Cucciola

di
genere
incesti

Mi chiamo Mara e quello che segue è ciò che mi è capitato poco tempo fa.
Non era la prima volta che restavamo soli in casa, io e lui.
Succedeva ogni tanto, quando mamma partiva per lavoro, o per quei suoi week-end termali con le amiche. Ma questa volta era diverso. Ero tornata da poco da Bologna, dopo il primo anno di università, e la casa sembrava più piccola. O forse ero io ad essere cresciuta.
Lui non era il mio vero padre. Ma l’ho chiamato così per anni. Poi ho smesso.
Quando avevo quindici anni lo chiamavo “Luca”. Poi ho ripreso a dire “papà”, ma solo per far contenta mia madre. E ora, a diciannove, non sapevo più come rivolgermi a lui.
Il primo giorno, quando sono tornata, mi ha abbracciata. Non troppo stretto. Ma abbastanza da sentire il suo odore. Un misto di dopobarba e sigarette leggere.
— Bentornata, cucciola — mi ha detto.
Quel “cucciola” mi ha punto in un punto strano. In basso, dietro il respiro.
Mi sono sistemata nella mia vecchia stanza, ma non riuscivo a dormire. La sera, quando passavo davanti al suo studio, lui era lì, con la porta socchiusa, a guardare qualcosa sul tablet. A volte ho avuto l’impressione che chiudesse in fretta una finestra quando sentiva i miei passi.
Ma non gliel’ho mai chiesto.
Tre giorni dopo, mamma è partita. Quattro notti da sola con lui.
La seconda notte ho fatto la doccia tardi. Sono uscita in accappatoio, gocciolante, e ho trovato Luca in cucina, che si versava del whisky. Si è voltato.
Mi ha guardata. A lungo.
Non come un padre guarda una figlia.
Come un uomo guarda una femmina.
— Sei tutta bagnata — ha detto, con un mezzo sorriso.
— È una doccia, non un peccato — ho risposto.
Ma il peccato l’avevo addosso.
Ho notato che non distoglieva lo sguardo dalle mie gambe. L’accappatoio si era aperto un po’, e le cosce nude brillavano ancora d’acqua.
Siamo rimasti in silenzio. Sentivo il cuore battermi nel collo.
Poi lui ha detto una frase che mi ha cambiato la pelle.
— Ti devi coprire meglio, cucciola. Qui ci sono regole nuove, adesso.
L’ho guardato. Non sapevo se ridere, fingere di non aver capito, o provocarlo.
Scelsi la terza.
Mi sistemai lentamente l’accappatoio, ma senza chiuderlo del tutto.
— E quali sarebbero, queste regole? —
Lui si è avvicinato. Non mi ha toccata. Non ancora.
— Se vuoi restare in questa casa — ha detto —, devi imparare a obbedire.
Lo disse con una voce bassa, calda, roca.
Io non risposi. Non feci un passo indietro. Nemmeno uno avanti.
Restai lì, tremando. Non di paura.
Di qualcosa di più sporco.
Quella notte, nel letto, non riuscii a dormire.
Mi toccai per ore.
Pensando al suo sguardo. Alla sua voce. A quel “cucciola”.
E soprattutto a quell’“obbedire”.
Non era più un gioco.
E io non ero più una bambina.
Il giorno dopo feci finta di niente.
Preparai il caffè, sistemai i cuscini sul divano, accesi la musica.
Ero solo una figlia educata, in vacanza dal mondo.
Ma dentro, qualcosa stava bollendo. Era come avere una mano stretta tra le cosce che non smetteva mai di stringere.
E quella mano non era mia.
Luca, invece, sembrava tranquillo.
Mi parlava come sempre, ma con pause più lunghe, silenzi che non c’erano prima.
Era come se mi ascoltasse con gli occhi.
A pranzo cucinai io. Pasta con le zucchine.
Indossavo un vestitino estivo senza reggiseno.
Sotto, solo le mutandine più leggere che avevo. E lo sapevo. Sapevo che si vedeva qualcosa, quando mi piegavo a prendere i piatti dal mobile basso.
Sapevo che lui guardava. E io volevo che guardasse.
Ci sedemmo a tavola. Lui versò il vino.
Io sollevai la gamba destra e la accavallai sull’altra.
Ma lui mi fermò. Con calma.
— No. Tieni le gambe divaricate — disse, con la voce più ferma del solito.
Restai immobile.
Un brivido mi salì lungo la schiena, come una scossa.
Lo guardai. Cercai un sorriso, una battuta, qualcosa che mi dicesse: “sto scherzando”.
Ma lui non stava scherzando.
Aveva lo sguardo di chi ha deciso.
— Così non va bene — disse, con tono lento, grave. — Le nuove regole, ricordi? Quando mangi con me, tieni le cosce aperte. Se no, non mi servi.
Deglutii. Sentii le mutandine diventare più umide.
Ero tutta un tremito. Ma non dissi niente.
Abbassai lo sguardo. Poi feci scivolare piano le gambe, e le aprii.
Il vestito salì un po'.
Non del tutto, ma abbastanza da far intuire.
Lo vidi osservare. Ma senza fretta, senza commentare.
Prese la forchetta, cominciò a mangiare.
— Così — disse. — Brava cucciola.
Il cuore mi batteva nelle orecchie.
Il mio piatto restò quasi intatto.
Io mangiavo solo sguardi.
Dopo pranzo, andai in camera.
Chiusi la porta.
Mi tolsi le mutandine.
E mi infilai due dita.
Mi venne da piangere, da ridere, da urlare.
Lo feci pensando a lui.
Alle sue mani grandi.
Alla sua voce calma.
Alle sue regole.
Quella sera bussò alla mia porta.
— Scendi in salotto alle dieci. Con quel vestito. E senza mutande.
Io non risposi.
Ma non disobbedii.
Alle dieci ero giù, in salotto.
Il vestito era quello. Quello azzurro chiaro, con i bottoncini davanti. Corto, morbido, leggero.
Senza mutande sotto.
E lo sapevo che lui sapeva.
Ogni passo era una dichiarazione. Ogni movimento d’anca, un’offerta non detta.
Lui era seduto sulla poltrona, un bicchiere di whisky in mano, la luce bassa.
Quando mi vide entrare non disse niente.
Non fece cenno di alzarsi.
Mi fece solo un gesto con la mano: vieni qui.
Mi sedetti sul divano di fronte. Le ginocchia strette, le mani sulle cosce.
Silenzio.
Poi lui parlò.
— Mostrami.
Sussurro. Comando. Confessione.
Una parola sola.
Ma io la capii.
Non chiesi cosa volesse dire.
Non finsi sorpresa.
Non feci la brava ragazza.
Aprii lentamente le gambe. Non troppo. Appena quanto bastava perché il vestito salisse, scoprisse l’interno delle cosce, lasciasse intravedere la fessura liscia, nuda, lucida.
Lo vidi guardare. A lungo.
In silenzio.
Poi si alzò. Venne verso di me.
Mi prese il mento tra due dita, con forza.
— Hai sempre voluto che ti guardassi così, vero? —
Le parole mi trapassarono.
Era una frase sporca. Ma anche una verità che non avevo mai avuto il coraggio di pensare.
Non risposi.
Lui lo prese come un sì.
Mi fece stendere sul divano.
Con le gambe aperte.
— Tieni ferme le mani. E non chiudere gli occhi.
Infilò due dita nella sua bocca, poi me le passò lungo le labbra. Quelle inferiori. Quelle che tremavano.
Le sue dita scivolarono tra le pieghe, lente, senza entrare.
Solo a sfiorarmi, come un esame.

— Così. Brava. Stai imparando.
Mi morse un capezzolo attraverso il vestito.
Poi si alzò. Tornò a sedersi.
— Ora vai in camera. E dormi nuda.
Mi alzai piano, con le gambe che mi tremavano.
Mentre salivo le scale, sentii il mio odore tra le cosce.
Ero un disastro.
Ero fiera di esserlo.
Quella notte, nel letto, non mi toccai.
Rimasi immobile, le lenzuola umide, il cuore ancora nelle mani di lui.
Dormii nuda, come mi aveva detto.
Sognai le sue dita.
E il giorno dopo, svegliandomi, trovai un biglietto infilato sotto la porta:
«Alle undici. Portami il caffè. Nuda.»
Alle undici in punto bussai alla porta dello studio.
Avevo il vassoio in mano. Il caffè bollente. E nient’altro addosso.
Ero nuda, come da istruzioni.
Non una mutandina. Non una collana. Neanche le ciabatte. Solo pelle, odore, e tremore.
— Entra. —
La sua voce era calma, come se mi aspettasse da sempre.
Spinsi la porta con il fianco, lentamente.
Lui era seduto alla scrivania. Lo stesso tablet, le stesse lenti da lettura.
Mi guardò. Dall’alto in basso. Non sorrise.
Non disse «brava».
Solo un cenno del capo.
— Appoggia lì — disse indicando l’angolo della scrivania.
Mi avvicinai. Sentii i suoi occhi infilarsi tra le scapole, scendere sul culo, indugiare dove sapevo di essere aperta.
Posai il vassoio. Il cucchiaino tintinnò nella tazzina.
— Resta lì. Mani dietro la schiena. Gambe leggermente divaricate.
Obbedii.
Sentivo l’aria condizionata come una carezza crudele sulle cosce umide. I capezzoli duri come spine. Il cuore battente nel basso ventre.
Lui si alzò. Prese il cucchiaino.
Si avvicinò alle mie labbra.
— Apri la bocca. —
Lo feci.
Sentii il metallo freddo passare lentamente sulle gengive, poi sulla lingua.
— Leccalo. —
E io lo leccai.
Piano.
Con la lingua morbida, umida, sottomessa. Come se il cucchiaino fosse un’ostia sporca da ingoiare senza giudizio.
Lui osservava. Ogni mio movimento. Ogni gemito trattenuto.
Poi posò il cucchiaino, tornò alla scrivania.
— Inginocchiati. Di fronte a me. —
Mi voltai.
Mi inginocchiai.
Le ginocchia sul parquet freddo. Le mani dietro. Le spalle dritte. I seni tesi verso di lui.
E lo guardai.
Negli occhi.
Senza paura.
— Sembri più bella così. —
Bevve un sorso di caffè.
— Più vera. —
Poi allungò una mano.
Mi accarezzò la testa.
Mi tirò piano i capelli.
Mi fece aprire la bocca ancora.
— Ma non è il momento. —
Si alzò.
Fece il giro della scrivania.
Mi passò accanto.
Mi lasciò lì, nuda, in ginocchio, col sapore del metallo ancora sulle labbra.
Prima di uscire disse:
— Domani mattina. Alle dieci. Portami il giornale. Nuda. E bagnata. Capito? —
Io annuii.
Sentii il pavimento sotto le ginocchia pulsare come una ferita.
Ma non mi alzai.
Rimasi lì, a leccarmi le labbra.
Come una cagna addestrata.
E fiera.
Mi svegliai presto.
Alle nove ero già sotto la doccia.
L’acqua bollente scendeva, ma non bastava.
Dovevo bagnarmi dentro.
Pensai a lui mentre mi lavavo.
Al cucchiaino, alla sua voce. Alle ginocchia sul parquet.
All’umiliazione che mi aveva lasciato addosso come un profumo.
Mi accarezzai a lungo.
Senza venire.
Non avevo il permesso.
Alle dieci precise bussai alla porta.
Nuda. Gocce sulle spalle. Il giornale piegato tra le mani.
E bagnata.
Non solo d’acqua.
La mia figa era un’inondazione silenziosa, indecente, viva.
— Entra. —
Lui era sul divano. In vestaglia, con lo sguardo già su di me.
Mi avvicinai.
Consegnai il giornale senza una parola.
Lui lo prese, lo aprì.
Poi lo sollevò, come se fosse uno scudo, lasciandomi dietro a leggere da sola.
— Metti le mani dietro la testa. E resta ferma. —
Obbedii.
Sentii un filo caldo colare lungo l’interno coscia.
L’umidità vera. Quella che non si finge.
Lui abbassò il giornale.
— Goccioli. —
Non era una domanda. Era un’osservazione felice.
Fece un gesto.
Mi fece avvicinare.
Mi infilò due dita tra le gambe.
Lentamente.
Le fece girare.
Mi guardò.
— Così sì. Ora cominci a capire chi sei. —
Le sue dita uscirono.
Mi fece inginocchiare. Le alzò davanti alla mia bocca.
— Pulisci. —
Lo feci.
Con la lingua, lentamente, come un sacramento.
Ogni goccia era mia. Ogni stilla un messaggio: sei mia, lo sei sempre stata.
Poi si alzò.
Mi fece vestire.
Un vestito nero, corto. Niente reggiseno. Niente mutandine.
Mi diede le chiavi della macchina.
— Andiamo al bar sotto casa. Hai cinque minuti.
Lo guardai. Non disse altro.
Mi vestii.
Uscii con lui.
Il bar era pieno.
Operai, madri col passeggino, un paio di pensionati.
Entrammo.
Lui si sedette al tavolo in fondo. Mi fece cenno di andare al banco a ordinare.
— Due caffè. —
La barista mi guardò strano.
Il mio vestito era troppo corto.
Lo sapevo.
Lo sentivo, l’aria che mi leccava tra le cosce.
Quando mi voltai con i caffè sul vassoio, lo vidi.
Lui mi guardava.
Sorrideva.
Aveva le gambe accavallate e gli occhi puntati tra le mie.
Quando mi sedetti, non disse nulla.
Appoggiò una mano sul mio ginocchio.
Poi la fece salire. Lentamente.
Fino a dove sapeva di poter arrivare.
— Sei mia anche qui. Ricordatelo. —
Io annuii.
Con le gambe spalancate sotto il tavolo.
Senza un lamento.
Senza vergogna.
Ero bagnata.
Ero viva.
Ero sua.
Tornammo dal bar senza dire una parola.
In ascensore mi infilò due dita nella figa.
Mi teneva aperta con le dita, come si tiene aperto un frutto maturo per vedere se è pronto da mangiare.
Io ansimavo piano.
Sentivo i miei umori colargli sulla mano.
Lo sentivo dietro di me.
Il suo respiro. Il suo silenzio. Il suo cazzo duro che sfiorava il mio culo.
Il vestito ormai mi si era appiccicato addosso.
Ma non durò.
Me lo strappò via appena entrammo in camera.
Lo tirò su da dietro, lo fece scivolare sulle mie braccia e lo gettò a terra.
Io non dissi nulla.
Rimasi in piedi, nuda, gambe aperte, pronta.
— Salta sul letto. A quattro zampe. —
Eseguii.
La faccia contro il materasso. Le chiappe ben alte.
Mi tirò indietro con una mano sui fianchi.
Mi aprì con le dita.
Mi guardò dentro.
— Sei già pronta da ore, porca. —
Il suo tono non era più quello di prima.
Era basso, animalesco.
Aveva deciso. E io ero la sua.
Una puttana senza diritti. Solo bisogno.
Senza avvertire, mi infilò due dita dentro.
Fino al palmo.
Mi dilatò con forza, facendo scivolare la sua saliva sulle labbra della figa.
Io gemetti. Forte.
Ma non chiesi di fermarsi.
Mai.
Poi lo sentii.
Il cazzo.
Caldo. Gonfio. Vivo.
Lo poggiò tra le chiappe.
E poi spinse.
Un colpo secco, diretto, profondo.
Mi trapassò.
Un dolore dolce.
Una fitta che si trasformò subito in voglia.
— Sei nata per fartelo mettere da me, troia. —
Ogni parola era una spinta.
Ogni spinta un colpo dentro l’anima.
Mi prendeva con forza.
Le sue mani sul mio culo, che stringevano, schiaffeggiavano.
Il rumore delle sue anche contro la mia pelle nuda.
La stanza piena dei nostri versi.
— Chiedilo. —
— Cosa? —
— Chiedi di essere fottuta. Da tuo padre. —
— Ti prego… scopami. Scopami forte. Scopami come una puttana. —
Mi tirò i capelli indietro.
Mi fece girare la testa per guardarlo negli occhi.
— Sei la mia troia adesso. Non della mamma. Mia. —
— Sì. Sì, lo sono. Tua. Solo tua. —
Venni così forte che urlai.
Un urlo lungo, gutturale, umido, da bestia in calore.
Lui continuò a spingere, a sbattermi con ferocia.
Finché non si fermò.
Dentro.
Profondo.
Mi riempì.
Sentii lo sperma scaldarmi le viscere.
E mi piacque.
Mi piacque da morire.
Rimanemmo fermi così.
Lui dentro.
Io sotto.
Uniti. Sporchi. Veri.
Poi uscì da me.
Mi diede una sberla leggera sul culo.
— Ora ti lavi. E poi torni qui. Voglio dormire con la mia puttana tra le braccia. —
Io sorrisi.
Non avevo più un nome.
Avevo un padrone.
E volevo restare così.
Senza dignità.
Ma piena.
Finalmente fottuta.
Dormivo nuda, ancora sporca di lui.
Avevo il suo sperma tra le cosce, secco, appiccicato alla pelle.
L’odore mi faceva sentire viva.
E fiera.
Lui era dietro di me, il petto contro la mia schiena, una gamba infilata tra le mie.
Mi teneva stretta. Ma non per amore.
Per possesso.
— Non ti muovere — sussurrò.
Una mano scivolò tra i miei seni.
Trovò i capezzoli.
Li pizzicò piano, poi più forte.
Mi misi a gemere, piano, quasi vergognosa.
— Ti piace?
— Sì.
— Dimmi quanto.
— Tanto. Ti prego…
Mi morse il lobo.
Poi abbassò la voce.
— Quanti cazzi hai avuto prima del mio?
La domanda mi trafisse.
Non me l’aspettavo.
E mi eccitò.
— Uno solo.
— Uno?
— Sì. È stato a febbraio. Uno studente fuori sede. A Bologna.
— E?
— È durato poco. E non ci sapeva fare.
Lui rise piano.
— E tu? Cosa sai fare bene?
— …
— Dimmelo, puttanella.
— I pompini. So farli bene.
— Davvero?
— Sì. Me lo diceva sempre. Mi faceva inginocchiare e mi veniva in bocca quasi subito.
— Fammi vedere.
Mi voltai.
Lui si era già tirato su la vestaglia.
Il cazzo era mezzo duro. Ma bastava guardarlo.
Mi inginocchiai sul letto, tra le sue gambe.
Mi leccai le labbra.
E poi lo presi in mano.
Lo annusai prima.
Aveva ancora il mio odore addosso.
Lo baciai piano, sulla cappella, come se fosse sacro.
Poi iniziai.
Lentamente.
Solo la punta.
Poi lo feci scivolare dentro la bocca, fino in fondo.
Sentii il riflesso del vomito. Ma non mi fermai.
— Così… così si fa… —
La sua voce era roca.
Gli piaceva.
Molto.
Mi infilai i capelli dietro le orecchie.
Lo guardai negli occhi mentre lo succhiavo.
Con la bocca piena.
Sbavavo tutta.
Lo prendevo fino in gola.
Lo accarezzavo con la lingua.
Lo facevo brillare di saliva.
Lo sentivo gonfiarsi.
Sempre di più.
— Vienimi in bocca — sussurrai, con la voce impastata.
— Guardami.
Lo feci.
E lui venne.
Una scarica calda, spessa, potente.
Mi colpì la gola.
Ne sputai un po’, il resto lo ingoiai.
Mi leccai le labbra, sorridendo.
— Vedi? Te l’avevo detto.
— Sì. Sei brava. Ma puoi diventare ancora meglio.
— Insegnami.
— Lo farò. A una condizione.
— Quale?
— Che non mi chiedi mai di smettere.
Lo guardai.
— Non lo farò. Giuro.
Mi accarezzò la testa.
Come si fa con una bestia fedele.
E io, tra le sue gambe, mi sentivo perfetta.
scritto il
2025-06-17
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