Mia cugina: Parte 49
di
Catartico
genere
incesti
Mi sveglio di soprassalto. Sono steso sul divano, mi guardo attorno. È notte. Fuori dalle ampie vetrate la luce dei lampioni illuminano gli alberi. Guardo in basso, verso il mio inguine. Pantaloni e boxer sono sollevati. Accanto a me, non c'è nessuno.
Dov'è andata Ilaria?
Mi alzo e vado in cucina. Nessuno. Lo stesso in bagno e nello studio. Apro la porta a vetri e do un'occhiata nel giardino. Solo alberi e cespugli.
Rientro, salgo di sopra e apro la porta della sua camera. È lì, stesa sul letto. Sta dormendo, la bocca semiaperta.
Mi avvicino e le guardo il viso per un momento. Perché non mi ha svegliato? Si è anche presa la briga di alzarmi pantaloni e boxer.
Mi siedo sul letto e le accarezzo il viso. È caldo, liscio. Sfioro i capillari rotti attorno al naso, poi sotto gli occhi. Osservo il collo violaceo, ci avvicino un dito. Non lo tocco. Non ci riesco. Ho paura di farle male. Lo lascio sospeso a un centimetro dalla pelle. Poi lo tiro indietro e sospiro. Forte.
Ilaria si sveglia, sussulta appena. — Oh, mi hai spaventata... — dice, la voce assonnata, rauca. Si mette seduta sul letto. — Stai andando via?
No, ma penso che lo farò. — Sì.
Batte una mano sul materasso. — Puoi dormire qui.
— No, vado a casa.
Non mi trattiene. Si limita a guardarmi. È strano.
Mi alzo. — Torna a dormire. Buonanotte. — Vado verso la porta.
— Te ne vai così? — domanda, il tono incrinato.
Ecco, sapevo che non mi avrebbe lasciato andare senza dire nulla. — Dormi.
— Dai, vieni qui. Non fare il finto duro.
Mi volto a guardarla, la distanza fisica tra noi sembra siderale. — Adesso vado. Dormi.
— Ti ho detto di venire qui! — urla, la voce graffiata. Inizia a tossire mentre mi fa segno con la mano di venire.
Mi passo una mano sulla faccia frustrato e la raggiungo. — Non dormirò qui.
— Ti pesa così tanto dormire con me?
— Se me ne fossi andato senza svegliarti, sarebbe stato meglio.
— Allora vattene! Sparisci!
La guardo per un attimo. Mi giro e vado di nuovo verso la porta.
— Ma sei uno stronzo! — grida, la voce roca. — Non dicevo sul serio...
Mi fermo. — Lo so.
— Voglio solo dormire con te. Che ti costa farlo?!
Non mi costa niente. — Se fosse solo così, resterei. Ma non è così. Dopo vuoi di più. Lo vuoi sempre.
— Quindi?! Che c'è di male? Lo sai cosa provo per te.
Sospiro e mi volto a guardarla. — Per questo non posso farlo. E sai bene perché.
— Ancora tua cugina? — risponde Ilaria acida. Si mette seduta sul letto, il viso agitato. — Non sei andato a parlare con lei? Non ti ha detto della Grecia? Che vuole...
— Ne abbiamo parlato.
— Allora non ha più senso andarle dietro. E non dirmi perché la ami? Perché più che amore, la tua sembra ossessione.
Corrugo le sopracciglia irritato. — Potrei dire la stessa cosa di te.
I suoi occhi si serrano torvi. — Io ti amo da anni. Lei no. Lei non ti ama. Non vuole stare con te. E poi siete cugini. Non potete amarvi!
— E chi lo dice? Tu?
— Tutti! Lo dicono tutti! Non puoi. Punto e basta!
— Non dire tutti quando è palese che non lo vuoi tu.
Si alza e si avvicina, il viso contratto dal nervoso. Mi supera, chiude la porta a chiave e ci poggia le spalle. Mi fissa. — Tu di qua non te ne vai finché non te lo dico io.
Abbasso gli occhi in una smorfia sorridente, le mani piantate sui fianchi. Sollevo lo sguardo. — Non fare la bambina. Apri la porta.
— Con lei stai solo perdendo tempo.
— Apri.
— Non ti ama quanto ti amo io. Perché non lo capisci?
Mi avvicino lentamente.
Lei mi fissa mentre copre la maniglia col corpo e appiccica le spalle sul legno. — Ti ho dato tutta me stessa. Tutta! — La voce si incrina. — Non l'ho mai fatto con nessuno. Solo con te!
Mi fermo davanti a lei, la guardo negli occhi. — Apri.
Lei regge lo sguardo, mi sfida, gli occhi due fuochi greci. Impossibili da spegnere. — Mi sono fatta quasi uccidere. Tu mi hai quasi ucciso!
Abbasso lo sguardo, lo stomaco contratto. Sa dove colpire. Sa che premere questo tasto mi fa stare male. — Smettila...
Lei mi abbraccia di colpo e mi stringe a sé. Affonda la testa nel mio petto, le unghia nella schiena.
Non la tocco. Non la sposto. Ho paura. Paura di farle male. Forse lei lo sa. Sì, lo sa. Sa ogni cosa di me, anche le cose che io non so.
Mi spinge verso il letto. Lentamente.
Fingo di resistere. Il mio corpo non mi obbedisce, le gambe sono in rivolta. — Fermati.
Ilaria continua a spingere. — Tu non te ne andrai.
— Ilaria...
Mi spinge sul letto e mi guarda intensamente. — Voglio solo dormire.
Ed è così. Non mente. Il suo sguardo non mente. Si sdraia accanto a me, una mano sul mio petto. Sento il suo respiro, il calore del suo corpo. Il profumo di balsamo dei capelli. Poi si stringe a me e ci si accoccola.
Restiamo così per un po' mentre fisso l'ombra dei rami sul soffitto.
— Mio padre è tornato — dice lei.
Non rispondo.
— Ieri ha litigato con mio nonno — continua. — Ci litiga sempre. Vuole prendere il suo posto, ma non è in grado di gestire la compagnia. Non è stato in grado nemmeno di gestire la famiglia.
Un breve silenzio.
Lei alza lo sguardo su di me, i capillari rotti attorno al naso e sotto gli occhi. — Tu sei stato in una casa famiglia, vero?
Annuisco. — Per un po'.
— È stato brutto?
— Te ne ho già parlato. Al liceo.
— Non ricordo.
— È passato del tempo.
— Anni.
— Gia. Anni.
Lei abbassa lo sguardo, la guancia poggiata sul mio petto, sulla camicia. — Mio padre non se ne andrà. Ho paura che possa peggiorare le condizioni di mio nonno.
Mi acciglio turbato. — Tuo nonno sta male?
— È debole di cuore. Non può agitarsi. Ma a mio padre non interessa.
— Perché non mi hai detto che sta male?
Solleva gli occhi su di me. — Perché dovevo?
— Perché lo conosco.
— Quindi? Non puoi fare niente.
— Gli avrei fatto visita.
Ilaria smorza un sorriso. — Mio nonno odia questo genere di cose.
— Lo so, ma...
— Lascia stare.
Un lungo silenzio.
Fuori, il gufo torna a bubolare.
— Tu stai bene? — chiedo. — Sei legata a tuo nonno e...
— Sto bene.
Non è vero. — Tua madre...
— Non parliamo di lei — dice secca.
Altro silenzio. Più pesante.
— Mio padre non otterrà la compagnia — dice lei, la voce fredda. — Non glielo permetterò.
— L'erede è lui?
— No, io.
— Tu? — domando un po' incredulo.
— Sì, io. Mio nonno ha già sistemato tutto. Anche il consiglio lo sa.
— Ma tuo padre no, giusto?
Annuisce impercettibilmente. — Non può fare nulla.
— Allora perché è qui?
— Per esasperare mio nonno. Per fargli cambiare idea. Ma mio nonno lo conosce come le sue tasche. Sa che è inaffidabile, che non può gestire una compagnia. La farebbe fallire.
Altro silenzio.
— Perché mi hai chiesto della casa famiglia? — domando.
— Non lo so. Il ritorno di mio padre mi ha fatto ricordare te... Quella volta che me ne hai parlato.
— Capisco.
— Però non mi hai mai detto perché ti hanno portato lì.
Non rispondo subito. Non perché il tema mi tocca, ma perché non sento niente. Scavo nella mente, nei ricordi, ma non ci trovo nessuna emozione. — Mio padre e mia madre... Diciamo che... litigavano. Lui beveva tanto. Tornava a casa la sera fradicio e litigava con mia madre. Non so per cosa. Poi... facevano a botte.
Ilaria si stringe a me.
— Ricordo che se le davano di santa ragione — continuo, gli occhi fissi sull'ombra dei rami dell'albero sul soffitto. — Il resto, non lo ricordo. O meglio, non ricordo la loro presenza. È un po' difficile da spiegare a parole. Ma è come se fossero stati dei fantasmi.
— Mi dispiace tanto...
— Mia madre ha un bel caratterino — dico. — È una donna forte, indipendente. Immagino che litigassero perché mia madre fa sempre ciò che vuole. Oppure per altro. Non lo so. Non mi è mai interessato. — Faccio una pausa. — Comunque i vicini chiamavano spesso i carabinieri. Poi un giorno, insieme a loro, sono arrivato gli assistenti sociali e mi hanno portato via. Ricordo ancora... — Gli occhi mi diventano lucidi senza motivo, uno strano calore mi avvolge il corpo. — Ricorda ancora quel senso di impotenza. Mi sentivo impotente. E poi quel forte formicolio in testa. Le punte dei miei piedi che si alzavano mentre restavo immobile nell'ingresso. E poi le grida di mia madre. Ricordo solo le grida, non lei. Non sono nemmeno sicuro se abbia gridato veramente o se sia frutto della mia immaginazione.
Ilaria mette il viso lacrimato sulla mia faccia. Scoppia a piangere.
— Ehi... — dico.
— Mi dispiace tanto... — risponde, la voce rotta.
— Per cosa? Mica è colpa tua.
Le sua braccia si serrano attorno a me. _ Lo so, ma mi dispiace... Ti sarai sentito abbandonato... Solo...
— Non lo so. Se ci penso... Non lo so. Comunque ormai fa parte del passato. È come se... non fosse mai successo, perché sembra qualcosa di troppo lontano.
Ilaria mi bacia il viso, le sue lacrime che mi bagnano la pelle. — Questa è la prima volta che ti lasci andare così con me.
Sì, la prima volta. Credo. Non me lo ricordo. — Non pensiamoci più.
— Mio padre non è mai stato presente — dice lei. — Se ne andava in giro a tradire mia madre. Una volta si è persino portata a casa una donna.
Lo so, me lo ha già detto un paio di volte negli anni. — Tua madre ci ha litigato, giusto?
Annuisce, la sua guancia contro la mia. — Quella è stata l'ultima volta. Per mia madre è come fosse morto. Ma non ha mai chiesto il divorzio da mio padre e nemmeno lui. Non lo trovi strano?
— Sì, è strano.
— I tuoi... si amano?
— Boh.
— Boh?
— Non lo so. Spesso litigano per cazzate, ma... Non lo so. Forse perché non m'interessa.
— Li odi? — domanda Ilaria.
— No.
— Io odio mio padre. E mia madre.
Non rispondo.
— Mio nonno è l'unico normale della famiglia. L'unico che mi abbia mai capita.
Silenzio.
— Come fai a non odiarli? — domanda. — Io li odierai a morte.
— Non lo so. Forse perché li ho sempre visti come due ragazzini immaturi. Litigano sempre per delle stronzate e non fanno che incolparsi a vicenda. Ma non li odio. Mi fanno solo arrabbiare.
— Tua madre, però... Non mi sembra così.
— Non la conosci bene — rispondo. — Per lei ciò che pensa la gente è piu importante di tutto.
Muove leggermente la testa, abbassa gli occhi. — Mia madre è molto simile. Da piccola mi confrontava con le altre bambine. Diceva che dovevo essere perfetta, che non dovevo farle fare brutta figura con le altre mamme... Mi ha fatto odiare da tutte le mie amiche.
Altro silenzio.
Il gufo smette di bubolare.
La guardo. — Senti, mettiamoci a dormire.
— Va bene — risponde Ilaria. Si stringe a me.
Sento un po' caldo, ma non mi sposto. Resto a fissare il soffitto a lungo. Poi Ilaria inizia a russare leggermente. La guardo in viso. I capillari rotti, il collo violaceo che spunta da sotto i capelli.
Chiudo gli occhi. Penso a mia cugina, alla Grecia. Con l'anima sono rimasto in quel garage sotterraneo. Riesco a sentire ancora l'odore di benzina, di chiuso, di umidità. E le sue parole. Taglienti, affilate.
Forse Ilaria ha ragione, sono ossessionato da Sarah. Oppure me ne sto convincendo per giustificare i suoi continui rifiuti.
Mi sveglio all'alba. Ho dormito poco. Forse cinque ore. Non m'importa. Ilaria dorme stravacata sul letto. Occupa tutto lo spazio. Fuori, è ancora buio. Il cielo sta riacquistando i colori. Mi metto a sedere sul bordo del letto, mi passo una mano sul viso e mi alzo. Vado in bagno e mi faccio una doccia, mi rivesto e torno in camera. Ilaria dorme ancora.
Vado via.
Poco dopo sono a casa. Mi cambio con dei vestiti puliti e mi lascio cadere sul divano. Guardo la chat di mia cugina sul mio cellulare. Poi lo spengo e lo getto di lato, gli occhi sullo schermo spento della TV. Osservo la mia figura riflessa. Ho come un dejavu.
Due ore dopo sono nel mio ufficio. Ho la mente talmente annebbiata che non riesco a mettere a fuoco le parole sui documenti. Persino leggere mi risulta difficile. Stress e il poco sonno sono un mix letale. Gli occhi mi bruciano.
Apro il cassetto, prendo la bottiglia di scotch e un bicchiere e li poso sulla scrivania. Non mi verso da bere. Forse peggiorerei le cose, ma non ne sono sicuro. Ci rifletto per un po'. Poi mi verso da bere e bevo un sorso. Lo scotch mi infiamma la gola, gli occhi si inumidiscono.
Bussano alla porta. Dev'essere Federica.
Metto lo scotch nel cassetto, il bicchiere dietro la pila di fascicoli. — Avanti.
La porta si apre. Lei si affaccia nell'ufficio. — Tra un'ora c'è la riunione.
— Ilaria... La vicepresidente non c'è.
— Se ne occupa Paula.
— Oh... Ok. Grazie.
La porta si chiede.
Una riunione tenuta da Paula? Ilaria si fida così tanto da farle fare le riunione al posto suo? Quelle due non le capirò mai, né voglio farlo.
La riunione è come tutte le altre. Noiosa. Prolissa. Non che Paula non sia brava, ma odio le riunione. Dicono tutto e niente. La osservo mentre fa scorrere un paio di slide. Oggi è indossa una camicia grigia e un gonna corta nera. Credo sia la prima volta che la vedo con una gonna. Le fa risaltare gambe e sedere. Il sedere non ha lo stesso spessore di Sarah, né quello piccolo e modellato di Ilaria. È un sedere come tanti. Mi acciglio perplesso. Perché le sto guardando il culo?
Dopo la riunione, torno in ufficio. Non mi trattengo, non faccio domande. Non è di mia competenza. Qui in ufficio sono un outsider, un forestiero. Non faccio gruppo. Ilaria non mi ha ingaggiato per questo, ma per curare i portfoli dei clienti più facoltosi. Ormai qui lo sanno tutti.
Mi siedo dietro la scrivania, leggo un po' di documenti. La maggior parte dei clienti ha investito nell'oro. I profitti sono enormi. Pochi altri in azioni.
Finisco di leggere, prendo il fascicolo che mi interessa e metto da parte gli altri. Lo rileggo di nuovo. Questa donna è l'unica ad avere un fondo di investimento di 100 milioni. È una ricca vedova di 80 anni che ha ereditato una grossa azienda di mobilificio di suo marito. Ha un figlio che fa il chirurgo. E una figlia che viaggia per il mondo, senza fare nulla. Ilaria sapeva che avrei optato per questa cliente. Anzi, ha inserito un bel po' di informazioni personali. Voleva che la prendessi a carico.
Studio la storia dei suoi investimenti, dei profitti, delle perdite. Poi preparo un piano di investimento per spostare alcuni asset volatili in azioni più sicure.
A pausa pranzo, compro il solito tramezzino che sa di plastica dal distributore e tiro dritto in terrazza. Paula è gia seduta sulla la panchina. La supero e mi appoggio al parapetto. Guardo cielo azzurro. Lontano, all'orizzonte, nuvoloni carichi di pioggia.
— Certo che sei proprio buffo — dice lei alle mie spalle.
Non rispondo. Scarto il tramezzino e comincio a mangiare.
Lei si alza e mi affianca, i gomiti sul parapetto. — Mi eviti perché sai cosa cosa ti chiederò?
Le lancio uno sguardo. Non ha il contenitore con l'insalata. Prima l'aveva? Non ho fatto caso. — Non ti sto evitando.
— Beh, non mi hai nemmeno salutata — risponde un po' infastidita. — Mi hai ignorata completamente.
— Pensavo stessi mangiando.
— Ho già mangiato.
Non rispondo subito. — Quindi?
— Quindi sbrigati a finire. È stata una mattina stressante. Ho dovuto anche finire il lavoro di Ilaria. Ma perché non è venuta neanche oggi?
— Forse è malata.
Mi spinge debolmente. — Dai, dimmelo. Tu e lei siete pappa e ciccia.
— Davvero, non lo so.
— Come no.
I nuvoloni carichi di pioggia sono un po' più vicini. Scorgo un lampo.
— Quanto ci metti a finire? — domanda stizzita.
— Non mettermi fretta.
— Dai, oggi ho più voglia di ieri.
La guardo. — Dai per scontato che io sia disponibile?
Sbuffa seccata. — Non iniziare a fare il prezioso. Oggi non è giornata, perciò sbrigati.
Ingoio l'ultimo pezzo del tramezzino. — Devo digerire.
— Non fare lo stronzo — dice irritata. Mi afferra per un braccio e mi tira. Non ci riesce.
Resto immobile. — Penso che tu mi abbia preso per il tuo giocattolo.
— Accidenti a te, muoviti! — dice mentre mi tira con entrambe le mani. — Non farmi gridare.
— Perché dovresti?
Sbuffa esasperata e mi spinge con tutta la forza. Con rabbia. — Muoviti!
Mi sposto un poco. Lei fa per spingermi con le mani, si sbilancia e mi cade tra le braccia. Ci fissiamo per un attimo. Poi l'allontano. — Sembri una bambina capricciosa. — In realtà, sembra un mix di Ilaria e della mia ex assistente. — Se hai voglia, allora...
— Allora un corno! — dice ad alta voce, il viso teso, arrabbiato. — Perché devo farmi sgolare ogni volta?! — Mi prende per mano e mi trascina fuori dalla terrazza.
Un tuono romba nel cielo.
Entriamo nell'ufficio in disuso. È più buio di ieri. Forse perché il contrasto tra luce e buio è più netto di ieri.
Paula chiude a chiave.
La guardo stranito. — Dove hai la preso la chiave?
— Dall'ufficio di Ilaria — dice con un sorriso compiaciuto.
Sorrido in una smorfia. — Certo che sei proprio imprevedibile.
— Ti eccita?
Non rispondo. Le do le spalle.
Lei ci appoggia la testa, le mani sulle scapole. — Oggi voglio essere scopata come si deve. Non come ieri.
— Ieri non ti è piaciuto?
— Sei venuto in un secondo. E dopo... — Si zittisce un attimo. — Puoi fare di meglio.
— Potrei dire la stessa cosa di te — dico.
Mi fissa malissimo. — Cioè?
— Niente.
Mi afferra per la camicia e mi spinge contro il muro, tra le due finestre chiuse dalle tende, gli occhi nei miei. — Parla!
Smorzo un sorriso divertito. — Non voleva dire niente.
— Oh, invece penso proprio di sì. Cosa volevi insinuare?
Appoggio le mani sui suoi polsi. — Perché te la stai prendendo tanto? Dicevo per dire.
Molla la presa dalla mia camicia, si abbassa le mutandine e si appoggia con le mani contro il muro, accanto a me. Inarca il sedere. Non mi guarda in faccia. Aspetta.
Il mio pene diventa di marmo. Non so, il suo modo di fare me l'ha fatto venire duro in un lampo. E poi quel sedere che spunta da sotto la gonna, quella linea verticale tra i glutei, la forma della vagina che spunta tra le cosce.
Calo giù pantaloni e boxer e mi posiziono dietro di lei. Non lo metto subito dentro. Lo appoggia sulla linea del sedere. La pelle è un po' fredda, ma è una sensazione piacevole.
La mia mano scivola in mezzo alle sue gambe, inizio massaggiare un po' la vagina. Lentamente. Lei geme e stringe le mani a pugni sul muro. Poi ci metto due dita dentro. È caldissima e fradicia come sempre. Con l'altra mano afferro i suoi capelli in una coda spartana e li tiro debolmente verso di me. Il suo viso si alza, gli occhi che fissano il soffitto, la bocca semiaperta. Si lascia scappare un gemito.
Tiro fuori le dita e massaggio il suo clitoride duro. Con calma. Paula inarca ancora di più il sedere, mi mette una mano dietro la nuca e volta metà viso verso di me. Mi guarda negli occhi per un attimo. Fa per baciarmi, ma ci ripensa o si blocca. Non lo so. Resta a fissarmi, lo sguardo perso nel piacere.
Aumento leggermente la velocità delle dita mentre il suo sedere preme con forza contro il mio inguine. Il mio pene sprofonda un po' nella linea del suo sedere.
Metto le labbra vicino al suo orecchio. — Perché hai messo la gonna, oggi?
Continua a fissarmi. Non risponde.
Le tiro leggermente i capelli. — Per me? L'hai fatto per me?
Niente. Solo gemiti.
Le mie dita sfregano con più intensità il suo clitoride. Lei ansima, mi acciuffa i capelli da dietro la testa. Le bacio la nuca. — Ti piace tanto farti scopare da me?
Si gira di scatto, mi prende per la camicia e mi sbatte al muro con forza. Mi fa abbassare e avvicina la vagina alla mia faccia. — Mi stai dando suo nervi. Parli troppo. — Mi prende per i capelli e mi sbatte la faccia contro la sua vagina fradicia.
Lecco le sue grandi labbra, senza pensarci due volte. Odora di sapone neutro, di ammorbidente. La bocca mi si riempie dei suoi umori. Paula rafforza la presa sui miei capelli e preme ancora di più la mia faccia sulla sua vagina. La mia lingua sprofonda all'interno, prende fuoco. I suoi liquidi mi colano giù dalle labbra mentre il mio naso sfrega il suo clitoride. Ne sento la durezza, il calore.
Poi il suo corpo si contorce, le gambe si irrigidiscono, le sue dita stringono con forza i miei capelli. E mi viene in bocca. Un getto forte. Intenso.
Lo sputo sul pavimento. — Ma che...
Paula mi prende il viso tra le mani e mi bacia. Un bacio sessuale e affettuoso. Mi infila la lingua in bocca, la muove attorno alla mia. Continua a baciarmi come se mi stesse mangiando. Non l'ho mai vista così. Che cazzo l'è preso?
Mi fa stendere a terra con il peso del suo corpo mentre continua a baciarmi. Prende il mio pene e lo fa scivolare dentro di sé, le tette dietro il tessuto che premono contro il mio petto. Poi comincia a muovere il bacino. Lentamente.
Tre secondi. Solo tre. E le vengo dentro. Di più impossibile. Ormai me ne sono fatto una ragione.
Paula continua a muoversi su di me, a baciarmi. Poi smette e mi fissa per un momento. Sbuffa e china il busto su di me, petto contro petto, la testa accanto alla mia. Ritorna a muoversi. Più velocemente. Non sembra fare l'amore con il mio pene, ma con il mio inguine. Ci struscia sopra il clitoride, lo sento sulla pelle.
Poi si irrigidisce di nuovo, ansima, il corpo scosso dall'orgasmo. E si abbandona su di me. I suoi liquidi e il mio sperma colano lungo il mio pene e continuano a scendere in mezzo ai genitali. Sento il suo respiro accanto al mio orecchio, il suo profumo di balsamo e acqua di colonia in faccia.
Restiamo così per un po'.
Paula si alza, prende i fazzoletti che ha dimenticato sulla scrivania ieri e si pulisce la vagina. Poi si rimette le mutandine e si sistema i capelli, il viso sfatto, arrossato.
La guardo senza dire niente. Ho l'inguine arrossato per il suo strusciarsi.
Lei mi lancia uno sguardo. — Sbrigati a rivestirti. O vuoi metterti a dormire?
Mi alzo e mi rimetto boxer e pantaloni. — Oggi eri scatenata.
— Te l'ho detto che avevo voglia.
— Il bacio... Cos'era?
Si acciglia perplessa. — Cioè?
— Mi è sembrato strano. Sembrava volessi mangiarmi.
— Mi sono lasciata trasportare. Ero troppo eccitata.
— Già, me ne sono accorto.
Un breve silenzio.
— Comunque, — dice Paula, la voce seccata — mi dà suo nervi che vieni così subito. Nemmeno lo infili che già vieni.
— Eh... — rispondo. Non so che dire.
— Eh? Tutto qui?
— Cosa vuoi che dica? Non riesco a controllarmi.
— Ti ecciti così tanto?
No, ma è la tua vagina che è stregata. È così calda che mi fa venire in un nano secondo. — Beh...
— Io non mi eccito così tanto — dice con nonchalance.
— A me non è sembrato così.
I suoi occhi si serrano minacciosi. — Ti sbagli. Faccio tutta da sola. Anche oggi è stato così. Non sai fare niente. E in piu vieni subito.
— Se ti dà così fastidio, allora non farlo più con me.
Mi fissa per un momento. Nei suoi occhi leggo un "no" grande quanto questo grattacielo in cui siamo. Si volta, va verso la porta e la apre con la chiave. Sbircia fuori per un momento e si volta verso di me. — Andiamo.
La seguo.
Camminiamo lungo il corridoio in silenzio mentre calo l'occhio sul suo sedere. E niente, oggi mi sono fissato. Non è nulla di speciale, eppure ne sono attratto come una falena alla luce.
Ci fermiamo tra i cubicoli vuoti, quasi davanti alla porta del mio ufficio. Ci guardiamo per un attimo. Poi mi giro e faccio per aprire.
— Non mi dà fastidio — dice di colpo.
— Cosa? — rispondo, la mano sulla maniglia della porta chiusa. Non mi giro.
— Che sei come un coniglio in calore, che vieni subito.
— Capito.
— E poi non ho alternative — dice, la voce tradisce qualcosa di falso.
Mi volto a metà verso di lei. — Ormai sono un tuo giocattolo, no? Prima o poi ti stancherai di usarmi. È una cosa comune. Una questione di tempo.
Il suo viso si indurisce. — Non sei il mio giocattolo. Facciamo solo... questo.
— Già, questo.
— C'è solo questo. Nient'altro. Quindi non arrovvelarti per quel bacio. Non significa niente.
La fisso un momento. Sì, ha ragione. Non sta mentendo. Non significa nulla. — Ok, capito.
Diverse voci giungono dal corridoio che porta all'ascensore. Devono essere i nostri colleghi.
Paula si allontana verso la sua scrivania, accanto all'ufficio di Ilaria. Un paio di colleghi sbucano dal corridoio. Parlano, scherzano, ridono.
Apro la porta ed entro nel mio ufficio. Sento un odore. Annuso l'aria, poi la camicia. Ho il tessuto pregno del suo odore.
Squilla il cellulare sulla scrivania. Lo prendo e guardo lo schermo. È Ilaria. Lo portò all'orecchio. — Sì?
— Dove sei? Perché te ne sei andato? — domanda, il tono ansioso, ma freddo.
— In ufficio. Perché?
Non risponde subito. La sento sbuffare. — Potevi svegliarmi, almeno. Mi sono svegliata e non ti ho visto.
— Stavi dormendo profondamente. Non mi sembrava giusto svegliarti.
Sbuffa di nuovo. — Potevi anche non andare al lavoro.
La ignoro. — Come ti senti oggi?
— Perché non hai risposte alle mie chiamate?
— Alle tue chiamate?
— Ti ho chiamato un miliardo di volte.
Mi acciglio perplesso. Guardo il cellulare, controllo le notifiche. 26 chiamate perse. E tre messaggi. "Rispondi!" "Perché non rispondi?! 😡" "Dove sei?! Rispondi quando ti chiamo!!!😡🤬"
— Allora? — dice Ilaria, la voce nervosa.
— Avevo il silenzioso — mento. — E poi ho lavorato tutta la mattina. Ho controllato i documenti dei clienti che mi ha dato Federica, i clienti che mi hai proposto tu.
Un breve silenzio.
— Li hai controllati tutti? — chiede, il tono forzatamente pacato, distaccato.
— Sì. Ho scelto quello che mi hai consigliato.
— Non ti ho consigliato nessun cliente.
— C'è un fascicolo intriso di dati personali e...
— Parli di Vitania Verdi?
— Sì, l'ereditiera dell'impresa di mobilificio.
— La seguivo personalmente — dice, la voce sempre più distaccata. — Ecco perché ci sono tanti dati. Hai scelto lei?
— A me è sembrato che volessi che scegliessi lei.
Non risponde. Ci ho preso in pieno.
— Comunque, — dico — non è come Caterina Savona, ma è il cliente più grosso della tua compagnia. Me ne occuperò io
— Stasera vieni da me — dice di getto. — Ci vediamo un film. Scegli tu.
Faccio per rispondere.
Riaggancia.
Verso le cinque e mezza incontro Paula davanti all'ascensore. Mi guarda di sottecchi. Forse ce l'ha con me per prima. Non è colpa mia se non riesco a durare tanto come accade con Ilaria o mia cugina. Non posso di certo dirle che è per via della sua vagina. Suonerebbe come una scusa.
Le porte dell'ascensore si aprono, entriamo insieme ai colleghi. Ci mettiamo in fondo, in un angolo. L'ascensore fa un sussulto e comincia a scendere.
Lancio uno sguardo fugace verso di lei. Il suo viso è inespressivo, gli occhi in avanti. Non mi degna di uno sguardo. Ma perché se la prende così tanto se è già successo altre volte. Molte volte. Non ha senso.
Le porte dell'ascensore si aprono, usciamo. La seguo alle spalle lungo l'atrio ricoperto di gente, gli occhi sul suo sedere. Non vedo altro.
Usciamo dall'edificio e la seguo per tre minuti, fino alla sua macchina.
Si volta verso di me, le persone che passano sul marciapiede. — La smetti di seguirmi?
— Sei arrabbiata con me? — chiedo di getto.
— Non sono arrabbiata con te. Non ne vale la pena.
— Senti, non è...
— Lascia perdere. Non m'interessa.
— Non soffro di...
— Ti ho detto che non m'interessa! — dice ad alta voce.
Alcuni passanti si voltano a guardarci mentre proseguono per la loro strada.
— Ok, ho capito — rispondo. — Volevo solo...
Sbuffa seccata. Apre la macchina con il telecomando, ci entra dentro e se ne va.
Lei e Ilaria sono troppi simili. Si incazzano senza motivo. Ecco perché non si possono vedere. Tra simili ci si piglia a schiaffi.
Torno indietro, in direzione del parcheggio. Quando passo di fronte all'edificio, scorgo l'auto di mia cugina. Mi acciglio perplesso. Anzi, resto di sasso. Fisso la targa. È la sua.
Mi avvicino al veicolo. Alla guida, c'è Sarah, le mani sul volante, lo sguardo fisso in avanti come se stesse pensando a cosa dire. Busso sul finestrino anteriore del passeggero.
Lei sobbalza, mi guarda. I suoi occhi si allargano tesi, ansiosi. Mi fa cenno di salire a bordo con la mano.
Apro la portiera e mi siedo. — Ehi, che ci fai qui?
— Parto per la Grecia. Stasera. — risponde secca, apatica, gli occhi in avanti.
— Cosa?! — rispondo irrequieto. — Non avevi detto che...
— Ho anticipato il... — Si zittisce. — Non importa. Mi sembrava giusto avvisarti.
— E se non mi avessi trovato, cosa avresti fatto?
Mi guarda. — Ti ho visto poca fa. Seguivi una tua collega, immagino.
— Questo cosa c'entra?
Mi fissa male per un attimo. — Mi sei passato accanto e nemmeno te ne sei accorto.
Davvero? Impossibile. — Ti avrei vista se fossi...
— Avevi gli occhi piantati sul culo di quella là — risponde piatta, controllata. — Come avresti fatto a vedermi?
Abbasso lo sguardo per un attimo. Faccio per dire qualcosa, ma mi blocco. Qualsiasi cosa dica suonerebbe come una scusa. Una patetica scusa. Mi ha colto con le mani nel sacco.
Sarah continua a fissarmi negli occhi. — Immagino che tra te e lei ci sia qualcosa. Non è da te andare dietro a chiunque.
Solo sesso. Solo questo. — Non c'è niente. Abbiamo solo... litigato sul lavoro. Volevo fare pace.
Scuote la testa con disappunto. — Menti pure. Non m'interessa. Sono venuta qui solo per dirti che parto.
Allungo una mano verso il suo braccio.
Mi schiaffeggia il dorso con un colpo secco. — Scendi.
— Aspetta...
— Scendi.
— Potresti...
— Non iniziare con le tue lagne e scendi!
La guardo per un attimo. — Ti raggiungerò.
— Non lo farai.
— Lo farò, invece. Resterò appiccicato a te per un mese. E nel frattempo, mi troverò un lavoro che mi permetta di stare con te.
Il suo sguardo si deforma, si fa minaccioso. Poi abbozza un sorriso storto, strano. Sembra compiaciuto, ma in realtà cela una profonda tristezza. — Non sai dove sarò. Non te l'ho mai detto. Nemmeno Ilaria lo sa, me ne sono accertata di persona.
La guardo incredulo. Perché sta facendo così? È per Paula? Non rispondo.
Il viso di mia cugina torna serio, controllato. — Potresti chiedere a suo nonno, ma non te lo dirà. E tu non ci andresti. Non per chiederglielo. Non è così?
I miei occhi si restringono. — Perché? Perché stai facendo così? Mi avevi detto che...
— Se non faccio qualcosa io, tu distruggerai la mia vita e la tua — dice, la voce decisa, irremovibile. — Tu ed io. Noi... È stato solo... una debolezza. Siamo entrambi incasinati e...
Scatto verso di lei e la bacio. Le mie labbra avvolgono le sue, la mia lingua si insinua nella sua bocca, cerca la sua.
Lei mi spinge via di forza. — Ma che diavolo fai?! Sei impazzito!
— Sì, sono impazzito! — dico, il cuore a mille, la faccia che formicola, il suo sapore sulle labbra. — Mi hai fatto impazzire. Non ragiono più. Tu...
Mi molla uno schiaffo in faccia. Un suono secco. Una botta potente, carica di tutta la distanza che vuole imporre tra da noi. — Ti avverto, Tommà! Avvicinati di nuovo e ti faccio a pezzi!
La guardo deciso, gli occhi spiritati. — Allora fammi a pezzi! Fallo! Fammi a pezzi! Che aspetti!?
I suoi occhi si infiammano, il viso paonazzo per la rabbia. Prende il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrolla la rubrica.
— Che stai facendo? — chiedo confuso.
— Chiamo la zia. Le dirò tutto.
— Non puoi farlo! — dico mentre allungo le mani verso di lei, il cuore in gola per l'ansia.
Mi allontana con una mano, ma non ci riesce del tutto. Sono più forte di lei. Le afferro la mano che stringe il cellulare e tento di strapparglielo via.
Lei si dimena, lotta. — Lasciami! Lasciami, Tommà!
Non la lascio. La tira verso di me per la mano. — Dammelo!
Sarah mi morsica il polso, affonda i denti nella carne. In profondità.
Mollo la presa e mi porto la mano sulla ferita. Sta sanguinando. — Ma sei scema!?
— Scendi! — urla furiosa, gli occhi indemoniati, stravolti. — O giuro che chiamo tua madre!
— Vaffanculo, pazza isterica! — le grido in faccia con tutta la rabbia, l'impotenza e la tristezza che ho in corpo. — Vaffanculo!
Lei mi fissa sorpresa, la bocca semiaperta, il cellulare sospeso in aria.
Scendo e sbatto violentemente la portiera. Faccio per andare, ma incrocio lo sguardo della gente che mi fissa. Tra loro, alcuni miei colleghi. Mormorano tra loro, gli occhi che giudicano. Forse hanno assistito all'intera scena. E domani, in ufficio, sarò sulla bocca di tutti.
La macchina di Sarah parte alle mie spalle, si allontana.
Sospiro. Abbasso lo sguardo e me ne vado, tra gli sguardi giudicanti di colleghi e passanti.
Dov'è andata Ilaria?
Mi alzo e vado in cucina. Nessuno. Lo stesso in bagno e nello studio. Apro la porta a vetri e do un'occhiata nel giardino. Solo alberi e cespugli.
Rientro, salgo di sopra e apro la porta della sua camera. È lì, stesa sul letto. Sta dormendo, la bocca semiaperta.
Mi avvicino e le guardo il viso per un momento. Perché non mi ha svegliato? Si è anche presa la briga di alzarmi pantaloni e boxer.
Mi siedo sul letto e le accarezzo il viso. È caldo, liscio. Sfioro i capillari rotti attorno al naso, poi sotto gli occhi. Osservo il collo violaceo, ci avvicino un dito. Non lo tocco. Non ci riesco. Ho paura di farle male. Lo lascio sospeso a un centimetro dalla pelle. Poi lo tiro indietro e sospiro. Forte.
Ilaria si sveglia, sussulta appena. — Oh, mi hai spaventata... — dice, la voce assonnata, rauca. Si mette seduta sul letto. — Stai andando via?
No, ma penso che lo farò. — Sì.
Batte una mano sul materasso. — Puoi dormire qui.
— No, vado a casa.
Non mi trattiene. Si limita a guardarmi. È strano.
Mi alzo. — Torna a dormire. Buonanotte. — Vado verso la porta.
— Te ne vai così? — domanda, il tono incrinato.
Ecco, sapevo che non mi avrebbe lasciato andare senza dire nulla. — Dormi.
— Dai, vieni qui. Non fare il finto duro.
Mi volto a guardarla, la distanza fisica tra noi sembra siderale. — Adesso vado. Dormi.
— Ti ho detto di venire qui! — urla, la voce graffiata. Inizia a tossire mentre mi fa segno con la mano di venire.
Mi passo una mano sulla faccia frustrato e la raggiungo. — Non dormirò qui.
— Ti pesa così tanto dormire con me?
— Se me ne fossi andato senza svegliarti, sarebbe stato meglio.
— Allora vattene! Sparisci!
La guardo per un attimo. Mi giro e vado di nuovo verso la porta.
— Ma sei uno stronzo! — grida, la voce roca. — Non dicevo sul serio...
Mi fermo. — Lo so.
— Voglio solo dormire con te. Che ti costa farlo?!
Non mi costa niente. — Se fosse solo così, resterei. Ma non è così. Dopo vuoi di più. Lo vuoi sempre.
— Quindi?! Che c'è di male? Lo sai cosa provo per te.
Sospiro e mi volto a guardarla. — Per questo non posso farlo. E sai bene perché.
— Ancora tua cugina? — risponde Ilaria acida. Si mette seduta sul letto, il viso agitato. — Non sei andato a parlare con lei? Non ti ha detto della Grecia? Che vuole...
— Ne abbiamo parlato.
— Allora non ha più senso andarle dietro. E non dirmi perché la ami? Perché più che amore, la tua sembra ossessione.
Corrugo le sopracciglia irritato. — Potrei dire la stessa cosa di te.
I suoi occhi si serrano torvi. — Io ti amo da anni. Lei no. Lei non ti ama. Non vuole stare con te. E poi siete cugini. Non potete amarvi!
— E chi lo dice? Tu?
— Tutti! Lo dicono tutti! Non puoi. Punto e basta!
— Non dire tutti quando è palese che non lo vuoi tu.
Si alza e si avvicina, il viso contratto dal nervoso. Mi supera, chiude la porta a chiave e ci poggia le spalle. Mi fissa. — Tu di qua non te ne vai finché non te lo dico io.
Abbasso gli occhi in una smorfia sorridente, le mani piantate sui fianchi. Sollevo lo sguardo. — Non fare la bambina. Apri la porta.
— Con lei stai solo perdendo tempo.
— Apri.
— Non ti ama quanto ti amo io. Perché non lo capisci?
Mi avvicino lentamente.
Lei mi fissa mentre copre la maniglia col corpo e appiccica le spalle sul legno. — Ti ho dato tutta me stessa. Tutta! — La voce si incrina. — Non l'ho mai fatto con nessuno. Solo con te!
Mi fermo davanti a lei, la guardo negli occhi. — Apri.
Lei regge lo sguardo, mi sfida, gli occhi due fuochi greci. Impossibili da spegnere. — Mi sono fatta quasi uccidere. Tu mi hai quasi ucciso!
Abbasso lo sguardo, lo stomaco contratto. Sa dove colpire. Sa che premere questo tasto mi fa stare male. — Smettila...
Lei mi abbraccia di colpo e mi stringe a sé. Affonda la testa nel mio petto, le unghia nella schiena.
Non la tocco. Non la sposto. Ho paura. Paura di farle male. Forse lei lo sa. Sì, lo sa. Sa ogni cosa di me, anche le cose che io non so.
Mi spinge verso il letto. Lentamente.
Fingo di resistere. Il mio corpo non mi obbedisce, le gambe sono in rivolta. — Fermati.
Ilaria continua a spingere. — Tu non te ne andrai.
— Ilaria...
Mi spinge sul letto e mi guarda intensamente. — Voglio solo dormire.
Ed è così. Non mente. Il suo sguardo non mente. Si sdraia accanto a me, una mano sul mio petto. Sento il suo respiro, il calore del suo corpo. Il profumo di balsamo dei capelli. Poi si stringe a me e ci si accoccola.
Restiamo così per un po' mentre fisso l'ombra dei rami sul soffitto.
— Mio padre è tornato — dice lei.
Non rispondo.
— Ieri ha litigato con mio nonno — continua. — Ci litiga sempre. Vuole prendere il suo posto, ma non è in grado di gestire la compagnia. Non è stato in grado nemmeno di gestire la famiglia.
Un breve silenzio.
Lei alza lo sguardo su di me, i capillari rotti attorno al naso e sotto gli occhi. — Tu sei stato in una casa famiglia, vero?
Annuisco. — Per un po'.
— È stato brutto?
— Te ne ho già parlato. Al liceo.
— Non ricordo.
— È passato del tempo.
— Anni.
— Gia. Anni.
Lei abbassa lo sguardo, la guancia poggiata sul mio petto, sulla camicia. — Mio padre non se ne andrà. Ho paura che possa peggiorare le condizioni di mio nonno.
Mi acciglio turbato. — Tuo nonno sta male?
— È debole di cuore. Non può agitarsi. Ma a mio padre non interessa.
— Perché non mi hai detto che sta male?
Solleva gli occhi su di me. — Perché dovevo?
— Perché lo conosco.
— Quindi? Non puoi fare niente.
— Gli avrei fatto visita.
Ilaria smorza un sorriso. — Mio nonno odia questo genere di cose.
— Lo so, ma...
— Lascia stare.
Un lungo silenzio.
Fuori, il gufo torna a bubolare.
— Tu stai bene? — chiedo. — Sei legata a tuo nonno e...
— Sto bene.
Non è vero. — Tua madre...
— Non parliamo di lei — dice secca.
Altro silenzio. Più pesante.
— Mio padre non otterrà la compagnia — dice lei, la voce fredda. — Non glielo permetterò.
— L'erede è lui?
— No, io.
— Tu? — domando un po' incredulo.
— Sì, io. Mio nonno ha già sistemato tutto. Anche il consiglio lo sa.
— Ma tuo padre no, giusto?
Annuisce impercettibilmente. — Non può fare nulla.
— Allora perché è qui?
— Per esasperare mio nonno. Per fargli cambiare idea. Ma mio nonno lo conosce come le sue tasche. Sa che è inaffidabile, che non può gestire una compagnia. La farebbe fallire.
Altro silenzio.
— Perché mi hai chiesto della casa famiglia? — domando.
— Non lo so. Il ritorno di mio padre mi ha fatto ricordare te... Quella volta che me ne hai parlato.
— Capisco.
— Però non mi hai mai detto perché ti hanno portato lì.
Non rispondo subito. Non perché il tema mi tocca, ma perché non sento niente. Scavo nella mente, nei ricordi, ma non ci trovo nessuna emozione. — Mio padre e mia madre... Diciamo che... litigavano. Lui beveva tanto. Tornava a casa la sera fradicio e litigava con mia madre. Non so per cosa. Poi... facevano a botte.
Ilaria si stringe a me.
— Ricordo che se le davano di santa ragione — continuo, gli occhi fissi sull'ombra dei rami dell'albero sul soffitto. — Il resto, non lo ricordo. O meglio, non ricordo la loro presenza. È un po' difficile da spiegare a parole. Ma è come se fossero stati dei fantasmi.
— Mi dispiace tanto...
— Mia madre ha un bel caratterino — dico. — È una donna forte, indipendente. Immagino che litigassero perché mia madre fa sempre ciò che vuole. Oppure per altro. Non lo so. Non mi è mai interessato. — Faccio una pausa. — Comunque i vicini chiamavano spesso i carabinieri. Poi un giorno, insieme a loro, sono arrivato gli assistenti sociali e mi hanno portato via. Ricordo ancora... — Gli occhi mi diventano lucidi senza motivo, uno strano calore mi avvolge il corpo. — Ricorda ancora quel senso di impotenza. Mi sentivo impotente. E poi quel forte formicolio in testa. Le punte dei miei piedi che si alzavano mentre restavo immobile nell'ingresso. E poi le grida di mia madre. Ricordo solo le grida, non lei. Non sono nemmeno sicuro se abbia gridato veramente o se sia frutto della mia immaginazione.
Ilaria mette il viso lacrimato sulla mia faccia. Scoppia a piangere.
— Ehi... — dico.
— Mi dispiace tanto... — risponde, la voce rotta.
— Per cosa? Mica è colpa tua.
Le sua braccia si serrano attorno a me. _ Lo so, ma mi dispiace... Ti sarai sentito abbandonato... Solo...
— Non lo so. Se ci penso... Non lo so. Comunque ormai fa parte del passato. È come se... non fosse mai successo, perché sembra qualcosa di troppo lontano.
Ilaria mi bacia il viso, le sue lacrime che mi bagnano la pelle. — Questa è la prima volta che ti lasci andare così con me.
Sì, la prima volta. Credo. Non me lo ricordo. — Non pensiamoci più.
— Mio padre non è mai stato presente — dice lei. — Se ne andava in giro a tradire mia madre. Una volta si è persino portata a casa una donna.
Lo so, me lo ha già detto un paio di volte negli anni. — Tua madre ci ha litigato, giusto?
Annuisce, la sua guancia contro la mia. — Quella è stata l'ultima volta. Per mia madre è come fosse morto. Ma non ha mai chiesto il divorzio da mio padre e nemmeno lui. Non lo trovi strano?
— Sì, è strano.
— I tuoi... si amano?
— Boh.
— Boh?
— Non lo so. Spesso litigano per cazzate, ma... Non lo so. Forse perché non m'interessa.
— Li odi? — domanda Ilaria.
— No.
— Io odio mio padre. E mia madre.
Non rispondo.
— Mio nonno è l'unico normale della famiglia. L'unico che mi abbia mai capita.
Silenzio.
— Come fai a non odiarli? — domanda. — Io li odierai a morte.
— Non lo so. Forse perché li ho sempre visti come due ragazzini immaturi. Litigano sempre per delle stronzate e non fanno che incolparsi a vicenda. Ma non li odio. Mi fanno solo arrabbiare.
— Tua madre, però... Non mi sembra così.
— Non la conosci bene — rispondo. — Per lei ciò che pensa la gente è piu importante di tutto.
Muove leggermente la testa, abbassa gli occhi. — Mia madre è molto simile. Da piccola mi confrontava con le altre bambine. Diceva che dovevo essere perfetta, che non dovevo farle fare brutta figura con le altre mamme... Mi ha fatto odiare da tutte le mie amiche.
Altro silenzio.
Il gufo smette di bubolare.
La guardo. — Senti, mettiamoci a dormire.
— Va bene — risponde Ilaria. Si stringe a me.
Sento un po' caldo, ma non mi sposto. Resto a fissare il soffitto a lungo. Poi Ilaria inizia a russare leggermente. La guardo in viso. I capillari rotti, il collo violaceo che spunta da sotto i capelli.
Chiudo gli occhi. Penso a mia cugina, alla Grecia. Con l'anima sono rimasto in quel garage sotterraneo. Riesco a sentire ancora l'odore di benzina, di chiuso, di umidità. E le sue parole. Taglienti, affilate.
Forse Ilaria ha ragione, sono ossessionato da Sarah. Oppure me ne sto convincendo per giustificare i suoi continui rifiuti.
Mi sveglio all'alba. Ho dormito poco. Forse cinque ore. Non m'importa. Ilaria dorme stravacata sul letto. Occupa tutto lo spazio. Fuori, è ancora buio. Il cielo sta riacquistando i colori. Mi metto a sedere sul bordo del letto, mi passo una mano sul viso e mi alzo. Vado in bagno e mi faccio una doccia, mi rivesto e torno in camera. Ilaria dorme ancora.
Vado via.
Poco dopo sono a casa. Mi cambio con dei vestiti puliti e mi lascio cadere sul divano. Guardo la chat di mia cugina sul mio cellulare. Poi lo spengo e lo getto di lato, gli occhi sullo schermo spento della TV. Osservo la mia figura riflessa. Ho come un dejavu.
Due ore dopo sono nel mio ufficio. Ho la mente talmente annebbiata che non riesco a mettere a fuoco le parole sui documenti. Persino leggere mi risulta difficile. Stress e il poco sonno sono un mix letale. Gli occhi mi bruciano.
Apro il cassetto, prendo la bottiglia di scotch e un bicchiere e li poso sulla scrivania. Non mi verso da bere. Forse peggiorerei le cose, ma non ne sono sicuro. Ci rifletto per un po'. Poi mi verso da bere e bevo un sorso. Lo scotch mi infiamma la gola, gli occhi si inumidiscono.
Bussano alla porta. Dev'essere Federica.
Metto lo scotch nel cassetto, il bicchiere dietro la pila di fascicoli. — Avanti.
La porta si apre. Lei si affaccia nell'ufficio. — Tra un'ora c'è la riunione.
— Ilaria... La vicepresidente non c'è.
— Se ne occupa Paula.
— Oh... Ok. Grazie.
La porta si chiede.
Una riunione tenuta da Paula? Ilaria si fida così tanto da farle fare le riunione al posto suo? Quelle due non le capirò mai, né voglio farlo.
La riunione è come tutte le altre. Noiosa. Prolissa. Non che Paula non sia brava, ma odio le riunione. Dicono tutto e niente. La osservo mentre fa scorrere un paio di slide. Oggi è indossa una camicia grigia e un gonna corta nera. Credo sia la prima volta che la vedo con una gonna. Le fa risaltare gambe e sedere. Il sedere non ha lo stesso spessore di Sarah, né quello piccolo e modellato di Ilaria. È un sedere come tanti. Mi acciglio perplesso. Perché le sto guardando il culo?
Dopo la riunione, torno in ufficio. Non mi trattengo, non faccio domande. Non è di mia competenza. Qui in ufficio sono un outsider, un forestiero. Non faccio gruppo. Ilaria non mi ha ingaggiato per questo, ma per curare i portfoli dei clienti più facoltosi. Ormai qui lo sanno tutti.
Mi siedo dietro la scrivania, leggo un po' di documenti. La maggior parte dei clienti ha investito nell'oro. I profitti sono enormi. Pochi altri in azioni.
Finisco di leggere, prendo il fascicolo che mi interessa e metto da parte gli altri. Lo rileggo di nuovo. Questa donna è l'unica ad avere un fondo di investimento di 100 milioni. È una ricca vedova di 80 anni che ha ereditato una grossa azienda di mobilificio di suo marito. Ha un figlio che fa il chirurgo. E una figlia che viaggia per il mondo, senza fare nulla. Ilaria sapeva che avrei optato per questa cliente. Anzi, ha inserito un bel po' di informazioni personali. Voleva che la prendessi a carico.
Studio la storia dei suoi investimenti, dei profitti, delle perdite. Poi preparo un piano di investimento per spostare alcuni asset volatili in azioni più sicure.
A pausa pranzo, compro il solito tramezzino che sa di plastica dal distributore e tiro dritto in terrazza. Paula è gia seduta sulla la panchina. La supero e mi appoggio al parapetto. Guardo cielo azzurro. Lontano, all'orizzonte, nuvoloni carichi di pioggia.
— Certo che sei proprio buffo — dice lei alle mie spalle.
Non rispondo. Scarto il tramezzino e comincio a mangiare.
Lei si alza e mi affianca, i gomiti sul parapetto. — Mi eviti perché sai cosa cosa ti chiederò?
Le lancio uno sguardo. Non ha il contenitore con l'insalata. Prima l'aveva? Non ho fatto caso. — Non ti sto evitando.
— Beh, non mi hai nemmeno salutata — risponde un po' infastidita. — Mi hai ignorata completamente.
— Pensavo stessi mangiando.
— Ho già mangiato.
Non rispondo subito. — Quindi?
— Quindi sbrigati a finire. È stata una mattina stressante. Ho dovuto anche finire il lavoro di Ilaria. Ma perché non è venuta neanche oggi?
— Forse è malata.
Mi spinge debolmente. — Dai, dimmelo. Tu e lei siete pappa e ciccia.
— Davvero, non lo so.
— Come no.
I nuvoloni carichi di pioggia sono un po' più vicini. Scorgo un lampo.
— Quanto ci metti a finire? — domanda stizzita.
— Non mettermi fretta.
— Dai, oggi ho più voglia di ieri.
La guardo. — Dai per scontato che io sia disponibile?
Sbuffa seccata. — Non iniziare a fare il prezioso. Oggi non è giornata, perciò sbrigati.
Ingoio l'ultimo pezzo del tramezzino. — Devo digerire.
— Non fare lo stronzo — dice irritata. Mi afferra per un braccio e mi tira. Non ci riesce.
Resto immobile. — Penso che tu mi abbia preso per il tuo giocattolo.
— Accidenti a te, muoviti! — dice mentre mi tira con entrambe le mani. — Non farmi gridare.
— Perché dovresti?
Sbuffa esasperata e mi spinge con tutta la forza. Con rabbia. — Muoviti!
Mi sposto un poco. Lei fa per spingermi con le mani, si sbilancia e mi cade tra le braccia. Ci fissiamo per un attimo. Poi l'allontano. — Sembri una bambina capricciosa. — In realtà, sembra un mix di Ilaria e della mia ex assistente. — Se hai voglia, allora...
— Allora un corno! — dice ad alta voce, il viso teso, arrabbiato. — Perché devo farmi sgolare ogni volta?! — Mi prende per mano e mi trascina fuori dalla terrazza.
Un tuono romba nel cielo.
Entriamo nell'ufficio in disuso. È più buio di ieri. Forse perché il contrasto tra luce e buio è più netto di ieri.
Paula chiude a chiave.
La guardo stranito. — Dove hai la preso la chiave?
— Dall'ufficio di Ilaria — dice con un sorriso compiaciuto.
Sorrido in una smorfia. — Certo che sei proprio imprevedibile.
— Ti eccita?
Non rispondo. Le do le spalle.
Lei ci appoggia la testa, le mani sulle scapole. — Oggi voglio essere scopata come si deve. Non come ieri.
— Ieri non ti è piaciuto?
— Sei venuto in un secondo. E dopo... — Si zittisce un attimo. — Puoi fare di meglio.
— Potrei dire la stessa cosa di te — dico.
Mi fissa malissimo. — Cioè?
— Niente.
Mi afferra per la camicia e mi spinge contro il muro, tra le due finestre chiuse dalle tende, gli occhi nei miei. — Parla!
Smorzo un sorriso divertito. — Non voleva dire niente.
— Oh, invece penso proprio di sì. Cosa volevi insinuare?
Appoggio le mani sui suoi polsi. — Perché te la stai prendendo tanto? Dicevo per dire.
Molla la presa dalla mia camicia, si abbassa le mutandine e si appoggia con le mani contro il muro, accanto a me. Inarca il sedere. Non mi guarda in faccia. Aspetta.
Il mio pene diventa di marmo. Non so, il suo modo di fare me l'ha fatto venire duro in un lampo. E poi quel sedere che spunta da sotto la gonna, quella linea verticale tra i glutei, la forma della vagina che spunta tra le cosce.
Calo giù pantaloni e boxer e mi posiziono dietro di lei. Non lo metto subito dentro. Lo appoggia sulla linea del sedere. La pelle è un po' fredda, ma è una sensazione piacevole.
La mia mano scivola in mezzo alle sue gambe, inizio massaggiare un po' la vagina. Lentamente. Lei geme e stringe le mani a pugni sul muro. Poi ci metto due dita dentro. È caldissima e fradicia come sempre. Con l'altra mano afferro i suoi capelli in una coda spartana e li tiro debolmente verso di me. Il suo viso si alza, gli occhi che fissano il soffitto, la bocca semiaperta. Si lascia scappare un gemito.
Tiro fuori le dita e massaggio il suo clitoride duro. Con calma. Paula inarca ancora di più il sedere, mi mette una mano dietro la nuca e volta metà viso verso di me. Mi guarda negli occhi per un attimo. Fa per baciarmi, ma ci ripensa o si blocca. Non lo so. Resta a fissarmi, lo sguardo perso nel piacere.
Aumento leggermente la velocità delle dita mentre il suo sedere preme con forza contro il mio inguine. Il mio pene sprofonda un po' nella linea del suo sedere.
Metto le labbra vicino al suo orecchio. — Perché hai messo la gonna, oggi?
Continua a fissarmi. Non risponde.
Le tiro leggermente i capelli. — Per me? L'hai fatto per me?
Niente. Solo gemiti.
Le mie dita sfregano con più intensità il suo clitoride. Lei ansima, mi acciuffa i capelli da dietro la testa. Le bacio la nuca. — Ti piace tanto farti scopare da me?
Si gira di scatto, mi prende per la camicia e mi sbatte al muro con forza. Mi fa abbassare e avvicina la vagina alla mia faccia. — Mi stai dando suo nervi. Parli troppo. — Mi prende per i capelli e mi sbatte la faccia contro la sua vagina fradicia.
Lecco le sue grandi labbra, senza pensarci due volte. Odora di sapone neutro, di ammorbidente. La bocca mi si riempie dei suoi umori. Paula rafforza la presa sui miei capelli e preme ancora di più la mia faccia sulla sua vagina. La mia lingua sprofonda all'interno, prende fuoco. I suoi liquidi mi colano giù dalle labbra mentre il mio naso sfrega il suo clitoride. Ne sento la durezza, il calore.
Poi il suo corpo si contorce, le gambe si irrigidiscono, le sue dita stringono con forza i miei capelli. E mi viene in bocca. Un getto forte. Intenso.
Lo sputo sul pavimento. — Ma che...
Paula mi prende il viso tra le mani e mi bacia. Un bacio sessuale e affettuoso. Mi infila la lingua in bocca, la muove attorno alla mia. Continua a baciarmi come se mi stesse mangiando. Non l'ho mai vista così. Che cazzo l'è preso?
Mi fa stendere a terra con il peso del suo corpo mentre continua a baciarmi. Prende il mio pene e lo fa scivolare dentro di sé, le tette dietro il tessuto che premono contro il mio petto. Poi comincia a muovere il bacino. Lentamente.
Tre secondi. Solo tre. E le vengo dentro. Di più impossibile. Ormai me ne sono fatto una ragione.
Paula continua a muoversi su di me, a baciarmi. Poi smette e mi fissa per un momento. Sbuffa e china il busto su di me, petto contro petto, la testa accanto alla mia. Ritorna a muoversi. Più velocemente. Non sembra fare l'amore con il mio pene, ma con il mio inguine. Ci struscia sopra il clitoride, lo sento sulla pelle.
Poi si irrigidisce di nuovo, ansima, il corpo scosso dall'orgasmo. E si abbandona su di me. I suoi liquidi e il mio sperma colano lungo il mio pene e continuano a scendere in mezzo ai genitali. Sento il suo respiro accanto al mio orecchio, il suo profumo di balsamo e acqua di colonia in faccia.
Restiamo così per un po'.
Paula si alza, prende i fazzoletti che ha dimenticato sulla scrivania ieri e si pulisce la vagina. Poi si rimette le mutandine e si sistema i capelli, il viso sfatto, arrossato.
La guardo senza dire niente. Ho l'inguine arrossato per il suo strusciarsi.
Lei mi lancia uno sguardo. — Sbrigati a rivestirti. O vuoi metterti a dormire?
Mi alzo e mi rimetto boxer e pantaloni. — Oggi eri scatenata.
— Te l'ho detto che avevo voglia.
— Il bacio... Cos'era?
Si acciglia perplessa. — Cioè?
— Mi è sembrato strano. Sembrava volessi mangiarmi.
— Mi sono lasciata trasportare. Ero troppo eccitata.
— Già, me ne sono accorto.
Un breve silenzio.
— Comunque, — dice Paula, la voce seccata — mi dà suo nervi che vieni così subito. Nemmeno lo infili che già vieni.
— Eh... — rispondo. Non so che dire.
— Eh? Tutto qui?
— Cosa vuoi che dica? Non riesco a controllarmi.
— Ti ecciti così tanto?
No, ma è la tua vagina che è stregata. È così calda che mi fa venire in un nano secondo. — Beh...
— Io non mi eccito così tanto — dice con nonchalance.
— A me non è sembrato così.
I suoi occhi si serrano minacciosi. — Ti sbagli. Faccio tutta da sola. Anche oggi è stato così. Non sai fare niente. E in piu vieni subito.
— Se ti dà così fastidio, allora non farlo più con me.
Mi fissa per un momento. Nei suoi occhi leggo un "no" grande quanto questo grattacielo in cui siamo. Si volta, va verso la porta e la apre con la chiave. Sbircia fuori per un momento e si volta verso di me. — Andiamo.
La seguo.
Camminiamo lungo il corridoio in silenzio mentre calo l'occhio sul suo sedere. E niente, oggi mi sono fissato. Non è nulla di speciale, eppure ne sono attratto come una falena alla luce.
Ci fermiamo tra i cubicoli vuoti, quasi davanti alla porta del mio ufficio. Ci guardiamo per un attimo. Poi mi giro e faccio per aprire.
— Non mi dà fastidio — dice di colpo.
— Cosa? — rispondo, la mano sulla maniglia della porta chiusa. Non mi giro.
— Che sei come un coniglio in calore, che vieni subito.
— Capito.
— E poi non ho alternative — dice, la voce tradisce qualcosa di falso.
Mi volto a metà verso di lei. — Ormai sono un tuo giocattolo, no? Prima o poi ti stancherai di usarmi. È una cosa comune. Una questione di tempo.
Il suo viso si indurisce. — Non sei il mio giocattolo. Facciamo solo... questo.
— Già, questo.
— C'è solo questo. Nient'altro. Quindi non arrovvelarti per quel bacio. Non significa niente.
La fisso un momento. Sì, ha ragione. Non sta mentendo. Non significa nulla. — Ok, capito.
Diverse voci giungono dal corridoio che porta all'ascensore. Devono essere i nostri colleghi.
Paula si allontana verso la sua scrivania, accanto all'ufficio di Ilaria. Un paio di colleghi sbucano dal corridoio. Parlano, scherzano, ridono.
Apro la porta ed entro nel mio ufficio. Sento un odore. Annuso l'aria, poi la camicia. Ho il tessuto pregno del suo odore.
Squilla il cellulare sulla scrivania. Lo prendo e guardo lo schermo. È Ilaria. Lo portò all'orecchio. — Sì?
— Dove sei? Perché te ne sei andato? — domanda, il tono ansioso, ma freddo.
— In ufficio. Perché?
Non risponde subito. La sento sbuffare. — Potevi svegliarmi, almeno. Mi sono svegliata e non ti ho visto.
— Stavi dormendo profondamente. Non mi sembrava giusto svegliarti.
Sbuffa di nuovo. — Potevi anche non andare al lavoro.
La ignoro. — Come ti senti oggi?
— Perché non hai risposte alle mie chiamate?
— Alle tue chiamate?
— Ti ho chiamato un miliardo di volte.
Mi acciglio perplesso. Guardo il cellulare, controllo le notifiche. 26 chiamate perse. E tre messaggi. "Rispondi!" "Perché non rispondi?! 😡" "Dove sei?! Rispondi quando ti chiamo!!!😡🤬"
— Allora? — dice Ilaria, la voce nervosa.
— Avevo il silenzioso — mento. — E poi ho lavorato tutta la mattina. Ho controllato i documenti dei clienti che mi ha dato Federica, i clienti che mi hai proposto tu.
Un breve silenzio.
— Li hai controllati tutti? — chiede, il tono forzatamente pacato, distaccato.
— Sì. Ho scelto quello che mi hai consigliato.
— Non ti ho consigliato nessun cliente.
— C'è un fascicolo intriso di dati personali e...
— Parli di Vitania Verdi?
— Sì, l'ereditiera dell'impresa di mobilificio.
— La seguivo personalmente — dice, la voce sempre più distaccata. — Ecco perché ci sono tanti dati. Hai scelto lei?
— A me è sembrato che volessi che scegliessi lei.
Non risponde. Ci ho preso in pieno.
— Comunque, — dico — non è come Caterina Savona, ma è il cliente più grosso della tua compagnia. Me ne occuperò io
— Stasera vieni da me — dice di getto. — Ci vediamo un film. Scegli tu.
Faccio per rispondere.
Riaggancia.
Verso le cinque e mezza incontro Paula davanti all'ascensore. Mi guarda di sottecchi. Forse ce l'ha con me per prima. Non è colpa mia se non riesco a durare tanto come accade con Ilaria o mia cugina. Non posso di certo dirle che è per via della sua vagina. Suonerebbe come una scusa.
Le porte dell'ascensore si aprono, entriamo insieme ai colleghi. Ci mettiamo in fondo, in un angolo. L'ascensore fa un sussulto e comincia a scendere.
Lancio uno sguardo fugace verso di lei. Il suo viso è inespressivo, gli occhi in avanti. Non mi degna di uno sguardo. Ma perché se la prende così tanto se è già successo altre volte. Molte volte. Non ha senso.
Le porte dell'ascensore si aprono, usciamo. La seguo alle spalle lungo l'atrio ricoperto di gente, gli occhi sul suo sedere. Non vedo altro.
Usciamo dall'edificio e la seguo per tre minuti, fino alla sua macchina.
Si volta verso di me, le persone che passano sul marciapiede. — La smetti di seguirmi?
— Sei arrabbiata con me? — chiedo di getto.
— Non sono arrabbiata con te. Non ne vale la pena.
— Senti, non è...
— Lascia perdere. Non m'interessa.
— Non soffro di...
— Ti ho detto che non m'interessa! — dice ad alta voce.
Alcuni passanti si voltano a guardarci mentre proseguono per la loro strada.
— Ok, ho capito — rispondo. — Volevo solo...
Sbuffa seccata. Apre la macchina con il telecomando, ci entra dentro e se ne va.
Lei e Ilaria sono troppi simili. Si incazzano senza motivo. Ecco perché non si possono vedere. Tra simili ci si piglia a schiaffi.
Torno indietro, in direzione del parcheggio. Quando passo di fronte all'edificio, scorgo l'auto di mia cugina. Mi acciglio perplesso. Anzi, resto di sasso. Fisso la targa. È la sua.
Mi avvicino al veicolo. Alla guida, c'è Sarah, le mani sul volante, lo sguardo fisso in avanti come se stesse pensando a cosa dire. Busso sul finestrino anteriore del passeggero.
Lei sobbalza, mi guarda. I suoi occhi si allargano tesi, ansiosi. Mi fa cenno di salire a bordo con la mano.
Apro la portiera e mi siedo. — Ehi, che ci fai qui?
— Parto per la Grecia. Stasera. — risponde secca, apatica, gli occhi in avanti.
— Cosa?! — rispondo irrequieto. — Non avevi detto che...
— Ho anticipato il... — Si zittisce. — Non importa. Mi sembrava giusto avvisarti.
— E se non mi avessi trovato, cosa avresti fatto?
Mi guarda. — Ti ho visto poca fa. Seguivi una tua collega, immagino.
— Questo cosa c'entra?
Mi fissa male per un attimo. — Mi sei passato accanto e nemmeno te ne sei accorto.
Davvero? Impossibile. — Ti avrei vista se fossi...
— Avevi gli occhi piantati sul culo di quella là — risponde piatta, controllata. — Come avresti fatto a vedermi?
Abbasso lo sguardo per un attimo. Faccio per dire qualcosa, ma mi blocco. Qualsiasi cosa dica suonerebbe come una scusa. Una patetica scusa. Mi ha colto con le mani nel sacco.
Sarah continua a fissarmi negli occhi. — Immagino che tra te e lei ci sia qualcosa. Non è da te andare dietro a chiunque.
Solo sesso. Solo questo. — Non c'è niente. Abbiamo solo... litigato sul lavoro. Volevo fare pace.
Scuote la testa con disappunto. — Menti pure. Non m'interessa. Sono venuta qui solo per dirti che parto.
Allungo una mano verso il suo braccio.
Mi schiaffeggia il dorso con un colpo secco. — Scendi.
— Aspetta...
— Scendi.
— Potresti...
— Non iniziare con le tue lagne e scendi!
La guardo per un attimo. — Ti raggiungerò.
— Non lo farai.
— Lo farò, invece. Resterò appiccicato a te per un mese. E nel frattempo, mi troverò un lavoro che mi permetta di stare con te.
Il suo sguardo si deforma, si fa minaccioso. Poi abbozza un sorriso storto, strano. Sembra compiaciuto, ma in realtà cela una profonda tristezza. — Non sai dove sarò. Non te l'ho mai detto. Nemmeno Ilaria lo sa, me ne sono accertata di persona.
La guardo incredulo. Perché sta facendo così? È per Paula? Non rispondo.
Il viso di mia cugina torna serio, controllato. — Potresti chiedere a suo nonno, ma non te lo dirà. E tu non ci andresti. Non per chiederglielo. Non è così?
I miei occhi si restringono. — Perché? Perché stai facendo così? Mi avevi detto che...
— Se non faccio qualcosa io, tu distruggerai la mia vita e la tua — dice, la voce decisa, irremovibile. — Tu ed io. Noi... È stato solo... una debolezza. Siamo entrambi incasinati e...
Scatto verso di lei e la bacio. Le mie labbra avvolgono le sue, la mia lingua si insinua nella sua bocca, cerca la sua.
Lei mi spinge via di forza. — Ma che diavolo fai?! Sei impazzito!
— Sì, sono impazzito! — dico, il cuore a mille, la faccia che formicola, il suo sapore sulle labbra. — Mi hai fatto impazzire. Non ragiono più. Tu...
Mi molla uno schiaffo in faccia. Un suono secco. Una botta potente, carica di tutta la distanza che vuole imporre tra da noi. — Ti avverto, Tommà! Avvicinati di nuovo e ti faccio a pezzi!
La guardo deciso, gli occhi spiritati. — Allora fammi a pezzi! Fallo! Fammi a pezzi! Che aspetti!?
I suoi occhi si infiammano, il viso paonazzo per la rabbia. Prende il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrolla la rubrica.
— Che stai facendo? — chiedo confuso.
— Chiamo la zia. Le dirò tutto.
— Non puoi farlo! — dico mentre allungo le mani verso di lei, il cuore in gola per l'ansia.
Mi allontana con una mano, ma non ci riesce del tutto. Sono più forte di lei. Le afferro la mano che stringe il cellulare e tento di strapparglielo via.
Lei si dimena, lotta. — Lasciami! Lasciami, Tommà!
Non la lascio. La tira verso di me per la mano. — Dammelo!
Sarah mi morsica il polso, affonda i denti nella carne. In profondità.
Mollo la presa e mi porto la mano sulla ferita. Sta sanguinando. — Ma sei scema!?
— Scendi! — urla furiosa, gli occhi indemoniati, stravolti. — O giuro che chiamo tua madre!
— Vaffanculo, pazza isterica! — le grido in faccia con tutta la rabbia, l'impotenza e la tristezza che ho in corpo. — Vaffanculo!
Lei mi fissa sorpresa, la bocca semiaperta, il cellulare sospeso in aria.
Scendo e sbatto violentemente la portiera. Faccio per andare, ma incrocio lo sguardo della gente che mi fissa. Tra loro, alcuni miei colleghi. Mormorano tra loro, gli occhi che giudicano. Forse hanno assistito all'intera scena. E domani, in ufficio, sarò sulla bocca di tutti.
La macchina di Sarah parte alle mie spalle, si allontana.
Sospiro. Abbasso lo sguardo e me ne vado, tra gli sguardi giudicanti di colleghi e passanti.
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