzola giù dal bracciolo. — Sto venendo.
Non si sposta. Continua a succhiare.
Faccio per allontanare la testa, ma scaccia la mia mano. Mi irrigidisco, tendo il bacino contro la sua testa. Le vengo in bocca. Poco. Quasi acqua. Ho dato tutto con Paula, oggi.
Le labbra di Ilaria continua a fare su e giù per una decina di secondi. Poi si tira su, apra la bocca per farmi vedere il liquido e lo inghiotte con un sorriso compiaciuto.
La guardo stranito, turbato. Non parlo. Non so se sia una sorta di devozione malata nei miei confronti oppure non so. Ormai una cosa vale l'altra.
Lei si pulisce le labbra sbavate con le dita, si alza e va in bagno.
Resto con il pene ancora duro sul divano mentre le guardo il piccolo sedere a mandolino da dietro. I leggings lo modellano, lo fanno risaltare. Mi vien voglia di sfondarlo.
Scuto la testa e chiudo gli occhi. Il gufo sta ancora bubolando, fuori. L'unico suono in mezzo alla quiete.
Mi addormento.
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