Mio figlio Elia mi scopa 2

di
genere
incesti

Dormii tutto il pomeriggio.
O almeno, feci finta.
Mi ero lasciata scopare con una fame che mi faceva paura, e adesso avevo il ventre pieno del suo seme e un milione di domande a cui non volevo rispondere.

Quando mi svegliai, Elia era seduto lì. Sul cofano, la sigaretta tra le dita, lo sguardo perso nei rami.
Non disse nulla. Non mi chiese se stessi bene, non provò a baciarmi.
Mi guardò solo. Con quegli occhi che sanno solo scavare.

«Hai freddo?» chiese alla fine.
Scossi la testa.

Mi alzai. La gonna strappata. Le mutande umide alle ginocchia. Le sistemai lentamente.
Ogni gesto era ancora un invito.
O una condanna.

«Non vuoi sapere cosa significa tutto questo?» chiese, tirando la sigaretta.

«Lo so già.»
Mi avvicinai. Gli presi la sigaretta dalle labbra e la misi tra le mie. Poi lo baciai. Lento. Salato di sudore e fumo.
«Significa che non possiamo più tornare indietro.»

Silenzio.
Il vento ci scompigliava i capelli. Un cane abbaiava in lontananza.


Il ritorno fu lento. La Panda tossiva su per i tornanti. I nostri corpi erano ancora appiccicati l’uno all’altro. Le sue dita si allungavano ogni tanto sul mio ginocchio nudo. Io non lo fermavo.

Parcheggiammo davanti casa. Nessuno in giro. Il quartiere era morto, come sempre.

«Sali con me?»
Lui esitò. Poi annuì.

A casa non parlammo.
Lo spinsi contro il muro del corridoio. Mi inginocchiai.
Il suo cazzo era già duro, gonfio. Me lo misi in bocca fino in fondo.
Volevo sentirlo contorcersi. Volevo tenerlo in pugno. E lo feci.

Gli misi le mani sui fianchi e lo succhiai come si succhia il midollo da un osso.
Sputavo, lo stringevo, lo ingoiavo.
Lo sentivo tremare.

«Basta… vengo…»
Mi tirai indietro, lo guardai.
«Vieni in faccia.»

E lo fece.
Uno schizzo caldo, denso, che mi colpì la guancia, la bocca, il collo.
Lo leccai. Tutto.

«Non sei normale» sussurrò.
«Nemmeno tu.»

Lo portai in camera.
Lo spogliai.
Lo stesi sul letto.

Mi ci sedetti sopra, lentamente.
Fino a ingoiarlo tutto.

Quella notte lo cavalcai fino a non sentire più le gambe.
Piangevo senza capire perché.
Lui mi teneva i fianchi, leccava il mio sudore, mi chiamava col mio nome.
Per la prima volta.

E quando venne ancora — dentro — io non dissi nulla.
Lo accarezzai.
Come si accarezza un cane randagio che ti è entrato in casa e non vuoi più far uscire.
scritto il
2025-09-04
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