La direttrice della posta

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La direttrice della posta
Stamattina sono andato in posta con mia madre. Doveva firmare delle scartoffie e, come al solito, si è portata dietro me: il figlio paziente che la scorta tra gli sportelli della burocrazia.
L’aria era pesante di toner, numeri digitali che scorrevano e pensionati incazzati.

Poi ho alzato gli occhi.
Dietro il vetro blindato, con la divisa grigia e lo sguardo da carceriera stanca, c’era Irma.
L’ho riconosciuta subito.
Lei mi ha fissato per un secondo di troppo, poi ha indossato la maschera.
Ha fatto finta.
Anch’io.

Mia madre l’ha salutata con rispetto, lei ha risposto con un sorriso formale. È scivolata fuori dal box e ci è venuta incontro con l’atteggiamento di chi comanda.
«Benvenuti, posso aiutarvi?» ha detto con tono gentile.
Io sono rimasto zitto. Lei pure.
Ma sapevamo.

Due sere prima l’avevo vista in ginocchio.
Completamente nuda, la bocca piena, il culo spalancato.
Eravamo nel club, quello fuori Pavia.
Lei era con suo marito – un povero idiota con l’anello al dito e il pisello da scolaretti – e con il loro bull, un ventenne nero che la tratta come carne da monta.
Io ero con Melania. Turista americana, bionda e curiosa. Dorme a casa mia, ma non dorme mai sola.

Quella notte si stava organizzando un’orgia al piano di sopra.
Io sono rimasto giù a bere un gin, ho mandato Melania avanti.
Dieci minuti dopo sono salito.

L’odore era quello di una stalla: sudore, sesso, sborra, figa calda.
Irma era al centro del letto, aperta come una porta sfondata.
Un tipo enorme le stava spaccando la figa con un cazzo che sembrava una clava. In bocca ne aveva un altro, lungo e spesso.
Il marito, in un angolo, si strusciava il pisellino guardando la moglie trasformata in troia pubblica.
Vicino a lui, una vecchia spelacchiata si faceva venire toccandosi con due dita tremanti.

Melania era già a quattro zampe, presa da due lati, incastrata e felice.
Io mi sono tolto tutto e sono entrato.

Una bionda in là con gli anni si è avvicinata e, senza dire una parola, ha iniziato a leccarmi il cazzo. Aveva la lingua sporca di altri uomini, e non le importava.
Gliel’ho ficcato dentro di forza.
«Zitta, succhia», le ho detto.
E lei ha ubbidito.

Irma si era fatta riempire la faccia di sborra e ne voleva ancora.
Un uomo le teneva aperte le grandi labbra con due mani grosse, mentre un altro cercava di farle entrare due cazzi nella figa allo stesso tempo.
Rideva.
«Spingete, brutti bastardi! Voglio sentirli dentro fino al fegato.»

Quando mi sono avvicinato le ho offerto il mio.
Lei me l’ha preso in bocca, ansimando, poi si è chinata sotto il mio scroto e ha cominciato a leccarmi i coglioni, passando anche più giù, fino a infilarsi con la lingua tra le chiappe.
Mi sono seduto sul suo viso.
Le ho spinto il cazzo in gola fino a farle lacrimare gli occhi.
Mi ha succhiato come se stesse bevendo vita.
Quando sono venuto, ha inghiottito tutto.

Ma non era finita.

Il bull, quello nero – Mimmo lo chiamano tutti – si è avvicinato.
Le ha fatto alzare il culo.
Era lubrificata, aperta, pronta.
Lui l’ha infilata con un colpo secco, affondando come un coltello nel burro.
Lei ha gridato come una scrofa al macello, ma si spingeva indietro, chiedendo di più.
«Sfonda, Mimmo! Fammi male!»

Il marito guardava.
Il bull le tirava i capelli.
Ogni spinta le faceva tremare le tette enormi.
Quando lui ha sborrato, le ha lasciato tutto dentro, senza staccarsi subito.
Lei si è accasciata, tremante, col sorriso da posseduta.

I maschi intorno si sono avvicinati.
Le hanno spruzzato addosso l’ultimo rispetto.
Io ero tra loro.
Irma, la direttrice della posta, era a terra. Nuda. Sporca. Felice.
Un monumento vivente all’oscenità.

Ora è lì, dietro il vetro dell’ufficio.
«Serve altro?» chiede a mia madre, con il solito sorriso.
Io la guardo negli occhi.
E lei sa.
scritto il
2025-06-01
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