Jasmine
di
AngelicaBellaWriter
genere
fisting
Non mi chiede mai niente.
Non mi chiede come sto, non vuole sapere cosa faccio nel resto del tempo. Arriva, si spoglia, si piega.
È Jasmine. Marocchina, trentatré o trentaquattro anni, chi se ne frega.
Capelli neri, pelle calda, seni che sembrano fatti per essere presi a morsi. È sposata, ha due figli che vanno alla scuola americana. Suo marito lavora in una compagnia petrolifera e, parole sue, gli serve la pillolina blu per ricordarsi come si usa il cazzo.
Io non ho nemmeno il suo numero salvato.
Lei mi manda un messaggio — “vengo domani alle 10” — e io so già che dovrò cambiare le lenzuola dopo. Sempre.
Quando arriva, ha quello sguardo da gatta affamata che ha girato per ore nella giungla e ha deciso che il mio letto è la tana perfetta.
Non mi bacia. Si inginocchia, si toglie le mutandine, si mette a quattro. Una mano sul culo, l’altra si infila da sola nella figa. Un’abitudine, ormai.
Dice che la colpa è del cazzo del marito, troppo grosso.
Io dico che c’è dell’altro. Non lo dice, ma lo so. Ci infila dentro tutto quello che trova quando è sola. Cucchiai, bottiglie, forse mezza testa di qualche bambolotto dei figli.
Una volta ho provato a infilarle l’avambraccio. È entrato liscio, come se la figa non fosse mai stata altro che un buco per ricevere qualsiasi cosa. E intanto, con l’altra mano, le strizzavo quel clitoride gonfio come un cazzo in erezione. Ha urlato, ha spruzzato ovunque. Mi ha bagnato la faccia, il petto, il pavimento.
Non è amore, non è affetto. È bisogno.
Lei ha bisogno di essere sfondata.
Io ho bisogno di scopare senza domande, senza scenate, senza legami.
Me l’ha detto chiaramente.
«Se non ti avessi trovato, avrei fatto una cazzata. Avrei messo a rischio tutto.»
E con “tutto” intende la sua vita da moglie ricca, i bambini alla scuola chic, le vacanze negli Emirati.
Una volta le ho chiesto:
«Ti andrebbe di provare qualcosa di più grosso?»
Mi ha guardato con gli occhi accesi. «Quanto più grosso?»
Le ho parlato di un tipo. Amico della mia colf.
Un ragazzo di colore che, da quel che dice lei, ha un cazzo che sembra un mattarello. Talmente grosso che riesce a infilarne solo un pezzo prima di scappare dal dolore.
Jasmine ha leccato le labbra. Mi ha detto:
«Mi piacerebbe provarlo. Ma solo se tu guardi.»
Non le ho ancora detto sì.
Per adesso continuo a fotterla come vuole.
Senza complimenti, senza carezze.
Solo mani che la stringono, bocca che morde, cazzo che entra e non chiede permesso.
Le piace venire di culo.
Quando sta per venire, mi stringe lo sfintere come se stesse succhiando. Gode forte, con i denti serrati e gli occhi iniettati di sangue.
E quando spruzza, non è una cosa elegante.
È un’alluvione.
Mi ha rovinato tre materassi.
Alla fine si alza, si riveste, si sistema i capelli e sparisce.
Non mi guarda neanche.
Non dice grazie.
Non promette di tornare.
Ma dopo tre giorni, arriva un messaggio: “Domani alle 10”.
E io so già che dovrò lavare le lenzuola un’altra volta.
Non mi chiede come sto, non vuole sapere cosa faccio nel resto del tempo. Arriva, si spoglia, si piega.
È Jasmine. Marocchina, trentatré o trentaquattro anni, chi se ne frega.
Capelli neri, pelle calda, seni che sembrano fatti per essere presi a morsi. È sposata, ha due figli che vanno alla scuola americana. Suo marito lavora in una compagnia petrolifera e, parole sue, gli serve la pillolina blu per ricordarsi come si usa il cazzo.
Io non ho nemmeno il suo numero salvato.
Lei mi manda un messaggio — “vengo domani alle 10” — e io so già che dovrò cambiare le lenzuola dopo. Sempre.
Quando arriva, ha quello sguardo da gatta affamata che ha girato per ore nella giungla e ha deciso che il mio letto è la tana perfetta.
Non mi bacia. Si inginocchia, si toglie le mutandine, si mette a quattro. Una mano sul culo, l’altra si infila da sola nella figa. Un’abitudine, ormai.
Dice che la colpa è del cazzo del marito, troppo grosso.
Io dico che c’è dell’altro. Non lo dice, ma lo so. Ci infila dentro tutto quello che trova quando è sola. Cucchiai, bottiglie, forse mezza testa di qualche bambolotto dei figli.
Una volta ho provato a infilarle l’avambraccio. È entrato liscio, come se la figa non fosse mai stata altro che un buco per ricevere qualsiasi cosa. E intanto, con l’altra mano, le strizzavo quel clitoride gonfio come un cazzo in erezione. Ha urlato, ha spruzzato ovunque. Mi ha bagnato la faccia, il petto, il pavimento.
Non è amore, non è affetto. È bisogno.
Lei ha bisogno di essere sfondata.
Io ho bisogno di scopare senza domande, senza scenate, senza legami.
Me l’ha detto chiaramente.
«Se non ti avessi trovato, avrei fatto una cazzata. Avrei messo a rischio tutto.»
E con “tutto” intende la sua vita da moglie ricca, i bambini alla scuola chic, le vacanze negli Emirati.
Una volta le ho chiesto:
«Ti andrebbe di provare qualcosa di più grosso?»
Mi ha guardato con gli occhi accesi. «Quanto più grosso?»
Le ho parlato di un tipo. Amico della mia colf.
Un ragazzo di colore che, da quel che dice lei, ha un cazzo che sembra un mattarello. Talmente grosso che riesce a infilarne solo un pezzo prima di scappare dal dolore.
Jasmine ha leccato le labbra. Mi ha detto:
«Mi piacerebbe provarlo. Ma solo se tu guardi.»
Non le ho ancora detto sì.
Per adesso continuo a fotterla come vuole.
Senza complimenti, senza carezze.
Solo mani che la stringono, bocca che morde, cazzo che entra e non chiede permesso.
Le piace venire di culo.
Quando sta per venire, mi stringe lo sfintere come se stesse succhiando. Gode forte, con i denti serrati e gli occhi iniettati di sangue.
E quando spruzza, non è una cosa elegante.
È un’alluvione.
Mi ha rovinato tre materassi.
Alla fine si alza, si riveste, si sistema i capelli e sparisce.
Non mi guarda neanche.
Non dice grazie.
Non promette di tornare.
Ma dopo tre giorni, arriva un messaggio: “Domani alle 10”.
E io so già che dovrò lavare le lenzuola un’altra volta.
2
2
voti
voti
valutazione
5.5
5.5
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
La festa delle madri 2racconto sucessivo
La direttrice della posta
Commenti dei lettori al racconto erotico