Mia cugina: Parte 45

di
genere
incesti

Quando mi sveglio, Sarah è ancora su di me. Dorme come un sasso. Il mio pene si è ammosciato, ma è leggermente dentro la sua vagina. Guardo il suo viso, la bocca un poco aperta, i capelli scompigliati sulla faccia. Le do un bacio sulla fronte e le sposto i capelli dal viso. Lei deglutisce e si sistema meglio sopra il mio corpo. Ho il petto sinistro un po' sbavato. Sorrido e alzo gli occhi verso il fascio di sole che illumina una parte del soffitto. Resto così per un po’. Mezz'ora? Un’ora? Non lo so.
Sarah apre gli occhi assonnati. I nostri sguardi si incrociano, mi sorride. Non dice buongiorno. Non dice niente. Non ne ha bisogno. Il suo sguardo parla da sé. Mi dà un bacio a stampo e appoggia la testa sul mio petto. Lo rialza subito dopo. — Oh… Ti ho sbavato tutto… Scusa.
Sorrido come se fossi in paradiso. — Non fa niente.
— Aspetta, che ti pulisco.
Fa per alzarsi, ma la tiro a me per un braccio. — Dove credi di andare?
Lei ridacchia e si accoccola su di me. — Dove credi stia andando?
— Resta qui.
Mi sorride, la testa appoggiata sul petto. Non ci parliamo. Rimaniamo in silenzio a lungo, il rumore del traffico fuori dalla finestra. Lei gioca con i peli del mio petto, il suo dito che scorre sulla pelle.
— Dammi un pizzicotto — dico con un sorriso da ebete.
Alza lo sguardo su di me. — Perché?
— Sembra troppo bello per essere vero. Forse sto sognando.
— Sei troppo esagerato.
— Vorrei rimanere così per sempre.
Il dito di mia cugina si attorciglia a un mio pelo. — Non ti facevo così romantico.
— Non ti piacerebbe restare qui per sempre?
— Sì, ma non è possibile. Tra poco torneremo alla realtà.
Una doccia fredda. Un pugno nello stomaco. — Pensavo che…
— Non c'è niente di male a sognare, però…
— Che ne dici di un viaggio insieme?
— Un viaggio?
— Una weekend. Qualcosa di breve. Solo noi due.
— Non lo so…
Le accarezzo i capelli dietro la testa. — Anche un campeggio. Ti piace l’idea?
Non risponde.
— Boschi. Montagne. E poi…
— Sembra pericoloso.
— Pericoloso?
— Noi due insieme… Ho la sensazione che sarebbe… Come dire, la fine per me.
La guardo serio. — Un nuovo inizio, non la fine.
Si alza a sedere sul bordo del letto. Una ventata di balsamo mi arriva in faccia. Osservo i suoi fianchi larghi, le sue spalle. Lei si volta. — Dobbiamo fare qualcosa.
— Lo hai detto anche ieri. E l’abbiamo fatto. Abbiamo fatto qualcosa.
— Qualcosa di concreto.
Mi acciglio perplesso. — Non ti seguo.
Sposta lo sguardo verso la finestra, la luce del sole che invade la stanza. — Dobbiamo smetterla. Finirla una volta per tutte.
Mi metto seduto sul letto. — Ieri abbiamo parlato e litigato, ma sei voluta venire a casa mia. Credevo che avessi deciso, che…
— Non ho deciso niente.
— Ma mi hai detto che mi ami.
— Ed è così. Ti amo, ma non basta…
Mi passo una mano sulla faccia per la frustrazione. — Sei tu.
— Cosa?
— A fare tira e molla.
Si volta verso di me torva. — E tu a venire da me.
— Perché ti amo e voglio…
— Siamo alle solite.
— Perché sei tu… sei tu che…
— Non sono io — dice secca. — Sei tu.
Cala il silenzio per un momento. Fuori, diversi colpi di clacson. Un uomo grida di spostare la macchina. L’altro gli urla che c'è spazio per passare. Altri colpi di clacson. Altre grida.
— Non cercarmi più — dice Sarah quasi in un sussurro. — Dimentica tutto.
— Come se fosse facile.
— Lo so… Non lo è. Non lo è per nessuno dei due.
Osservo la luce del sole entrare dalla finestra. — Se venissi da me… se accetteresti di stare insieme, tutto sarebbe più semplice.
— Lo avrei già fatto, se fosse semplice.
— Tu mi ami. Il resto non conta.
— Il resto sono dettagli. Dettagli che si accumulano e diventano montagne.
La guardo. — Allora valichiamoli insieme. Io e te. Passo dopo passo.
Mi fa un sorriso agrodolce. — Sai come parlarmi, te ne devo dare atto.
— Non sto cercando di persuaderti, ma di farti capire ciò che vuoi davvero. Tu mi ami. Io pure. È semplice. Perché complicare tutto?
Mi fissa per un momento, le urla che continuano in strada. Fa per parlare, ma si zittisce. Si alza ed esce dalla camera.
Mi alzo, vado in cucina e mi verso un bicchiere di latte e caffè. Lo bevo mentre guardo giù dal balcone. L'aria mattutina è fresca e soffia un bel venticello. La strada è puntellata di gente e veicoli. Un furgone parcheggia in doppia fila. Il conducente scende con un pacco in mano e corre verso il condominio di fronte. Colpi di clacson, gente che sbraita. Rientro dentro.
Mia cugina è seduta sul divano, un bicchiere di succo mela e banana in mano. Si è appena lavata e indossa uno dei miei boxer e una canottiera che le va troppo larga.
Mi siedo accanto. — Riguardo a poco fa…
— Ho messo nella lavatrice la tua roba e la mia. Non ti scoccia, vero?
— No, tranquilla.
Accende la TV con il telecomando e beve un sorso di succo. — Hai parlato di un viaggio poca fa.
Le mie orecchie si drizzano come un coniglio. — Sì, un campe…
— Il nonno di Ilaria mi ha proposto di lavorare in Grecia. Sei mesi.
Che cazzo di bomba sta lanciando così su due piedi!? — Lavo… cosa?
Ilaria cambia canale fino a fermarsi su Italia uno. Danno Baywatch. — Lo sai che suo nonno è il proprietario dell’azienda vinicola, giusto?
— Sì, ma…
— Mio nonno conosce suo nonno. E mio nonno ogni tanto dà una mano in cucina per mancanza di personale.
— Dove vuoi arrivare? — domando turbato.
— Il nonno di Ilaria sta aprendo una trattoria in un'isola greca frequentata dai turisti tutto l’anno. Così mi ha proposto di dirigerlo insieme a mio nonno. Lui ha molto esperienza in cucina, perciò…
— Scordatelo! — dico secco, una mano stretta a pugno per il nervoso.
Sarah sposta gli occhi su di me, mi fissa malissimo. — Non sei tu a decidere se andrò o meno.
— Allora perché me ne hai parlato? Per rovinarmi ancora di più la giornata?
Si volta verso la tv. Un tizio sta correndo verso il mare per soccorrere un bambino che sta annegando. — Sei sveglio, ma altrettanto stupido.
— Se sono così stupido, — dico irritato — allora spiegami.
— Volevo chiederti di venire con me.
Una vampata di calore mi pervade tutto il corpo e sale fino alla testa. La faccia mi formicola. — Venire… venire con te?
Mi guarda seria. — Sì, con me. A dire la verità, è da un po’ che ci penso e…
— Ok, va bene, ma… Sei mesi sono troppi. Non posso prendermi un permesso così lungo dal lavoro.
— Lo so. Per questo da un lato non volevo domandartelo.
La fisso negli occhi. — È importante per te? Intendo, andare in Grecia. Gestire una trattoria in un posto che non conosci.
— Sì, è importante — risponde decisa. — Ho intenzione di aprire un ristorante un giorno. E questa opportunità… capita solo una volta nella vita. Devo coglierla al volo.
— Capisco — dico un po' abbattuto. — Posso chiedere un permesso. Quindici giorni, massimo un mese.
— Ilaria… non può coprirti? È la vicepresidente, dopotutto. E suo nonno è il presidente della compagnia.
Scuoto la testa. — No, non può. E poi ho dei doveri verso la compagnia. Senza contare che, il mio unico cliente, è un pezzo grosso. Troppo grosso. Non posso prendermi troppo tempo per me, anche se lo vorrei…
Mia cugina si acciglia. — Da remoto? Non puoi lavorare da remoto?
— Se fossi un semplice impiegato sì, ma… Quel pezzo grosso è Caterina Savona. Devo essere presente fisicamente durante le nostre riunioni. E poi quella donna ha così tanto potere e influenza che potrebbe mettere in serie difficoltà la compagnia per un capriccio. E non oso immaginare cosa può fare a me.
Sarah sposta lo sguardo verso la TV. La pubblicità di un formaggio. — Ho capito… Peccato… Mi sarebbe piaciuto passare più tempo con te.
— Staremo insieme per un mese. E poi posso prendere un aereo nei weekend.
— No, sarebbe troppo faticoso per te.
Restiamo in silenzio per un po'.
La puntata di Baywatch ricomincia. Due tizi litigano per una donna. La donna non è interessata a nessuno dei due, ma al tizio che non se la fila. Questo è innamorato di una donna molto più grande di lui, che ha salvato durante l’incendio e l'affondamento di uno yacht.
— Quando andrai? — domando.
Sposta lo sguardo verso di me. — Tra una settimana.
— Se per te è importante…
— È importante.
Annuisco, le stringo la mano. Lei mi guarda, sorride. Sorrido anch’io. — Va bene.
Posa la testa sulla mia spalla, gli occhi sulla tv. — Se non puoi venire, non fa niente.
— Verrò.
— Non sei obbligato.
— Non lo sono. Voglio solo starti accanto.
— Ma tu qui hai il tuo lavoro…
Le cingo la spalla con un braccio. — Ehi, non preoccuparti. Prenderò un permesso. È tutto deciso. Non pensiamoci più.
Accoccola la testa sul mio petto. — Va bene.
— Ora…
Alza gli occhi su di me. — Ora?
— Stiamo insieme?
Mi fissa per un momento. Non risponde. Sposta lo sguardo sulla TV. La pubblicità di un medicinale.
— Scusa — dico.
— Non fa niente.
— Tra poco devo andare al lavoro.
— Lo so.
— Puoi restare qui quanto vuoi.
Non risponde.
— Mi piacerebbe averti in giro per casa — dico con un sorriso.
Silenzio.
Devo cambiare discorso. L’aria si sta facendo pesante. — Comunque di questo periodo danno sempre Baywatch in TV.
— Già.
— È un classico come…
Si alza. — Devo andare — dice, la faccia agitata. — Devo accompagnare mia madre dal dottore.
— Ma non va sempre con mia madre?
Non risponde subito. Sta cercando le parole o una scusa. — Oggi no. L'accompagno io. Dopo andiamo al centro commerciale.
— Ok. Ma vuoi uscire così?
Mia cugina si guarda la canotta larga. — Ah, già.
— Non ho niente della tua misura o che sia femminile.
— Hai una tuta?
— Sì, ma ti vanno tutte larghe.
— Non fa niente.
Mi alzo. — La vado a prendere.
Lei si siede. — Va bene.
Vado in camera da letto, prendo la tuta nera e una maglietta bianca dall’armadio e ritorno in soggiorno. — Tieni.
Lei si toglie la canotta, le tette che ballano sul petto. Nota che sto guardando. — Che c'è?
Sorrido, il pene che sta diventando duro. Sa bene che sono eccitato. — Niente.
Si mette la maglietta bianca e poi la giacca e i pantaloni della tuta. — Grazie.
— Figurati. La prossima volta porta qualche tuo vestito per il ricambio. Ho spazio nell'armadio.
Si limita a sorridere con un no gigantesco scritto sulle labbra. — Ora devo andare. Grazie ancora. — Si gira e fa per andare verso l’ingresso.
— Aspetta — dico mentre la raggiungo.
Si volta. — Sì?
L’abbraccio, la stringo me. — Ti amo.
— Mi stai strozzando — risponde, la voce soffocata.
Sorrido. — E fatti strozzare, allora.
Lei mi spinge via un po' debolmente, abbozza un sorriso tirato, rigido. — Non fare il cretino.
— Non mi dici quella parola?
Mi fissa per un momento. Non vuole dirla. Le pesa come un macigno. È troppo ingombrante. — Buon lavoro. Ora vado.
Sorrido forzato. — Buona giornata.
Lei si volta e va via.
Resto immobile per un po', gli occhi sulla porta. Deluso, frustrato, combattuto, triste. Tutto e di più.
In TV, la voce del presentatore di Eminflex risuona nella stanza. — Un offerta irripetibile. Per soli 289 euro puoi portati a casa questo materasso ergonomico. Cosa stai aspettando? Chiama il…
Sto aspettando il “ ti amo anch’io” di mia cugina. O meglio, lo stavo aspettando.



Un’ora e mezza dopo sono seduto alla scrivania del mio ufficio, nella mente ancora mia cugina. Il ti amo mancato e poi quella bomba termonucleare sganciata dal nulla. Grecia. Sei mesi. Come farò senza di lei? Mi sento patetico. Un coglione. Le ho detto che mi va bene, ma non è così. L’ansia mi attanaglia, mi divora dall'interno. Proprio ora che Sarah stava accettando l’idea di stare insieme. Senza contare che è venuta nel mio appartamento di sua iniziativa.
Bussano alla porta.
So già chi è. Riconosco il battito leggero delle nocche come se temesse di disturbare. — Avanti — dico.
Federica entra, mi porge un fascicolo. — La vicepresidente mi ha detto di darle questo.
Mi sta dando di nuovo del lei. Lascio perdere. — Cos'è?
— Non lo so.
La guardo, il viso colorato. Sembra che la tristezza si andata via. Mi fa piacere. — Bene. Grazie.
Va via e chiude la porta.
Leggo il fascicolo a saltelli. Un nome mi salta all'occhio. Caterina Savona. Sono i resoconti dei suoi investimenti. Nulla di particolare. Pensavo fosse qualcosa di serio. Chiudo il fascicolo, lo sposto di lato sulla scrivania e mi giro sulla sedia verso l’ampia vetrata. Il cielo è terso. Sotto, la città fa rumore. Mia cugina è lì, da qualche parte. Forse con sua madre o forse da sola.



Alle due esco dal mio ufficio e attraverso i cubicoli vuoti. Sono andati tutti a mangiare nei bar o nei fast food. Raggiungo il distributore automatico, inserisco due euro e pigio un tasto. Il tramezzino cade giù con un tonfo. Mi chino, lo prendo.
Pranzo al sapore di plastica.
Esco sulla terrazza.
Due donne sono appoggiate coi gomiti al parapetto di pietra. Le stesse che avevano quasi sorpreso me e Paula fare l’amore in una rientranza nel muro. Parlano, ridono. Piacerebbe anche a me avere la loro spensieratezza. Mi siedo sulla panchina di legno, scarto il tramezzino, ci do un morso.
Ilaria si siede accanto, un piccolo panino in mano. Non sussulto. Nessuna reazione. Oggi sono troppo moscio. Si porta il panino alla bocca, si ferma, lo abbassa. — Ogni tanto potresti variare.
— Sono abitudinario.
— Quel tramezzino non ti piace.
Dici che sa di plastica.
— Però è sempre lì. Non lo fai cambiare.
Dà un piccolo morso al panino. — Non sono io a decidere cosa va nel distributore.
— Tuo nonno, immagino.
Non risponde.
Mangiamo in silenzio per un po'.
Inghiotto l'ultimo pezzo di tramezzino. Oggi non era male. Sapeva solo di salsa tonnata.
Ilaria mi passa metà panino. — Non mi va più.
Lo prendo e ci do un morso. Buono. Il tonno si sente tanto. Anche il salame. — Dove l’hai preso?
— A due isolati da qui. Sapori di casa.
— Ah, lo conosco.
— Se vuoi, te ne compro uno domani.
— Non serve. Ma grazie.
Ilaria annuisce, alza lo sguardo verso il cielo azzurro. Un aereo sullo sfondo, una scia bianca dietro la coda. — Sarah…
La guardo con la coda dell’occhio. Non rispondo. Mastico.
— Sei andato da lei, ieri?
— Sì.
Si torce le dita.
Un breve silenzio.
Le due donne si voltano e si irrigidiscono nell’incrociare lo sguardo di Ilaria. Chinano la testa per salutarla e rientrano.
— Tua cugina partirà per la Grecia — dice lei.
— Lo so.
Mi guarda. — Quindi?
— Aspetterò.
— Sei mesi sono tanti.
— Cinque mesi.
— Cinque? — domanda perplessa.
— Mi prenderò un permesso. Un mese.
— Cosa? Un mese?!
Sposto lo sguardo su di lei. — Ho seguito gli investimenti di quell'arpia di Caterina Savona da solo. Merito almeno un mese di ferie.
Non risponde subito. Sta pensando a cosa dire. — Hai intenzioni di passarli con lei?
Mi limito a fissarla.
I suoi occhi si serrano un poco, passa lo sguardo oltre il parapetto, verso il cielo. — Capisco.
Un silenzio breve.
Mi lancia un’occhiata. — Un mese è troppo.
— È anche poco.
— Come facciamo con Caterina Savona? È stata categorica riguardo a chi avrebbe gestito i suoi investimenti.
— Può aspettare un mese. E poi credo che non se la prenderà più di tanto. Sua figlia si è sistemata con un tizio molto ricco. Suppongo che sia al settimo cielo, ora.
— Quindi quella ragazzina non ti è più tra i piedi? — domanda curiosa.
— Non più — rispondo secco. — Riguardo al permesso…
— È troppo. Un mese è troppo.
— Merito un po' di riposo dopo avermi sorbito quella megera, non credi?
— Quindici giorni.
— Sono pochi.
— Di più non posso. Mio nonno non approverebbe. Non fa favoritismi.
— Mi conosce da più di quindici anni. Penso che…
Mi fissa torva. È irremovibile. — “Non fa favoritismi.”
Ci guardiamo per un attimo, un leggero venticello ci sfiora.
— Non è che non vuoi tu? — domando.
— Pensi sia gelosa?
— Beh…
China il viso verso di me, lo sguardo deciso, duro. — Fuori da questo edificio posso anche essere gelosa o quello che vuoi, ma qui, dentro queste mura, sono il tuo capo. — Gli occhi si infiammano. — E se ti dico che un mese è troppo, allora è troppo.
Distolgo lo sguardo. No, non c'è gelosia. Nemmeno una traccia. — Lo fai per Caterina Savona? Pensi che possa fare qualcosa alla tua compagnia?
— Guardami.
Lo faccio.
I suoi occhi mi scandagliano l’anima. — Sono il tuo capo, il vicepresidente di questa compagnia fondata da mio nonno. E lo faccio perché, come lui, non faccio favoritismi sul lavoro.
Annuisco. — Capito.
— Bene — dice Ilaria secca. — Quindici giorni. Non uno di più, non uno di meno.
Quando fa così, vorrei farmela seduta stante. Mi arrapa. Poi l'immagine di Sarah invade i miei pensieri. Rinsavisco. — Ok, quindici giorni.
— Divertiti con tua cugina — dice acida. Si alza e va via.
Per un momento, seppur strano, pensavo mi avesse dimenticato. Anzi, cancellato. Invece la Ilaria che conosco è ancora lì, nascosta in quegli occhi freddi e apatici.



Verso le cinque esco dal mio ufficio. I dipendenti sono andati tutti via. Regna un silenzio strano, interrotto solo dal traffico fuori dal grattacielo. Attraverso i cubicoli vuoti e arrivo davanti all'ascensore chiuso.
Paula è lì, le braccia conserte. Aspetta l'ascensore anche lei. Mi guarda. — Prenderai un permesso?
Mi acciglio confuso. — Come lo sai?
— Le voci corrono in ufficio.
— Tu da chi l’hai saputo?
— Non importa. Andrai in Grecia, quindi…
La guardo serio. — Sai troppe cose.
— Sono una ficcanaso. Ricordi?
— Lo ricordo benissimo.
Le doppie porte dell’ascensore si aprono. Entriamo. Pigio il tasto per il piano terra. L’ascensore comincia a scendere, l’interno che si impregna del suo profumo dolce.
— Ho saputo — dice lei — che non stai andando da solo. È così?
Non rispondo.
— Sarah — continua quasi in un bisbiglio.
Scatto il viso verso di lei. — Che hai detto?
Solleva un angolo della bocca in un sorriso compiaciuto. — È tua cugina, giusto?
Mi limito a fissarla con aria grave.
L'ascensore si ferma, le doppie porte si aprono. Un brusio concitato sorvola l’atrio punteggiato di persone.
Lei esce e si gira verso di me. — Vi ho sentiti. Sulla terrazza. Tu e Ilaria. — Abbozza un sorrisetto divertito. — Quindi… ti piace tua cugina? Interessante.
— Ehi…
Alza un dito per farmi tacere, se lo porta alla bocca con una risatina. — Sssh! Qui le mura hanno orecchie e lingue lunghe.
Corrugo la fronte dal nervoso, serro i pugni. Non parlo.
— Credevo che alla fine saresti caduto nelle grinfie di Ilaria, invece scopro che è caduta lei nelle tue. Beh, non mi sorprende. Fin dal liceo ti seguiva ovunque come un cagnolino innamorato del suo padroncino. Ma ora… — Mi punta il dito con un sorriso. — Non conosco tua cugina. Non so com'è fatta, ma… Insomma, anche se non la sopporto, Ilaria è quella giusta. Voi due siete fatti l’uno per l’altra.
Le doppie porte dell'ascensore fanno per chiudersi, ma ci pianto una mano. Si riaprono.
Paula si gira e alza la mano in un saluto mentre si dirige verso l’ingresso del grattacielo. — Au revoir.
Esco dall’ascensore e la raggiungo. — Da chi l’hai saputo?
Sorride, la sguardo in avanti. Non risponde.
La fermo per un braccio, la gente che cammina e parla tutto attorno. — Come lo sai? Chi te l’ha detto?
Posa la mano sulla mia, un sorriso di volpe sulle labbra. — Te l’ho detto, sono una ficcanaso. So sempre tutto.
— No, non fino a questo punto. Parla! Chi te l’ha detto? Ilaria!?
Alcune persone rallentano per guardarci. Altri, che sono ferme a parlare, ci fissano.
Paula lo nota, toglie la mano dalla mia. — Non credo sia il luogo adatto per parlarne. — Ritorna a camminare.
La seguo fuori dall’edificio fino alla sua macchina parcheggiata dietro una recinzione di ferro, le nuvole che solcano il cielo. — Allora?
Lei si volta verso di me. — Perché sei così preoccupato? Hai paura che lo dica a qualcuno?
Pianto le mani sui fianchi ansioso. — Beh, tu… No, non è questo.
— Lascia perdere Sarah e mettiti con Ilaria. Hai tutto da guadagnare con quella matta. Soldi, influenza, potere. Se fossi in te, non me la lascerei scappare.
Mi passo una mano sulla faccia. — Senti, non vedo Ilaria come un oggetto. Non l’ho mai vista così e mai la vedrò. E non voglio nemmeno parlarne. Ora dimmi come hai saputo di mia cugina?
Batte un dito sulla testa quasi a scherno. — Non te lo ricordi più? Ti do un indizio, dove va il tipo cupo e sempre imbronciato a mangiare il suo tramezzino scadente?
Serro gli occhi irritato. — Mi prendi per il culo?
Sbuffa seccata. — Quanto sei noioso. Una palla, proprio.
Un uomo in giacca e cravatta passa lungo il marciapiede con una valigetta in mano. Un ragazzo sfreccia su una bici elettrica e sparisce dietro un vicolo, lasciandosi dietro un forte odore di erba.
— Qualcuno te ne ha parlato — dico serio. — Ne sono sicuro, quindi parla.
— Certo che sei parecchio paranoico.
— Ti conosco. So come sei fatta.
Incrocia le braccia, il viso irritato. — Te l’ho detto. Vi ho sentiti sulla terrazza, perciò non agitarti. Nessuno sa di te e della tua cuginetta. E Ilaria non la va di certo a raccontare in giro. Non ti fidi abbastanza di lei? Eppure la conosci da così tanto tempo.
La guardo serio. — Tu, però, potresti farlo.
Paula scuote la testa con un sorriso. — Perché dovrei?
Ci punto il dito. — Perché tu… tu…
Si gira ed entra in macchina. Mi guarda attraverso il finestrino aperto. — Se avessi voluto, lo avrei già fatto. Ma non m’interessa. Voglio dire, se provassi qualcosa per te e tu non mi filassi di striscio, allora…
— Ho capito.
Fa un sorrisetto infantile, quasi mellifluo. — Ma non è questo il caso, perciò…
Una macchina passa alle mie spalle e si allontana. Il ragazzo sulla bici elettrica sbuca dal vicolo e torna indietro. Altra scia di erba.
— Perché non sali in macchina? — mi chiede Paula.
— Se è quello che penso, non sono dell’umore.
— Ma non hai detto di no. Sali. Andiamo a mangiare qualcosa.
— Ho già degli impegni.
Sbuffa seccata. — La tiri sempre per le lunghe. Sali e non fare storie.
— Senti…
— Vuoi salire, accidenti a te! — dice con tono che non ammette un no.
Faccio il giro, salgo a bordo e metto la cintura. — Ho la macchina qui.
— Allora? Ti riaccompagno.
— Non ho nemmeno fame.
Un altro sbuffo. Accende il motore. — Sei come un bambino.
— Non che tu sia tanto diversa da me.
— Perlomeno non fingo di fare la “preziosa”.
Faccio una smorfia divertito. — Spiritosa.
Paula si immette sulla strada. Poche auto, il sole morente che si specchia sui vetri del grattacielo. — È seria?
— Cosa?
— Tra te e la tua cuginetta del cuore.
Le lancio uno sguardo turbato. — Perché ti interessa?
— Sempre sulla difensiva, eh?
Non rispondo.
Si ferma al semaforo. — Anch’io avevo un cugino che mi piaceva. A chi non è capitato, giusto?
— Non è che succeda proprio a tutti.
Mi ignora, le mani che tamburellano sul manubrio. — Era più grande di me. Aveva sedici anni, io quattordici. O forse tredici, non ricordo. Abitavamo nello stesso condominio. Un pomeriggio, mentre giocavamo sulle scale che portano sulla terrazza, mi ha toccato i seni. Me le ha palpate mentre rideva. Ricordo ancora la sua risata e le sue mani. Anche il suo odore. Olio di motore. Guidava uno scooter, ricordo. Aveva sempre le mani nere sporche di olio.
Scatta il verde.
Paula riprende a guidare. — Mi ha colto alla sprovvista. Non sapevo cosa fare. Mi sono lasciata palpare le tette. Forse mi ha anche baciata, oppure no. Non ricordo… — Svolta a sinistra e fa passare un gruppetto di ragazzi. Uno di loro sopra il monopattino elettrico. — Era proprio arrapato. Mi ha toccata anche davanti. Ho sentito un dito premere sulla mia patatina… Anche se avevo i pantaloncini e le mutandine, è stata una sensazione strana. Non ero eccitata, ma… diciamo che non era male. Ma non mi è piaciuta. Poi mia zia ci ha quasi sorpreso salendo le scale e… — Si zittisce mentre svolta a destra. Rallenta un po’. C'è un po' di traffico.
— Poi? — domando.
Lei mi lancia uno sguardo con un sorrisetto malizioso. — Sei curioso? Sei proprio un pervertito.
— Non sono un pervertito.
— Ma sei curioso.
— Tanto vale finire ciò che hai iniziato.
— È quello che dovrai fare anche tu dopo da me.
Non rispondo.
— Comunque, — dice Paula, le dita che tamburellano di nuovo sul manubrio — mio cugino ci ha riprovato due o tre giorni dopo, non ricordo. Ero sulla terrazza a lavare Jispy, il mio cane. Ora non c'è più… — Il volto si rattrista per un attimo. — Mi ha toccata il sedere e le tette. Ha cercato di mettermi una mano dentro la maglietta. Ma gli ho tirato uno schiaffo in faccia. Poi un altro e un altro ancora. Lui poi… — Si ammutolisce.
— Lui? Che ha fatto?
— Lo ha tirato fuori e ha cercato di abbassarmi i pantaloni della tuta. Voleva… Insomma, hai capito. Ricordo che Jispy stava abbaiando parecchio…
Distolgo lo sguardo verso il finestrino. — Mi dispiace…
— Per cosa?
— Per quello che ti è successo.
Mi dà una piccola spinta con la mano con fare giocoso. — Non mi è successo nulla. L’ho massacrato di botte. E gliene ho date anche nei giorni a seguire, anche se aveva imparato la lezione. Lo sai che ho praticato un po' di pugilato con mio fratello fin da bambina, vero?
— No, non lo sapevo.
— Beh, ora lo sai. Quindi attentato a te.
Sposto lo sguardo su di lei divertito. — Mi stai minacciando?
Smorza un sorriso. — Forse.
— Mi so difendere.
— Potresti non vedere arrivare il mio montante sinistro.
— Vedo molte cose. Vedrò arrivare anche quello.
— Ho i miei dubbi — dice con una risatina velata. — Comunque, parlami della tua cuginetta del cuore. Com’è?
La guardo. — Come una persona qualunque.
Si ferma al semaforo rosso, punta il dito verso un McDonald's. — Mangiamo lì?
— Ok.
— Allora? Parlami di lei.
— Ti vedi con qualcuno?
Mi lancia un’occhiataccia. — Non cambiare discorso. Parla.
— Non c'è nulla di cui parlare. È mia cugina. Tutto qui.
— Non è tutto qui. Il fatto che tu non me ne voglia parlare, mi fa capire che ci tieni parecchio. E questo mi incuriosisce ancora di più.
— Non…
— Ti ho parlato di mio cugino. Ora tocca a te.
Sbuffo seccato, i passanti che camminano indaffarati sul marciapiede. Una donna esce da un negozio di abbigliamento con tre buste nelle mani. Un’altra parla al cellulare fuori da una SPA.
Scatta il verde.
Paula guida fino al McDonald's e parcheggia in uno spiazzo accanto. È pieno di veicoli. Spegne il motore, mi guarda. — Sei proprio cotto, eh!?
— No, ti sbagli.
— Stai andando in Grecia per lei. Se non è amore questo, allora cos’è?
Non rispondo.
— Dai, andiamo — dice.
Scendiamo dall’auto ed entriamo nel mac. Ordiniamo, paghiamo e ci sediamo. C'è un po' di gente. Famiglie, coppie e qualche solitario. L'aria odora di fritto, di carne, di allegria. Gli strilli dei bambini tutt'attorno. Un brusio continua accompagnato dalla friggitrice oltre il bancone.
— Quindi… — dice Paula, il mento appoggiato sulla mano, gli occhi curiosi — stai messo così male che ti sei preso un permesso. La tua cuginetta ti ha proprio in pugno. O meglio, per le palle.
— Non è così.
Sospira al ricordo. — Sai, mi sono innamorata sola una volta. Era… Anzi, è l’amico di mio fratello Giacomo. Mi piaceva. Era un bel tipo. Taciturno, introverso, strano. Parlava poco. Ma quando lo faceva, si capiva che non era come gli altri. Era troppo maturo. — Si batte un dito sulle labbra. — E poi aveva quello sguardo vuoto, sofferente. A prima vista, poteva sembrare fatto. Tipo che si era fatto una canna. Ma più lo guardavo, più capivo che era tutta sofferenza. Aveva capito il mondo, la gente. Insomma, non c’entrava niente con mio fratello.
Mi limito a guardarla. Oggi è assai loquace. Meglio così, eviterò di parlare di Sarah. Anche perché non saprei da dove iniziare.
Paula poggia il mento sull’altra mano, lo sguardo verso il soffitto su cui corrono piccoli tubi d'areazione. — Mi ha incuriosita. All’inizio mi stava antipatico proprio perché non parlava. Pensavo se la tirasse, invece era solo disinteressato e annoiato. Così ho cominciato a parlargli quando veniva a casa. Cose superflue. Videogiochi, film, serie TV. Insomma, cose di cui parlava con Giacomo. Lui rispondeva in fretta. Era diretto, di poche parole. — Abbozza un sorriso nostalgico che cancella in un attimo. — A volte lo incrociavo in giro. Sempre da solo con le cuffiette nelle orecchie e lo sguardo assente. Era proprio strano…
— Non che tu sia normale — rispondo.
Sorride. Un sorriso tenero pregno di nostalgia. Non è per me, ma per lui. — Camminava sempre come… Non so spiegartelo… Testa alta, petto in fuori… Insomma, come qualcuno che non aveva paura di niente. Si muoveva lento, ma sicuro. Non so… C'era qualcosa in quella camminata che incuteva un certo timore.
Sorrido in una smorfia divertita. — Mi stai raccontando la sua biografia?
Sorride come un adolescente innamorata. — No, certo che no. È solo che… Insomma, era speciale.
Un’impiegata del McDonald's ci fa segno di venire a prendere il nostro ordine.
— Vado io — dico.
Paula è persa nei suoi ricordi. Non mi sente.
Prendo il vassoio dal bancone, torno al tavolo e mi siedo.
Lei afferra il panino con l’hamburger e ci dà un morso, lo sguardo ancora trasognato.
Non l’ho mai vista così. Questa parte di lei mi è nuova. — Eri affamata, eh?!
Annuisce distratta. — Si chiama Ettore.
— Il tipo che ti piaceva? O meglio, che ti piace ancora.
Pianta gli occhi nei miei. — Non mi piace più.
Do un morsa al panino, mastico. — Beh, a me sembra di sì.
— Non parlare con la bocca piena.
Ingoio. — Non hai mai fatto nulla con Ettore?
Distoglie lo sguardo e dà un altro morso al panino. Mastica con foga. Non risponde.
Mi piace il suo imbarazzo. Mi diverte.— Era un amore a senso unico?
— No — dice quasi in un sussurro. È una ferita ancora fresca, lo sento. — Ci amavamo. Noi… — Si zittisce, il panino vicino labbra. Il viso incupito. L’intero locale sembra essersi spento di colpo attorno a lei.
La cosa non mi diverte più. — Ehi, parliamo d'altro. Ho saputo che stai seguendo un nuovo fondo d'investimento. Come ti…
— Ettore… — risponde in un bisbiglio carico di ricordi. — Lui… All’inizio è stato difficile. Avvicinarlo, intendo. Era diffidente. Si capiva che aveva sofferto. E le sue risposte erano sempre in monosillabi, perciò… era difficile parlarci. Non sapevo che discorsi tirare fuori e allo stesso tempo mi sentivo una stupida. Pensavo che lo stessi infastidendo, che stessi trovando delle scuse per parlarci.
Un bambino passa correndo accanto al nostro tavolo. Sua madre gli grida di tornare a sedersi o gli toglierà il tablet.
Paula posa metà panino sul tavolo con le dita serrate attorno, gli occhi persi nel nulla. — Lo vedevo da lontano e lo salutavo. Lui sembrava non vedermi. Anzi, non mi vedeva. Non guardava nessuno. Tirava dritto come se non ci fosse nessuno intorno. Poi ho cominciato a uscire con mio fratello. — Si porta una mano sulla faccia e scuote la testa per la vergogna. — Io e una mia amica. Mio fratello mi diceva sempre di voler conoscere qualcuna, così… — Punta lo sguardo verso l’ampia vetrata del locale. — Lei e mio fratello si sono messi insieme. Si sono sposati e hanno avuto quattro figli. Prima, però, hanno cominciato a uscire da soli. Voglio dire, uscivano con noi per un ora e poi se ne andavano per conto loro. Così io e Ettore rimanevamo da soli. — Abbozza un sorriso agrodolce. — Ricordo ancora i silenzi interminabili. Non parlava mai. Non perché non avesse niente da dire, ma perché gli piaceva stare in silenzio in mia compagnia. Me lo aveva detto lui, una volta. Così ho iniziato ad apprezzare quei silenzi. — Fa un altro sorriso da ragazzina innamorata. — Sai come sono fatta? Parlo sempre e spesso divento logorroica. Con lui non accadeva. Mi sentivo a mio agio anche se non ci parlavamo. Mi bastava guardarlo e… — Si zittisce, molla il panino sul tavolo.
Non so cosa dire. Ho l'impressione che stia per crollare. Non mi aspettavo che Paula avesse un lato così fragile. E che si aprisse con me in questo modo.
— I suoi occhi… — dice, la voce quasi smorzata. — Mi parlava con quelli. Mi bastava guardarli e lo capivo. Ci parlavamo così. Era una sensazione strana… impossibile da spiegare. Non mi era mai successo prima… Io…
Lo stesso bambino di prima passa sfrecciando accanto al nostro tavolo. Sua madre lo acciuffa da dietro e lo trascina al suo tavolo mentre gli tira uno schiaffo dietro la testa.
Mando giù l'ultimo pezzo del panino. — Ehi, non devi parlare per forza di…
Mi ignora come se fosse altrove. — Poi un giorno l’ho baciato. Eravamo seduti sui gradini di casa dei miei. Mi stava parlando di una serie TV. Forse Black Mirror, non ricordo. So soltanto che era parecchio preso. E la cosa mi stava eccitando. Era raro che si mettesse a parlare con quel fervore. Allora… — sorride, ma lo fa sparire dietro una mano — l’ho baciato. Il mio volto ha preso fuoco, il cuore mi stava scoppiando. E in quel momento mi sono resa conto che volevo averlo. Volevo di più… — Sospira affranta, gli occhi ancora fissi sulla vetrata. Si porta una mano sul cuore. — L’ho portato in camera mia e… l’abbiamo fatto. Tutti i giorni. Se non potevo in casa, andavamo in un altro posto. Anche sotto un albero in campagna, perché da lui non potevamo. Condivideva la stessa stanza con sua sorella. L'abbiamo fatto così tante volte che non potevamo farne a meno. Era diventata una droga. E lo sapevamo entrambi.
Non so cosa dire. Ho perso del tutto le parole.
Paula riprende il panino e ci dà un morso, lo sguardo basso. Mastica, ingoia e dà un altro morso. Sembra che abbia smesso di parlare. Forse sta tenendo per sé la parte più dolorosa. Quella in cui si sono lasciati.
Restiamo in silenzio per un po'.
— Ci siamo dimenticati la coca-cola — dico per rompere il ghiaccio.
Annuisce, senza rispondere.
— Vado io.
Volta lo sguardo verso l’ampia vetrata. Fuori, i lampioni illuminano il marciapiede gremito di persone.
Mi alzo, ordino due bevande e torno a sedermi. Ne passo una a Paula.
Lei ha finito di mangiare, la carta del panino appallottolata in un mano come se la volesse disintegrare. Appoggia le labbra sulla cannuccia e succhia. La coca risale lungo il tubetto.
Sono a disagio. Di solito mi tartassa le palle e mi prende i giro. — Stasera verrai al bar? — chiedo di getto, mente e bocca disconnessi del tutto. Non so nemmeno io perché le ho posto questa domanda.
Mi guarda stranita. — Perché?
— Beh, così… Non c'è una ragione.
Sposta lo sguardo sul bicchiere di carta mentre le sue dita tormentano la cannuccia. — Non credo verrò.
— Capisco.
Altro silenzio.
Il bambino ripassa correndo accanto a noi, urta contro il fianco di una ragazza e cade a terra. Scoppia piangere. La ragazza si piega per aiutarlo. La madre lo tira su per la maglietta, gli tira un ceffone dietro la testa e lo trascina di nuovo al tavolo mentre gli dice che non gli farà usare il tablet per una settimana. Lui strilla, si dimena sulla sedia. Altro ceffone.
Silenzio.
Bevo una lunga sorsata di coca. — Mia cugina… Lei è diversa dalle altre.
Paula mi osserva, la cannuccia tra le labbra, il liquido nero che risale dal tubetto. Non parla.
Abbozzo un sorriso lieve. Non so perché ne sto parlando. Forse voglio solo che sappia che capisco. — Da bambini giocavamo spesso insieme. Poi ci siamo perduti e ritrovati alle medie. Ma non ci parlavamo. A dire la verità, non ricordo di essere stato nella stessa classe. — Bevo un altro sorso. — Negli anni la incrociavo per strada, ma non ci salutavamo. Eravamo come due estranei. Poi c'è stata la trattoria. Un cliente mi ha portato a cenare lì per discutere di un investimento e… — Smorzo un sorriso da idiota. — Ecco, diciamo che sono rimasto sorpreso che lavorasse lì. Sapevo che lavorava in un bar al centro, ma… Comunque, dopo quella cena, ho portato tutti i miei clienti a cenare lì. Uno di questi era intenzionato a rilevare sia la trattoria, che l'azienda vinicola. Poi una sera… Ecco… — Mi ammutolisco al ricordo.
Paula stacca le labbra dalla cannuccia. — Cosa è successo?
Non rispondo subito. — Una sera l’ho trovata sul retro della trattoria che piangeva. Così… Insomma, mi sono seduto accanto e le ho parlato. Piangeva per il suo ex. Un coglione con cui mi sono preso a botte.
— Ah, beh… Gelosia?
— Qualcosa del genere.
Beve un sorso di coca cola. Non parla. Vuole che continui.
— Alla fine… Ecco, ci siamo messi a parlare e… una cosa tira l’altra…
— Sei già arrivato in porto? — domanda con una punta di malizia negli occhi. La Paula che conosco sta tornando.
Non rispondo.
Sorride in una smorfia incredula. — Pensavo che… Voglio dire, credevo fosse un amore a senso unico o qualcosa di molto strano. Insomma, qualcosa di platonico, mi segui? Invece… ti sei fatto tua cugina?
Mi limito a fissarla mentre bevo.
Lei scuote la testa con un altro sorriso incredulo. — Questa non me l’aspettavo… E te lo dice una che pensa miliardi di scenari in una frazione di secondo.
— Credevo fosse implicito.
— Implicito? Non capita tutti i giorni di sentire qualcuno che si è fatto sua cugina.
Distolgo lo sguardo nel locale affollato. — Tu ci sei andata vicina.
— Ero piccola e non capivo. Voglio dire, se al posto di mio cugino ci fosse stato qualcuno altro, tipo il ragazzo che mi piaceva alle medie, allora… — Rabbrividisce. — Ma mio cugino? — Apre la bocca fingendo di vomitare. — No, mi fa troppo schifo. Non perché sia brutto. Anzi, è un bell'uomo ora. Ma perché è mio cugino.
— Per me è diverso — rispondo serio. — Mia cugina…
— Lo so, ho capito. So come ti senti.
La madre e il bambino si alzano e vanno via. Al loro posto si siede una coppia di adolescenti. Un ragazzo si siede con loro, guarda la ragazza. C'è qualcosa di strano nei loro brevi sguardi. Il fidanzato non sembra accorgersene. Beve e parla mentre la ragazza sorride.
— Quindi la ami? — chiede Paula. È una domanda fatta, senza senso. Sa già che è così.
– Sì — rispondo, lo sguardo ancora sui tre ragazzi.
— Però andare addirittura in Grecia… Non lo so.
— Non ci saresti andata al mio posto? Se ci fosse stato Ettore, intendo?
I suoi occhi perdono colore, il viso una tela bianca. Abbassa lo sguardo sul bicchiere di carta, la cannuccia tra le labbra. Non risponde.
Cazzo, perché dico le cose prima di pensare? — Comunque, ho già chiesto il permesso e…
— Ci sarei andata — dice con un filo di voce. — A quel tempo… lo avrei seguito ovunque come una pazza. Ma ora… — Solleva gli occhi su di me, si sforza di essere seria, dura. — Ehi, stavamo parlando della tua cuginetta del cuore. Non cercare di fregarmi di nuovo. Attento a te.
Ha mutato atteggiamento, ma non funziona. I suoi occhi sono abissi. Mi ci posso perdere in quella oscurità. — Ok, ok, colpa mia.
Mi fissa in silenzio per un attimo. — Ilaria ha ragione. Sei un manipolatore.
— Cosa? Che?
— Mi hai fatta parlare… Mi… — Sbuffa seccata. — Non farlo mai più! — Alza una mano a pugno pronta a colpirmi. — O giuro che…
È pazza. Completamente pazza. Se togliamo Marta e forse anche mia cugina, conosco solo donne fuori di testa. — Non ho fatto niente.
Mi guarda di traverso. — Ora devi mantenere la promessa.
— Quale promessa?
— Finire ciò che hai iniziato.
— Cioè? Cosa? — chiedo con finta ingenuità. So bene di cosa parla.
Alza un angolo della bocca in un sorriso malizioso, furbetto. — Non fare il finto tonto. Ora andiamo.
— Non ho ancora finito di bere.
Si alza dalla sedia, mi fa cenno di andare con la testa e si dirige verso l'uscita. Bevo un lungo sorso in tutta fretta, mi alzo e la seguo mentre passo alle spalle della coppia di adolescenti. Il fidanzato di lei non c’è. Forse è in bagno. La sua sedia vuota fa da muro a due mani che si sfiorano, su cercano. La sua ragazza e l’altro ragazzo. Non farebbe prima a mollare il fidanzato per mettersi con questo qua? Ma non spetta a me giudicare.



Entro in macchina con Paula. Lei è alla guida. Accende il motore, parte. Il cielo si è oscurato un po', nuvoloni nero si ammassano sopra la città.
Forse pioverà.
— Riguardo a prima… — dice, lo sguardo sulla strada — non farne parola con nessuno.
— Sono discreto, lo sai.
— Lo so, ma…
— Ma?
Mi lancia un’occhiata. — Potresti fartelo scappare.
— Impossibile. Non accadrà mai.
Svolta a destra e si ferma dietro una fila di auto. Colpi di clacson, qualche grido. Una sirena blu che ruota sulle facciate dei palazzi.
Abbasso il finestrino e metto la testa fuori. — Più avanti c’è stato un incidente.
— È grave?
— Non lo so. Non si vede molto da qui.
Abbassa il finestrino e mette la testa fuori. — Ci sono i carabinieri e un’ambulanza. Sembra grave.
Abbasso il finestrino. — È meglio se torni indietro e giri dall’altra parte. Sembra che ne avranno per le lunghe.
Paula ingrana la retromarcia. Torna lentamente indietro e svolta a sinistra. Qui la strada è deserta. Non c'è nemmeno un’auto parcheggiata. Nessun passante. Tutte le finestre sono buie come buchi neri.
— Ilaria non ha fatto storie? — chiede Paula, le mani sul manubrio.
— Riguardo a cosa?
— Sulla tua cuginetta. Su Sarah.
— No.
— Strano…
— Perché? — domando perplesso. La conosce così bene da sapere che avrebbe dato di matto? So che sono amiche, ma non così tanto da conoscersi a fondo.
— Beh, Ilaria… Come dire, è pazza. E su questo immagino tu sia d’accordo con me.
Non rispondo, gli occhi che corrono fuori dal finestrino aperto mentre il vento mi sfiora il viso.
— Prendo il tuo silenzio come assenso — continua, la voce piatta. — Lei ti è sempre andata dietro. Suppongo che vedersi soffiare da sotto il naso l’uomo che ti piace da un'altra non sia il massimo. E poi, onestamente, cos’ha di così speciale questa cuginetta del cuore? — Mi getta uno sguardo incuriosita. — Voglio dire, Ilaria ha tutto. È perfetta per te. Anche tu non sei normale. Sei uno stronzo. Formate una bella coppia.
Mi massaggiò la faccia irritato. — Ne abbiamo già parlato prima.
— Lo so, però… Non lo so. Vi conoscete dal liceo. Siete sempre stati insieme per tutto questo tempo. E ora lavori pure per lei. Anche se non userei il “per” ma “con” lei.
— Che vuoi dire?
Si ferma al semaforo, i fanali di un furgone alle spalle illuminano il nostro abitacolo. Mi guarda. — Ti tratta quasi come un suo pari grado. Anzi, quasi come un socio.
— Ti sbagli. E anche tanto. Non fa favoritismi.
— Mmmh… Non parlo di favoritismi. E più come… — Arriccia le labbra pensierosa, gli occhi all'insù. — Ti ha dato Caterina Savona, senza pensarci due volte. Un pezzo da novanta come diceva il mio vecchio. E non parliamo del permesso. Sei appena arrivato nella compagnia, eppure…
— Sei totalmente fuoristrada.
Abbozza un sorrisetto. — Forse. Oppure, sotto sotto, Ilaria chiude un occhio quando si tratta di te.
La fisso seria negli occhi. — Non è stata Ilaria a darmi Caterina Savona. È stata lei a chiedere espressamente che fossi io a seguirla nei suoi investimenti. Solo io. Nessun altro.
Paula scaccia l’aria con una mano come fosse una cosa da poco. — Conosco questa storia. Tutto l’ufficio lo sa. Quel giorno, quando è venuta nel tuo ufficio, abbiamo parlato parecchio tra colleghi. Ci siamo chiesti perché fosse lì? Noi siamo solo una compagnia finanziaria di medio livello. In città ci sono dei colossi di livello mondiale. Quindi perché era venuta da noi? Poi abbiamo saputo tutto. Sai, le voci corrono.
Non rispondo subito. — Immagino che tu sappia anche il motivo per cui ha scelto me.
Scatta il verde.
Diversi colpi di clacson. L’uomo nel furgone sbraita verso di noi dicendoci di partire.
Paula parte, una mano sul cambio. — Per sua figlia o… per tenerti d'occhio. O meglio, per le palle. Com’è che si chiamava la ragazzina…?
— Quindi sai tutto.
Mi sorride in modo infantile. — Sono una ficcanaso.
Sorrido divertito. — Credo tu abbia sbagliato mestiere.
Mi lancia un'occhiata seria. — Che hai da sorridere?
— Lavori nella finanza, ma… Questo tuo talento, il ficcare il naso ovunque, potevi usarlo per qualcos'altro. Tipo, il detective privato. — Smorzo una risata mentre il suo viso si oscura. — Già ti ci vedo tu che pedini qualcuno per scoprire se il tizio o la tizia tradisce la moglie o il marito. Avresti fatto soldi a palate. Ah, già. Sei già bella piena.
Mi getta un'occhiataccia. — Ogni tanto sai essere spiritoso. Pensavo che, oltre a essere palloso, eri solo bravo a letto.
— Non mi conosci abbastanza.
— Ti conosco dal liceo. Sei di una noia mortale. Palloso, cretino e… sai scopare bene. Ah, sei anche un manipolatore.
— Come va di moda dire adesso, ho anche dei difetti.
— Sei cringe, “come va di moda dire adesso.”
— Sempre puntigliosa, eh?
— E tu sempre idiota.
Restiamo in silenzio per un po’.
Paula svolta a sinistra. — Che ci trova Ilaria di così in bello in te? Me lo sono sempre chiesta.
— Domandaglielo.
— Nah, penserebbe che voglia provarci con te.
— Ci hai già provato con me. E lei lo sa.
Un’altra occhiata. — Non ci ho mai provato con te. E mai lo farò.
— Però sei venuta a letto con me.
— Solo perché scopi bene. Non sei egoista… sessualmente. Sai come toccare una donna e mi fai godere. Ma tolto questo, non mi piaci.
Anche tu mi fai godere. Sei l’unica che mi fa venire un secondo dopo averlo messo dentro. L'interno della tua vagina è come una fornace. — Neanche tu, se è per questo.
— Al liceo, però…
— Ti trovavo carina, ma mi sono avvicinato a te per altro. E sai il perché.
— Già, lo stronzo che mi tormentava… Anche tu eri pesante. Eri sempre lì a fare il prode cavaliere. Infatti… Come dire, questa ”sindrome del cavaliere” ti è rimasta. Eri asfissiante. Intendo, le tue preoccupazioni per me. Erano esagerate.
— Lo prendo come un ringraziamento.
Paula gira una rotonda e si immette in una strada a quattro corsie. — Prendila come vuoi.
— Posso farti una domanda un po'... delicata? — chiedo, senza guardarla.
— Fammi indovinare. Ettore?
Le lancio uno sguardo. Non rispondo. È troppo perspicace.
Lei abbozza un sorrisetto soddisfatto, ma un po' triste. — Era palese che ti riferissi a quello. Cosa vuoi sapere?
— Niente. Lascia stare.
— Ormai hai chiesto, perciò parla.
Non rispondo.
— Allora? Che volevi sapere? Quando ci siamo lasciati? Il perché?
La fisso stupito. Riesce sempre a leggermi come un libro aperto. Ha un acume fuori dal comune. — Sì…
Stringe le dita attorno al manubrio, le nocche bianche. Allenta la presa. — È stato lui a lasciarmi. Diceva che… — Serra di nuovo le dita sul manubrio e rilascia la presa. — A volte essere così ricchi è un problema per una donna. Gli uomini si sentono minacciati, impotenti. Se poi l’uomo non ha praticamente niente, beh…
— Ti ha lasciato per questo?
Mi getta un’occhiata fugace. — Sì, solo per questo.
— E a te non…
— Non mi stava bene, ovvio.
Ecco che mi legge di nuovo dentro. — Tu che hai fatto?
— Quello che farebbero tutti. Ho cercato di fargli capire che non era un problema per me, che non m'interessava. Ma lui è un tipo testardo. Quando si mette in testa una cosa, difficilmente cambia idea.
— Quindi vi siete lasciati?
Lei annuisce. — Già, ci siamo lasciati.
Cala il silenzio per un po'.
Paula svolta a sinistra e prosegue lungo una strada a senso unico. Un gruppetto di ragazzini è seduto sugli scalini di un condominio. Una ragazza porta a spasso un pastore tedesco. Un uomo con una camicia bianca scende da una Ford bianca.
— Non hai cercato di ritornarci insieme? — domando, lo sguardo che vaga fuori dal finestrino.
— Un mucchio di volte. Ma ormai sono passati anni. Più di dieci anni. Sicuramente è andato avanti con la sua vita come io sono andata avanti con la mia
— Quindi è successo anni fa.
— Avevo diciannove anni. Lui anche.
— Non l’hai più visto?
— No — risponde, lo sguardo incupito. — È come un fantasma. Sui social non pubblica da anni. E in giro non lo vedo mai. Non so che fine abbia fatto. A volte ho pensato che… — Si ammutolisce per un momento con un groppo in gola — che sia morto. Ma questo pensiero non ha senso, no? — Si sforza di sorridere, ma nei suoi occhi alberga la tristezza. — Se fossi così, mio fratello me lo avrebbe detto. D'altronde, sono ancora amici da quel che so, sebbene lui non ne parli mai. Forse perché sa che… Insomma, non mi piace.
Resto in silenzio. Non so cosa dire.
— In realtà, so perché mi ha lasciata. Voglio dire, il vero motivo.
La guardo. Non parlo.
Abbozza un sorriso spento, gli occhi lucidi. — Voleva che trovassi uno migliore di lui. Un uomo che mi avrebbe dato tutto ciò che lui non poteva darmi. Ripensandoci, non ha senso. Ho già tutto. E non mi serve di certo un uomo per ottenere ciò che voglio, no?
— Sì, hai ragione.
Serra gli occhi irati. — È un vigliacco. Mi ha mollato perché “meritavo di meglio". — Fa una smorfia nervosa e si tira un pugno a martello sulla coscia. — Incredibile! Più ci penso, più mi incazzo!
— Ehi, tranquilla.
— Ettore… Quello stronzo… Si può essere più stronzi di così?!
La sua tristezza è volata via come un rumoroso Boeing 747 in una notte d’estate. Mi acciglio. — Forse… forse…
Si volta per un attimo verso di me, il viso un vulcano pronto a esplodere. — Cosa?! Cosa forse?! Parla! Non farmi incazzare pure tu!
— Niente. Non volevo dire niente.
Mi molla un ceffone sul braccio. — Ti ho detto di parlare!
— Oh, che ti è preso tutt’a un tratto?
— Che quello stronzo mi ha fatto incazzare e tu mi stai facendo prudere le mani. Quindi parla!
— Ok, ho capito. Quello che volevi dire… Insomma, forse lui ti ha lasciata perché, oltre ad amarti ancora, non voleva che vivessi una vita infelice con lui. Sai, il fatto che non avesse niente e tutto il resto.
Mi guarda per un momento. — Infelice!? Quale vita infelice? Con lui ero felicissima. Non mi ha mai reso infelice. Mai. Nemmeno una volta. Tu non capisci proprio niente!
Mi porto una mano sulla faccia per la frustrazione e scuoto la testa. — Ok, non capisco niente.
Mi lancia un’occhiata risentita.
Silenzio.



Cinque minuti dopo parcheggia sotto il suo appartamento, un palazzo di lusso di venti piani. In giro non c'è un'anima. Solo macchine costose lungo i marciapiedi. Le finestre dei palazzi sono buie. Dormono già tutti?
— Mi hai fatto passare la voglia — dice Paula irritata.
— Io non l’ho mai avuta.
— Non capisci proprio niente!
Non rispondo.
— Quello stronzo mi ha mollato perché… — Sbuffa dal nervoso. — Perché è uno stronzo. Tu dimmi, chi uomo mollerebbe una come me? Sono uno schianto e sono piena di soldi. — Sorride in modo civettuolo. — Non per vantarmi, ma una come me non la trovi facilmente. Anzi, non la trovi proprio.
Vorrei farle il nome di Ilaria, sebbene sia meno ricca e forse meno bella, ma resto zitto. Non ho voglia di litigare né di farmi menare.
— Perciò è lui che ci ha perso, non io — dice, la voce un po' rotta. Non lo pensa davvero. Per niente. Trattiene le lacrime, gli occhi rossi. Sta per crollare. — Posso trovarne miliardi di uomini come lui, non è così!?
Mi sta chiedendo la conferma. Non è sicura di ciò che sta dicendo. — Certo, è così.
Alza il mento con fare altezzoso. — Andiamo di sopra.
— Eh? Non avevi detto che…
Mi fulmina con lo sguardo. — Ora mi è venuta voglia. Muoviti!
Scendiamo dall'auto e saliamo al suo appartamento di lusso. C'è un forte odore di basilico e di pulito nell'aria.
— Beviamo qualcosa — dice.
La seguo in cucina. Sul tavolo, due piantine di basilico, le foglie bagnate. Ecco cos’era quell'odore.
Paula le osservo. — Mio padre… Gli avevo detto di aspettare domani… Ma perché entra nel mio appartamento senza permesso?
— Te l’ha portate lui?
— Le ha anche annaffiate. Forse perché mi dimentico di farlo e mi muoiono sempre. Non so perché continui a regalarmi le piante…
— Io sul balcone ho la menta.
Mi ignora. Prende una bottiglia di liquore senza adesivo dal frigo e due bicchieri da una vetrinetta, li posa sul tavolo e li riempie. Me ne passa uno.
Ci sediamo.
— Grazie — dico.
Sbuffa incazzata.
— Che c'è? — chiedo.
— Niente.
Bevo un sorso. — Scotch?
Annuisce. Beve un sorso anche lei. — Senti, hai detto che lui mi amava ancora e…
— Lascia stare. Non so nulla della vostra storia, quindi non…
— Stai zitto! Fammi finire. Se lui mi amava, perché mi ha lasciato? E non dire perché non voleva rendermi infelice!
E io che cazzo ne so. — Penso che il problema siano i soldi.
— Fin qui ci sono arrivata pure io, genio — risponde acida. — E te l’ho anche detto.
— Non sono un indovino.
— Sei solo palloso. Ecco cosa sei.
— Sempre a insultarmi, eh?
— Perché dici sempre cose scontate.
Faccio un altro sorso. — Non può essere che ti abbia lasciata perché sei una stronza?
I suoi occhi sono missili terra-aria. Bersaglio agganciato. Fuoco. — Cosa hai detto!?
Distolgo lo sguardo verso la finestra punteggiata dalle gocce di pioggia. — Sta piovendo.
Paula sbatte il bicchiere sul tavolo, il liquido ondeggia, straborda, macchia il tavolo bianco. Avvicina il viso al mio. — Ripeti cosa hai detto!?
— Senti, non volevo essere maleducato. Ma certe volte… certe volte… Ah, lascia stare.
Mi stringe le guance con le dita, gli occhi dritti nei miei. — Tu non sai niente!
È la terza volta che me lo ripete. — Già…
Mi stringe ancora di più le guance fino a farmi uscire le labbra all’infuori. Mi bacia, infila lingua. Sa di scotch, l’odore di basilico e della sua acqua di colonia nell’aria. Stacca le labbra dalle mie. — Facciamoci una doccia. — Mi prende per mano e mi trascina in tutta fretta nel bagno.
Ci spogliamo ed entriamo sotto la doccia. Il getto dell’acqua è tiepido. Ho il pene che pulsa durissimo. Lei lo prende in mano e mi sega mentre mi bacia per un po’. Stacca le labbra. — Laviamoci.
La guardo interdetto per un momento. Poi comincia a lavarmi il corpo con il bagnoschiuma alla lavanda. Faccio lo stesso. Lei si sofferma sul mio pene e sui miei genitali. Io sulla sua vagina, sulle sue tette e sul suo sedere. Ci strofiniamo per bene. Le mani che accarezzano e palpano attraverso la schiuma. Niente baci. Solo sguardi, occhiate.
Poi ci sciacquiamo, usciamo dalla doccia e ci asciughiamo a vicenda. È così strano. Voglio dire, tutto questo me lo immagino con Sarah. Sono coccole, carezze. Niente di sessuale. Penso che Paula non abbia bisogno di fare l’amore, ma di qualcuno. Qualcuno che la coccoli. E quel qualcuno non sono io, ma Ettore.
— Che c'è? — domanda col suo solito tono acido.
Ma sono un bastardo che ora vuole solo scoparsela. Sorrido. — Niente.
Mi strizza il pene con una mano, lo sguardo cattivo.
— Ahia! — urlo, le mani appoggiate sul suo polso.
— Non sorridere!
— Ok…
Molla la presa dal mio uccello, ma ci ripensa. Lo stringe e mi guida fuori dal bagno come se stesse portando a spasso il cane e il mio pene fosse il guinzaglio. Attraversiamo il piccolo corridoio e mi conduce in camera da letto. C'è un forte odore di ciliegia. Starnutisco.
Si volta a guardarmi male per un attimo e mi spinge sul letto. Cado di schiena sul materasso, il pene duro come marmo. Le lenzuola profumano di pulito. Sale a cavalcioni su di me e mi bacia il collo, il mento, le guance. Le strizzo il sedere con una mano e le cingo le spalle con l'altra, la spingo su di me. I suoi capezzoli premono contro il mio petto un po' villoso. La sua vagina striscia lungo l'asta del mio pene, i suoi liquidi che colano sul mio inguine.
Prende il mio uccello e lo guida dentro di sé. È caldissima, bagnata. Sento il suo calore che attornia il mio pene, lo inghiotte. Sto per venire e non si è nemmeno mossa. La sua passera è magica. Mi trattengo, ma non ci riesco. Le vengo dentro. Alzo il bacino, lo sbatto contro il suo inguine. Mi svuoto completamente e rilasso il corpo.
Lei alza il busto e mi fissa in cagnesco dall'alto verso il basso. — Mi hai deluso… davvero deluso.
Distolgo lo sguardo imbarazzato. — Io…
— Hai infranto il tuo record — dice, il tono acido. — Complimenti! Bravo.
Non rispondo. Ha ragione. Sono durato un nano secondo. E non ero nemmeno così eccitato. Voglio dire, me la volevo fare, ma non così tanto da non durare. E la sua passera, il suo calore. Hanno un effetto collaterale.
Mi molla una schiaffo sul braccio. — E ora?! Mi lasci così?
La tiro verso di me e la ingabbio tra le mie braccia. — Non ho detto che ho finito. Sono solo venuto.
Fa un sorriso malizioso e inizia muovere il bacino sul mio inguine. Ci fissiamo negli occhi per un lungo momento mentre si muove su di me, le braccia serrate attorno alle sue spalle. I suoi liquidi colano assieme al mio sperma lungo il mio pene. Poi mi bacia la fronte, le guance e accanto alla bocca. Ma non le labbra. Perché? Ci ha ripensato nel volermi baciare?
I suoi movimenti si fanno più intensi, più veloci. Il suo corpo inizia a contrarsi per il piacere, le sue cosce a chiudersi attorno ai miei fianchi. Le sue mani mi accarezzano il viso, le sue braccia mi abbracciano la testa, i suoi occhi sono altrove. Totalmente altrove.
Dov’è? Dov’è andata?
Si irrigidisce per l’orgasmo e comincia a fremere mentre il suo bacino si contrae più volte. Si abbandona su di me, la testa sul mio petto, l’odore della sua acqua di colonia dolce mi investe.
Perché ho l’impressione che non stesse facendo l’amore con me?
— Ehi… — dico quasi in un sussurrato.
Mi tappa la bocca con la mano.
Restiamo così a lungo. Immobili, sospesi nel tempo e nello spazio. Il suo sudore e il suo battito del cuore sulle mie pelle. I suoi capelli a carrè scompigliati, il suo respiro nell'aria. Tutto è fermo, di una fermezza che non ammette repliche.
Si stacca da me, mi guarda in modo strano. — Devo farlo.
— Cosa? — domando confuso.
— Ettore… — risponde con un filo di voce. — Devo andare da lui. Devo riprovarci.
Non rispondo.
— Lui… Per tutti questi anni io… — Si zittisce, lo sguardo che vaga alla sua destra. — Ho fatto passare troppo tempo. Mi sono lasciata condizionare dalle sue parole. Quello stronzo… — La voce acquisisce intensità. Mi tira uno schiaffo sul petto.
— Oh, che fai!?
— Stai zitto tu!
— Ma che ho fatto!?
Fa per colpirmi, ma si alza da sopra di me. I suoi liquidi e il mio sperma rivolano copiosamente giù dalla sua vagina e bagnano il mio inguine. — Ti sei proprio svuotato…
— Suona brutto in bocca a una donna.
Mi lancia un'occhiataccia e si avvia verso la porta. — Vado a farmi una doccia.
— Ci riproverai?
Si ferma sulla soglia, si volta verso di me. — Perché? Qualcosa in contrario?
— No.
— Bene.
— Dov’eri prima?
Fa per andare, ma si ferma di nuovo. — Prima?
— Poco fa. Dov'eri?
— Non ti seguo.
— Non stavi facendo l’amore con me, quindi…
— Non inventarti storie — risponde acida, nella voce qualcosa di non detto.
— Hai immaginato lui, vero? Ettore? Eri con lui?
I suoi occhi si restringono minacciosi. — Vuoi tornare a piedi alla tua macchina?
— No.
— Allora non dire cose senza senso.
— Ma è così.
Prende un cuscino da sopra la poltrona e me lo scaglia contro con violenza. Lo blocco con le mani. Lei si fionda su di me come un ghepardo e mi tartassa di schiaffi. Colpi deboli pieni di rabbia, di sofferenza.
Blocco i suoi polsi. — Perché te la stai prendendo con me?
Dimena le braccia, gli occhi iniettati di sangue. — Sei uno stronzo! Lasciami!
Molla la presa e balzo fuori dal letto come un coniglio che cerca di fuggire da un predatore. Punto il dito. — Ehi! Non provare a prendermi a schiaffi di nuovo! Ti avviso.
Paula resta a gattoni sul materassino, gli occhi di un felino pronto a salutarmi alla gola, i seni che penzolano. — Ringrazia il cielo che non ti prendo a pugni…
Alzo le mani in aria. — Mi arrendo, ok?
Si mette seduta sul bordo del letto e si limita a fissarmi malissimo.
Abbasso le mani. — Credo che tornerò a piedi. Ho bisogno di fare una passeggiata. Mi faccio una doccia e vado via, ok?
— La stavo per fare io.
— Ah, già… Allora aspetto.
Sventola una mano in aria. — Vai per primo.
Raccolgo i miei vestiti, vado in bagno e mi faccio una doccia. Mentre l’acqua mi scivola addosso, penso a come sia una calamita per le donne fuori di testa. Paula non è proprio matta. Anzi, è molto contenuta. Ma sembra che io abbia il potere di farla scaldare troppo. E non è nemmeno l’unica. Prendo schiaffi da qualunque donna. Ilaria, Sarah, la mia ex assistente. L’unica che non mi ha mai colpito è Marta, la finta ragazza di mio cugino. Con lei ogni cosa era strana. C'era un'intensità fuori dal comune. Qualcosa di speciale, di universale.
Chiudo l'acqua della doccia, mi asciugo, mi rivesto ed esco dal bagno. Vado nella camera da letto.
Paula non c'è. Mi dirigo in cucina e la trovo leggermente piegata in avanti verso le due piantine di basilico sul tavolo. È nuda, il suo sedere a mandolino mi fa pulsare il pene. Mi avvicino.
Lei si volta, la rabbia di prima si è dissolta nel nulla. — Aspettami. Ti accompagno.
— Non serve. Prendo il bus.
— Come vuoi.
Non tenta nemmeno di convincermi. La menefreghista Paula è tornata. — Ci vediamo in ufficio, allora.
Si limita ad annuire.
Vado verso l’ingresso.
— Hai ragione — dice.
Mi fermo e mi volto. Non rispondo. So già cosa sta per dire.
— Ho immaginato Ettore al tuo posto. Stavo facendo l’amore con lui. Ero… con lui.
Annuisco con un sorriso lieve, bonario. Non parlo.
— Quindi…
— Va bene.
— Non possiamo più vederci. Non così.
Annuisco. — Lo so.
— Ettore…
— Spero ti vada bene. Ma sono sicuro che sarà così.
Mi sorride, le braccia allungate a coprire i capezzoli e le mani la vagina. — Grazie.
È una scena surreale. Una confessione a nudo. Ma ormai sono abituato a queste bizzarrie, alla verità post-sesso. Ogni maschera dacade e restano solo i sentimenti. Quelli veri, quelli che ti tormentano, che ti fanno a pezzi. Ognuno di noi ha un demone dentro di sé che lo divora dall'interno. Lentamente, senza fretta. Perché ogni pezzo va apprezzato e gustato.
Paula mi raggiunge e mi accarezza il viso con la mano. Un tocco dolce, affettuoso, che termina con il suo pollice sulle mia labbra. Mi sorride ed esce dalla cucina, lasciando dietro di sé il suo profumo.
Poso la mano nel punto in cui mi ha accarezzato, sorrido e vado via.
Capitolo dopo capitolo. Tutto si sta chiudendo.
scritto il
2025-09-11
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