Mia madre mi desidera
di
AngelicaBellaWriter
genere
incesti
Non ha mai chiuso davvero la porta. Neanche da vestita.
Si muove per casa come se non avesse bisogno di pudore. Gira coi piedi scalzi, i capelli sciolti, la camicia da notte aperta sul petto, niente reggiseno. A volte passa accanto a me e sento il suo odore di bagnoschiuma e biancheria lavata da poco. Il cazzo si tende anche se sto solo leggendo.
Non lo sa. O forse sì.
Anzi, secondo me se ne approfitta.
Una sera stava piegata sul divano a cercare il telecomando. La camicia le era salita sopra il culo. Niente mutande. Ho visto le labbra aperte, bagnate. Un secondo, forse meno. Ma mi è bastato. Sono corso in bagno. Mi sono segato veloce, come un ladro, la mano stretta, la testa che scoppiava.
Da quella sera ho cominciato ad aspettarla. La seguivo con lo sguardo. Le spiavo la schiena quando si abbassava, i capezzoli sotto la maglietta. Quando si sedeva a tavola con le gambe accavallate e la gonna troppo corta.
Una volta ha lasciato le mutandine sul termosifone del bagno. Le ho prese. Erano ancora umide. Le ho annusate come un drogato. Me le sono portate in camera e ci ho sborrato sopra. Non una, due volte.
Poi ha cominciato a parlare in un certo modo.
«Stai crescendo bene.»
«Sei sempre così silenzioso… mi fai venire voglia di provocarti.»
E rideva. Ma mi guardava dritto negli occhi quando lo diceva.
Quella notte – lo ricordo come se fosse ora – la porta era aperta. Non socchiusa: aperta davvero. Ho visto la luce della lampada accesa. Lei era stesa a letto, solo la camicia addosso. Un bottone slacciato. Una coscia nuda. Un piede che dondolava. La mano tra le gambe.
Mi sono fermato a guardare. Il cuore fuori controllo, il cazzo già duro sotto il pigiama.
«Se hai bisogno di qualcosa… entra pure.»
L’ho fatto.
Lei non si è coperta. Ha aperto le gambe.
«Ti piace quello che vedi?»
Non riuscivo a parlare. Mi tremavano le mani.
«Spogliati. Non ti vergognare.»
Ho lasciato cadere la maglietta. Poi i pantaloni. Il cazzo duro come una pietra. Lei l’ha guardato.
«Pensavo peggio. Fammi vedere come ti tocchi.»
Ho iniziato a segarmi davanti a lei. Lei si accarezzava la fica, senza fretta. Le dita scivolavano dentro e fuori, lucide, lente.
«Ti piace guardarmi? Dai, fallo bene. Voglio vederti sborrarmi davanti.»
Ero fuori di testa. L’ho fatto. Non ci ho pensato. Ho spinto, forte. Sono venuto con uno schizzo violento sul suo tappeto, sulle mie gambe, ovunque. Lei non ha smesso di toccarsi. Ha chiuso gli occhi, la bocca aperta. Poi ha gemuto piano, bagnandosi tutta.
Quando si è alzata, è andata a prendere un asciugamano. Mi ha pulito. Piano, con le dita calde. Senza dire niente.
Poi, proprio prima di uscire, ha spento la luce.
E ha detto:
«Domani sera torno tardi. Ma… la porta resterà aperta.»
Si muove per casa come se non avesse bisogno di pudore. Gira coi piedi scalzi, i capelli sciolti, la camicia da notte aperta sul petto, niente reggiseno. A volte passa accanto a me e sento il suo odore di bagnoschiuma e biancheria lavata da poco. Il cazzo si tende anche se sto solo leggendo.
Non lo sa. O forse sì.
Anzi, secondo me se ne approfitta.
Una sera stava piegata sul divano a cercare il telecomando. La camicia le era salita sopra il culo. Niente mutande. Ho visto le labbra aperte, bagnate. Un secondo, forse meno. Ma mi è bastato. Sono corso in bagno. Mi sono segato veloce, come un ladro, la mano stretta, la testa che scoppiava.
Da quella sera ho cominciato ad aspettarla. La seguivo con lo sguardo. Le spiavo la schiena quando si abbassava, i capezzoli sotto la maglietta. Quando si sedeva a tavola con le gambe accavallate e la gonna troppo corta.
Una volta ha lasciato le mutandine sul termosifone del bagno. Le ho prese. Erano ancora umide. Le ho annusate come un drogato. Me le sono portate in camera e ci ho sborrato sopra. Non una, due volte.
Poi ha cominciato a parlare in un certo modo.
«Stai crescendo bene.»
«Sei sempre così silenzioso… mi fai venire voglia di provocarti.»
E rideva. Ma mi guardava dritto negli occhi quando lo diceva.
Quella notte – lo ricordo come se fosse ora – la porta era aperta. Non socchiusa: aperta davvero. Ho visto la luce della lampada accesa. Lei era stesa a letto, solo la camicia addosso. Un bottone slacciato. Una coscia nuda. Un piede che dondolava. La mano tra le gambe.
Mi sono fermato a guardare. Il cuore fuori controllo, il cazzo già duro sotto il pigiama.
«Se hai bisogno di qualcosa… entra pure.»
L’ho fatto.
Lei non si è coperta. Ha aperto le gambe.
«Ti piace quello che vedi?»
Non riuscivo a parlare. Mi tremavano le mani.
«Spogliati. Non ti vergognare.»
Ho lasciato cadere la maglietta. Poi i pantaloni. Il cazzo duro come una pietra. Lei l’ha guardato.
«Pensavo peggio. Fammi vedere come ti tocchi.»
Ho iniziato a segarmi davanti a lei. Lei si accarezzava la fica, senza fretta. Le dita scivolavano dentro e fuori, lucide, lente.
«Ti piace guardarmi? Dai, fallo bene. Voglio vederti sborrarmi davanti.»
Ero fuori di testa. L’ho fatto. Non ci ho pensato. Ho spinto, forte. Sono venuto con uno schizzo violento sul suo tappeto, sulle mie gambe, ovunque. Lei non ha smesso di toccarsi. Ha chiuso gli occhi, la bocca aperta. Poi ha gemuto piano, bagnandosi tutta.
Quando si è alzata, è andata a prendere un asciugamano. Mi ha pulito. Piano, con le dita calde. Senza dire niente.
Poi, proprio prima di uscire, ha spento la luce.
E ha detto:
«Domani sera torno tardi. Ma… la porta resterà aperta.»
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