Schiavo per amore Sedicesimo episodio

di
genere
dominazione

Il trillo del campanello annunciò il probabile ingresso di Diana. Entrambi scendemmo di corsa le scale per poterla vedere, per essere pronti ai suoi ordini e, appena la vidi, capii che Alberto aveva perfettamente ragione. Il mio cuore sembrava battere alla velocità della luce appena i miei occhi misero a fuoco quella splendida figura. Era vestita sexy, come al suo solito, quasi senza ritegno, con una gonna cortissima e una maglia scollata, senza nemmeno avere il buon gusto di coprire il suo generoso decoltè con un reggiseno. Era sempre stata così, ma adesso sembrava addirittura aver aumentato la sua trasgressività nell’abbigliamento. Josè l’accolse con un < Buonasera signora>, mentre io e Alberto, non sapendo come comportarci dinanzi alla servitù, rimanemmo in silenzio. “Josè, tu e tua moglie potete andare nella dependance. Non ho più bisogno di voi,” esordì Diana incamminandosi verso il salone, prontamente seguita dai suoi schiavi: io e Alberto. Si mise seduta, accavallando come al suo solite quelle gambe lunghissime e tornite che possedeva e poi si rivolse verso il marito. “Prendimi una sigaretta.” gli ordinò.
Alberto scattò per ottemperare all’ordine mentre io non sapevo cosa fare, a parte rimirarmela. Dio, quanto mi piaceva. Lei sembrò leggere nella mia mente e, mentre il marito le accendeva umilmente la sua sigaretta, mi sorrise sfrontatamente. L’arrivo di Maria e Josè che annunciavano il loro ritiro nella dependance non cambiò minimamente quella scena di pura sottomissione nei confronti della dea. Chissà cosa avrebbero pensato quei due poveretti dei domestici. Non eravamo in ginocchio di fronte a lei, ma la nostra sottomissione nei suoi confronti aleggiava in quella stanza in modo più che evidente.
Ma, appena la porta della villa si chiuse, Diana fece ad entrambi il gesto di avvicinarci. "In ginocchio, tutti e due.” Alberto lo fece immediatamente mentre io rimasi in piedi, indeciso sul da farsi. Accettare una cosa del genere mi avrebbe fatto diventare definitivamente suo schiavo, cosa che ancora mi sforzavo di non ritenermi, malgrado la mia ammissione della sera precedente. Lei si alzò dirigendosi verso di me, dimostrandomi, semmai ce ne fosse bisogno, che Alberto aveva pienamente ragione sulle mie sensazioni. Avevo paura di lei anche se ciò che restava del mio orgoglio mi aveva impedito di obbedirle all’istante.
“Ti prego, no.” dissi mettendo le mani davanti al viso. Lei me le tolse ma non con forza, quasi con delicatezza, quindi spinse sulla mia nuca il mio viso verso il suo baciandomi di fronte al marito che osservava la scena. Le gettai le braccia al collo. Non potevo resisterle. Ero schiavo ma lo ero soprattutto del mio amore nei suoi confronti e, di conseguenza, della sua volontà. Si staccò da me e mi prese per il mento. Stavolta faceva male, con le sue unghie conficcate nella mia pelle
“Ieri sera avevi accettato la mia decisione di volerti come schiavo. Hai cambiato idea, Paolino? Se lo hai fatto, prendi le tue cose, vattene e non mi vedrai più. Di schiavi io posso farmene quanti ne voglio. Sei tu che non potrai mai avere una donna come me. Se accetti, accetti ogni mia decisione, e comincerai coll’inginocchiarti immediatamente ai miei piedi. Questa è l’ultima chance che ti do.”
Ero di fronte a una scelta che, fino a pochi giorni prima, mai avrei pensato di dover prendere. Mi sarebbe bastato voltarmi e andarmene e avrei ricominciato a fare la mia solita vita, il mio impiego con quella paga da miserabile, la mia casetta piccola ma accogliente, i miei amici. E poi con calma cercarmi una brava ragazza da amare e che mi amasse. E Diana? Il mio cuore continuava a battere alla velocità della luce. Io non potevo rinunciare a lei. Accidenti a me. Non potevo. Le era bastato un bacio per ridurmi a un essere che elemosinava qualcosa di lei, fosse anche la sua semplice presenza. Se avessi accettato, cosa sarebbe stato di me? Lasciò la sua presa sulle mie guance e poi le sue labbra ancora sulle mie con quel sapore meraviglioso che mi aveva stregato, con la sua lingua che esplorava la mia bocca, e capii quale sarebbe stata la mia condizione da quel momento in poi.
Lei mi sorrise. "In ginocchio, Paolo.” mi ordinò con tono deciso e autoritario, anche se non particolarmente duro. Lei lo sapeva prima di me quale sarebbe stata la mia decisione. Sapeva che non avrei mai potuto rinunciare a lei.
“Si, padrona.” risposi e feci il gesto definitivo della mia sottomissione inginocchiandomi ai suoi piedi. Quel che sarebbe venuto non lo sapevo di preciso, ma sapevo che era l’unica cosa che in quel momento potevo e dovevo fare.

Era ormai mezz’ora che stavamo lì, in ginocchio, guardandoci senza parlare. Diana, o meglio, la nostra padrona, era andata in camera sua e ci aveva ordinato di rimanere in quella posizione. Alberto ogni tanto guardava nella mia direzione con l’aria di chi aveva indovinato tutto, mentre io non avevo nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia. Finalmente, Diana fece il suo ingresso nel salone ed era un ingresso che avrebbe illuminato gli inferi. Indossava un vestito rosso a maniche lunghe aderentissimo, scollatissimo e cortissimo, calze scure, scarpe rosse con tacco di metallo che più che a spillo poteva essere definito acuminato, volto truccato, forse troppo, con quel bel viso che nemmeno ne aveva tutto quel gran bisogno, e il suo solito caschetto biondo che assomigliava a quello della Valentina di Crepax se non fosse stato per il colore diverso. Mancava soltanto che andasse in giro con un cartello con scritto < guardatemi e concupitemi>. Ma quanto era sensuale! La desideravo con tutto me stesso, e se ripensavo alla splendida serata che avevamo avuto, mi dicevo che l’unica cosa che volevo era di bissarla al più presto.
Sorrise guardandoci, due uomini adulti in ginocchio al cospetto della dea, aspettando una sua parola. Indicò prima suo marito e gli fece segno di rialzarsi e di avvicinarsi a lei, muovendo su e giù il suo dito indice. Alberto obbedì immediatamente ma, appena si trovò al cospetto della sua splendida moglie, lei lo colpì con un manrovescio di inaudita potenza che lo fece andare a terra pesantemente, dopodiché mise il suo tacco sulla faccia dell’uomo.
“Coglione, quando sei in mia presenza, senza quei due rompicoglioni dei miei servi, tu devi stare nudo. Nudo completamente, col tuo pisellino scoperto, in modo che io possa rendermi conto sempre del tuo desiderio nei miei confronti. Chiaro?”
L’uomo sussultò impaurito, con quel tacco a spillo sopra la sua faccia. “ M-Mi perdoni, padrona, ma lei non me l’aveva ordinato”
Diana sembrò pensarci su e poi scoppiò in una fragorosa risata. “Non me ne frega un cazzo. Dovevi capirlo al volo. Spogliati e vatti a mettere in quell’angolo” gli disse indicando la parte del salone tra la tenda e una delle poltrone.
Alberto non se lo fece ripetere due volte. Si spogliò velocemente mettendo in mostra una notevole erezione, a dimostrazione di quanto la dominazione di sua moglie lo eccitasse anche fisicamente oltre che psicologicamente, e poi si diresse gattonando verso il punto indicatogli da Diana che si avvicinò di nuovo a lui guardando con soddisfazione il suo membro dritto. “Sguardo rivolto verso l’interno della stanza, busto eretto e mani dietro la nuca.” Per essere una dominatrice da pochi giorni, sapeva farci, eccome se lo sapeva. Beh, aveva sempre dato ordini nella sua vita e aveva soltanto dovuto cambiare il modo di darli. Prima lo faceva ironicamente, conscia della sua superiorità fisica, adesso lo faceva addirittura con più naturalezza, come se prima fosse stata in qualche modo frenata, mentre ora poteva essere completamente sé stessa.
Quando vide Alberto nella posizione che lei voleva, si diresse verso di me. “Tu, alzati,” Lo feci in silenzio e lei si avvicinò a me. “Vatti a mettere qualcosa di decente che io e te usciamo a cena. Ho prenotato un tavolo in uno dei migliori ristoranti della città ma comunque fuori dai giri che frequentiamo io e Alberto. Per il momento, non ho voglia di incontrare qualcuno che conosciamo.”
“Si, Diana, vado subito.” risposi felice dando un’occhiata a quel povero cristo di Alberto che, invece, aveva le lacrime che gli scendevano dagli occhi ma manteneva comunque l’erezione. Come diavolo era possibile che le due cose così distanti fossero invece concatenate? Non ebbi però il tempo di trovare una risposta perché, appena voltatomi per andare nella mia camera per cambiarmi, fui trattenuto per un braccio da Diana che mi riportò dinanzi a lei e poi mi colpì violentemente con uno schiaffo. Era la prima volta che lo faceva. Non caddi solo perché continuava a tenermi per il braccio, ma quel manrovescio mi aveva quasi intontito. E poi mi torse il braccio. Urlai dal dolore. Non mi potevo muovere ed ero terrorizzato.
“Lui è un coglione ma tu non sei da meno. E’ vero Paolino che sei un coglione?”
“Ma che ho fatto?” piagnucolai. Strinse ancora di più la presa facendomi urlare di nuovo.
“Sei un coglione si o no?”
“Si, si, come vuoi ma lasciami, ti prego” risposi. Avrei detto qualsiasi cosa mi avesse chiesto pur di far terminare quel dolore. Avevo l’impressione che il mio braccio si stesse staccando dal resto del corpo, ma era una semplice torsione che lei, dall’alto della sua maestria, stava effettuando con una sola mano e col sorriso sulle labbra. Ma, malgrado avessi risposto ciò che lei mi aveva richiesto, mi arrivò un altro ceffone, forse più violento del primo, e stavolta scoppiai a piangere senza ritegno.
Lei invece smise di sorridere. “Si, è confermato che sei un coglione. Non ti azzardare mai più a darmi del tu come se io fossi tua sorella. Io sono la tua padrona. PA DRO NA. Ti è chiaro Paolo? Dimenticati della Diana che ti era amica. Ora sono una padrona e tu hai accettato di essere il mio schiavo. Pertanto, quando io ti do il permesso di parlare, tu ti rivolgi a me chiamandomi padrona quando siamo da soli oppure signora dinanzi ad altri, ma sempre, e ripeto SEM PRE, dandomi del lei. Non lo ripeterò più. Hai accettato Paolo. Hai accettato di diventare il mio schiavo e adesso mi appartieni come mi appartiene tutto quello che c’è in questa casa, come un qualsiasi oggetto. E’ chiaro?” Si, era chiaro, chiarissimo ma sbagliai di nuovo. “Ma ieri ti ho dato del tu e…" Non terminai la frase. Un altro schiaffo tremendo colpì il mio volto.
“Non ci siamo, Paolo. Non ci siamo proprio.” mi disse aumentando nel contempo la torsione facendomi urlare dal dolore.
“Per favore, basta. Si, ho capito, padrona. Le chiedo scusa.” dissi. Era la prima volta che mi umiliavo di fronte a una persona in quel modo. Peggio, molto peggio di quello che mi aveva fatto fino a quel momento. Faticai quindi a far uscire quelle parole ma dovevo farlo.
Lei lasciò finalmente la presa dal mio braccio martoriato e mi guardò scuotendo la testa
“Ancora non va bene. Le scuse alla propria padrona si fanno in ginocchio. Avanti, Paolo, fai quello che devi fare altrimenti stavolta il braccio te lo stacco e ci gioco a tennis. In GI NOC CHIO.” concluse sillabando l’ultima parola e scandendola a voce alta.
Mi asciugai le lacrime che mi scorrevano col dorso della mano, mi rimisi per l’ennesima volta in ginocchio, con la testa bassa e infine feci quello che mi era stato ordinato. “Mi scusi, padrona.”
Vidi il suo piede coperto dalla scarpa rossa che si insinuò sotto il mio mento per tirarmelo su e costringermi ad osservarla. “Uhm, credo che tu abbia bisogno di una vera e propria educazione. Devi diventare più obbediente, Paolino. Lo vedi Alberto? Ecco, ti voglio dimesso e devoto come lui. Comunque, per il momento diciamo che accetto le tue scuse, ma la prossima volta non sarò cosi’ magnanima. Adesso vai a vestirti. Ah, la regola di presentarsi nudo al mio cospetto vale anche per te. Ovviamente, quando Maria e Josè sono fuori dai coglioni. I miei schiavi li voglio nudi. Ora va che ho prenotato per le nove e non voglio fare tardi.”

Mi feci una doccia velocissima e nemmeno mi asciugai i capelli. Erano corti e si sarebbero sistemati da soli. Mi vestii col meglio che avevo a disposizione, con una giacca e pantalone grigi e una camicia celeste senza la cravatta. Lo specchio mi rimandava un’immagine che faticai a metabolizzare, con il labbro superiore gonfio a causa dei ceffoni di Diana. Ma che stavo facendo? Perché non me ne andavo?
Dovevo riflettere in modo lucido. Stare vicino a Diana, farci l’amore, valeva quello che stavo passando? Sospirai nervosamente. Quello non era il momento per rispondere a quella domanda. Stavo per uscire con lei e per una cosa del genere, solo alcuni giorni prima, avrei fatto i salti mortali dalla gioia. Il suo arrivo nella mia stanza interruppe ogni pensiero. Aveva messo un pellicciotto nero sopra il suo vestito leggero ed era pronta per uscire. Si avvicinò a me e mi osservò profondamente. Sembrava studiarmi. Forse, stava cercando di comprendere se prima aveva esagerato. Mi prese per il mento alzandolo
“Ti fa male?” mi chiese mentre con l’indice dell’altra mano delineava i contorni del mio labbro ferito.
“Un po’, padrona.”
Si avvicinò ancora un po’ di più, piegò la sua testa e poi mi baciò dolcemente sul punto ferito. “ Adesso?”
“Di meno” risposi e credevo davvero che quel bacio lievissimo fosse stato curativo. Non potevo rinunciare a sensazioni simili. Lei lo sapeva e alternava duri momenti dominanti ad altri più teneri e dolci. Mi voleva come schiavo, era evidente. Forse gli servivo per il suo ego, o forse per umiliare ancor di più suo marito, ma quello che era certo era che io non riuscivo a connettere quando mi trovavo di fronte a lei.
“Sei carino. E stasera può darsi che ti scopi nuovamente. Dipenderà dal grado di sottomissione che avrai nel corso di questa serata.
Forse l’avrei avuta nuovamente. Bastò questo per mandarmi in estasi. “Farò quello che lei vuole, padrona” conclusi. Si, avrei fatto qualsiasi cosa. L’amavo ma soprattutto la desideravo troppo per poterla perdere per il mio stupido orgoglio. Dovevo solo pensare che si trattasse di un gioco, di un gioco erotico, al termine del quale io e lei avremmo fatto l’amore. Non avrei dovuto pensare che si trattasse di vita vera. Non era facile ma era l’unico modo per restare in quella casa accanto a lei.

Alberto era ancora inginocchiato nello stesso modo in cui l’avevo lasciato, con le mani dietro la testa. Il suo pene si era affievolito, ma sembrava essere l’unica differenza rispetto a mezz’ora prima.
Diana passò davanti a lui mentre mi teneva per un braccio, quasi in segno di possesso. “Io vado a cena con Paolo, schiavo. Ti piace che ti chiami schiavo, vero?”
“E’ quello che sono, padrona.”
“Oh, lo sei, eccome se lo sei. Non hai cenato, vero?”
“No, padrona” rispose Alberto.
“Hai fame?”
Alberto alzò lo sguardo verso Diana che troneggiava su di lui. Immaginai che da quella posizione potesse avere una visione particolareggiata delle parti intime della moglie, ma lui abbassò lo sguardo verso terra. “Si, padrona, ho fame” rispose infine.
“Vorresti mangiare?”
“Se lei me lo permette, padrona. Per me non ha importanza quello che voglio io ma quello che lei vuole per me. Se lei vuole che io mangi, lo farò volentieri, se lei vuole che io digiuni, farò anche quello volentieri.”
Diana sorrise compiaciuta. E come avrebbe potuto essere altrimenti? In pochissimi giorni, uno degli uomini più ricchi e influenti della città era letteralmente ai suoi piedi, le aveva regalato un’immensa fortuna e aspettava, come se fosse un dono divino, un suo gesto addirittura per poter mangiare.
“Beh, ho deciso che non mangi, schiavo. Non morirai di fame per una sera a digiuno. Io invece vado a cena con Paolo e forse dopo me lo scoperò. Ti piace l’idea?”
Altre lacrime sul volto di Alberto. “Si, padrona, se piace a lei” rispose l’uomo facendo sorridere Diana.
“Per te invece ho in serbo un giochetto ma lo saprai a tempo debito.” concluse infine facendo dietro front e trascinandomi via quasi fossi un oggetto.
Ci dirigemmo verso il garage e la vidi montare sulla Porche Cayenna di Alberto. O forse dovrei dire che apparteneva ad Alberto.
Fu proprio lei a dirmelo sorridendo appena entrai anch’io. “Ti piace la mia nuova macchina?”
“E come potrebbe non piacermi una macchina del genere? Si e’ fatta intestare anche questa, padrona?”
“Veramente no, ma non credo che ce ne sia bisogno. Glie l’ho semplicemente requisita. Da adesso in poi il suo mezzo di locomozione sarà la bicicletta.”
“La bicicletta?” ripetei come un automa.
“Esatto, la bicicletta. Che poi, fa anche tanto chic andare al lavoro con una bicicletta. Ci vanno i sindaci, non ci puo’ andare lui?”
Annuii guardandola e chiedendomi come potesse guidare con quei tacchi così alti. Glie lo feci presente. “ Vuole che guidi io, padrona? E’ difficile con i suoi tacchi.”
Lei girò la testa verso di me scoppiando in una sonore risata. “Guido le macchine con tacchi del genere quando ancora tu andavi col triciclo. La differenza è che prima avevo scarpe col tacco a spillo comprati dai cinesi, e adesso possiedo queste che valgono il tuo stipendio. Piuttosto, ascoltami bene. Fai quello che io ti dico e forse la sera si concluderà nel modo che aspetti. Non prendere iniziative di nessun genere. Apri bocca soltanto se io ti do il permesso, mangi quello che voglio io e... Boh, non lo so. Devo ancora informarmi e capire bene, ma ci siamo capiti, non è vero Paolino?”
“Si, Dia... Si, padrona. Mi scusi, è difficile per me parlarle in questo modo dopo tutti questi anni di amicizia.”
“Ci farai l’abitudine perché non ho nessuna intenzione di tornare indietro. Che cazzo di scema che sono stata! Avevo l’opportunità di essere quella che sono adesso e non sapevo che bastava riempire di botte un uomo e farlo tremare come una foglia, per poterci fare quello che volevo, senza nemmeno rischiare una denuncia per percosse. E, soprattutto, per essere schifosamente ricca.”
La guardai come se la vedessi per la prima volta. Non era più la Diana che avevo conosciuto, eppure non smettevo di amarla e desiderarla sopra ogni altra cosa
“Io però non sono come Alberto, padrona.”
“Me l’hai già detto e ho ben compreso la differenza tra voi due. Tu hai altre motivazioni per accettare di essere il mio schiavo. Per me invece è la stessa cosa. Mi piace sapere di poter fare ogni cosa con voi due, e non ti ringrazierò mai abbastanza per avermelo fatto comprendere, ma questo non cambia di una virgola il comportamento che ho deciso di avere con te. Se obbedisci a tutto, e intendo tutto, avrai la tua ricompensa, altrimenti avrai la tua punizione. Lo posso fare e lo farò. E tu accetterai come accetta quel coglione di mio marito. L’unico modo di evitare la mia dominazione è andarvene. Lui non lo farà mai perché adesso che finalmente ha una padrona che lo tratta come ha sempre voluto, senza di me è finito e tu... Cosa vuoi fare tu? Mi appartieni, Paolo, e anche tu, come Alberto, non puoi rinunciare a me. Per motivi diversi ma cambia poco. Non è così, Paolino?”
Rimasi qualche istante in silenzio. Diana frenò di colpo e un brivido di paura attraversò il mio corpo. Forse si era arrabbiata perché non le avevo risposto e mi stava per picchiare di nuovo. Invece, sorrise e si avvicinò a me, mi afferrò, come sua abitudine per il mento, e mi baciò voluttuosamente. Avevo la testa che mi girava, come se quelle labbra fossero intrise di qualcosa che mi faceva perdere la ragione, e risposi con desiderio a quel bacio. Avrei voluto non staccarmi più da lei, incollarmi alla sua bocca per sempre ma, ovviamente, anche quel meraviglioso bacio terminò.
“Allora, Paolo? Non è vero che mi appartieni totalmente?”
Chinai la testa. Aveva ragione. Io le appartenevo e per un semplice bacio avrei fatto qualunque cosa, figuriamoci poi per farci l’amore. “Si, padrona. Ha ragione,” risposi infine osservando poi uno splendido sorriso formarsi sulla sua bocca vermiglia. “Ha perfettamente ragione. Io le appartengo.”

Andare a cena, o comunque uscire con Diana, aveva sempre innescato una serie di reazioni standardizzate. Gli uomini la guardavano sgranando gli occhi ma cercando di non farsi notare in quanto, bene o male, si trattava di una donna accompagnata da un uomo. Le donne invece, parlottavano tra di loro dicendo che solo una puttana poteva andare in giro conciata in quel modo ma, probabilmente, avrebbero pagato oro per essere come lei. Su di me invece, o comunque sul suo accompagnatore del momento, non c’erano dubbi. Invidiato dagli uomini, compatito dalle donne, e tacciato come cornuto da entrambe le categorie. Senza immaginare che ero io invece a fare cornuto il marito. Fu così anche quella sera, anche se poi la serata comunque scivolò più tranquilla di quanto avessi potuto immaginare, malgrado i sorrisini ironici dei camerieri ogni qualvolta la chiamavo dandole del lei, quando lei mi ordinava in modo perentorio di versarle il vino, nel momento in cui lei ordinò la mia cena e, soprattutto, quando venne il momento del conto che, come d’abitudine, fu consegnato a me, al maschio. Lei lo prese sorridendo
“Dia a me, ci penso io.” disse infatti al cameriere per poi dirigersi verso la cassa per pagare con la carta di credito. Un’altra dimostrazione di potere assoluto nei miei confronti. Ma non m’interessavano più di tanto quelle umiliazioni che mi stava propinando. Erano tutti estranei, tutta gente che non avrei rivisto e potevano pensare ciò che volevano. Forse potevano scambiarci per una donna d’affari e il suo portaborse in viaggio di lavoro, anche se la nostra cadenza, malgrado non parlassimo in dialetto, faceva intendere che eravamo del luogo. Avevamo comunque parlato poco, a dir la verità. Io non mi azzardavo ad aprire bocca, memore di quello che mi aveva ordinato in macchina, limitandomi a rispondere a monosillabi quando lei mi faceva delle domande. Non sapevo come comportarmi e quell’obbligo di rivolgermi a lei in quel modo ossequioso che aveva preteso, mi costringeva ad autentici salti mortali, visto che per ben quindici anni eravamo stati amici intimi con una confidenza addirittura eccessiva. Ad ogni modo, dopo che lei ebbe pagato il conto, fu il momento di tornare in macchina. Guardavo quelle gambe chilometriche pensando se davvero al ritorno a casa avrebbe desiderato fare di nuovo l’amore con me. Ormai, non nascondevo più il mio sguardo su di lei come avevo fatto per anni. In fondo, a Diana piaceva essere guardata e ammirata e, infatti, il suo sorriso di compiacimento me lo confermò ampiamente. Praticamente in silenzio, ci dirigemmo verso la villa. Ed era strano quel silenzio. Diana di solito era loquace e, ogni qualvolta ci incontravamo, raccontava in continuazione ogni avvenimento della sua vita. Invece, quella volta la vedevo pensierosa e pensai che stesse riflettendo su come proseguire la serata. Cosa avrebbe fatto del marito? A casa aveva detto che aveva in serbo un giochetto e non osavo immaginare a cosa si riferisse. Quello che era certo era che poteva fare tutto quello che lei voleva senza remore, considerando che non ci sarebbe stato più bisogno di recitare una parte. Diana aveva ottenuto in brevissimo tempo ciò che anelava, e tutto quello che era successo dal momento in cui Alberto le aveva riversato tutti i suoi averi, e tutto ciò che sarebbe avvenuto da lì in poi, sarebbe stato semplicemente frutto del suo desiderio, della volontà di Diana di ergersi a padrona assoluta. Forse, doveva ancora scoprire quale fosse il suo grado di sadismo nei nostri confronti. Ovviamente, mi auguravo che quel sadismo fosse di basso livello, e che le bastasse incuterci un po’ di timore dall’alto della sua supremazia fisica per soddisfare il suo desiderio di sottometterci, ma quello che era accaduto fino ad allora non mi lasciava tranquillo. Diana aveva goduto nel picchiare il marito, aveva goduto nell’umiliarlo, aveva goduto nell’umiliare me e di schiaffeggiarmi violentemente. Cos’altro ci aspettava? Non avrei dovuto attendere molto per saperlo.

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2025-06-22
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