Mio figlio Elia mi scopa
di
AngelicaBellaWriter
genere
incesti
Non era più un ragazzino da un pezzo.
E io non ero mai stata brava a far finta di non vedere.
Gli occhi di Elia mi entravano dentro come dita. Lunghi, sottili, curiosi. Mi guardava passare per casa in ciabatte e vestaglia come si guarda un porno senza audio: senza dire nulla, ma con il cazzo duro.
La cosa più sconcia? Mi piaceva.
Provavo a farmi credere infastidita, ma bastava un suo sguardo basso per farmi bagnare.
Mi mettevo i jeans solo quando lo sentivo troppo addosso. Poi li toglievo appena restavo sola.
Era uno di quei silenzi che ti incrostano la pelle. Non ci dicevamo granché. Ma ogni gesto era già una domanda sporca.
Una sera — il marito via, come sempre — lo sentii dalla stanza accanto. La porta era socchiusa. Non lo vedevo, ma lo sentivo.
Il letto che scricchiolava.
Il respiro trattenuto.
Il colpo secco del palmo che sbatteva.
E quel gemito — basso, incazzato — che mi fece stringere le cosce.
Mi stavo toccando sopra le mutande prima ancora di accorgermene.
C’erano giorni in cui cercavo di resistere. Poi c’erano quelli in cui lasciavo scivolare la gonna senza slip, e restavo piegata un attimo in più a raccogliere la busta della spesa. Giusto il tempo di sentirlo fermarsi dietro di me.
Avrei potuto chiudere la porta a chiave.
Invece la lasciavo socchiusa.
Il giorno in cui capii che l’avevo perso del tutto fu quello in cui mi vide dipingere nuda.
Era sabato. Il sole batteva obliquo sul parquet. Mi ero sistemata davanti allo specchio con la tela in mezzo alle gambe. Cercavo di riprodurre la piega del ventre, la curva dei fianchi. L’ombra tra le cosce. La figa.
Lui aprì la porta. Non disse nulla.
I nostri sguardi si incrociarono. Il mio pennello tremava tra le dita.
Non lo cacciai.
Non lo coprii.
Mi lasciai guardare.
Lui fece un mezzo sorriso. Poi chiuse la porta con calma.
E io continuai a dipingere col cuore in gola e le cosce bagnate.
Il giorno dopo pioveva.
Il giorno dopo lo volevo.
Avevo bisogno di fuggire, o di farmi scopare — una delle due cose. Presi il cavalletto, i colori, e salii in collina. Un punto che conosco bene: uno spiazzo tra i pini, con la vista che taglia il fiato e il silenzio che ti scava l’anima.
Ero lì che stavo montando la tela, quando sentii il rumore della ghiaia.
Mi voltai. Elia.
Nessun messaggio, nessuna parola. Solo lui, con lo zaino e quella faccia da cazzo che sembra innocente finché non ti mette le mani addosso.
«Pensavo ti servisse una mano.»
«Ti sbagliavi.»
«Bene.» Si sedette comunque, ai miei piedi.
Indossavo una gonna larga. Non perché volessi, ma perché sapevo. E lui sapeva che sapevo. Da dove si era messo, la visuale era perfetta: le mie cosce, le gambe nude, il nulla sotto.
Mi chinai a raccogliere i pennelli. Lo feci lenta, aprendo bene le gambe.
Mi sentii scoperta. E bagnata.
«Ti piace guardare, eh?» dissi senza voltarmi.
«Preferisco toccare.»
Silenzio.
Poi il suono della sua zip. Mi voltai di scatto.
Il suo cazzo era fuori. Grosso, teso, con la punta lucida. Lo stava toccando davanti a me, senza vergogna. Occhi fissi nei miei.
«Se non vuoi, dimmelo adesso» disse.
Ma non dissi un cazzo.
Mi alzai. Gli presi il viso con una mano e glielo spinsi tra le gambe.
«Lecca.»
Obbedì.
Con una foga che non era più desiderio: era fame.
La sua lingua mi passava sulla figa come un cane su una ciotola. Mi apriva, mi succhiava, mi tirava il clitoride tra le labbra. Lo sentivo mugolare, strozzarsi, ansimare. Gli tenevo la testa ferma e mi muovevo io, contro la sua bocca.
Stavo venendo. Troppo in fretta.
Lo tirai su per i capelli. Il suo mento era fradicio.
Gli strappai la maglietta. Gliela misi in bocca.
Poi mi chinai e gli sussurrai:
«Fammi male.»
Non chiese spiegazioni. Mi piegò sul cofano arrugginito della panda. La faccia contro il metallo. Mi strappò la gonna. Tirò giù le mutande e me le lasciò a metà cosce, come manette.
Poi entrò.
Duro. Senza grazia. Come un coltello.
Gridai. Lui gemette.
Ogni colpo era uno schiaffo, una bestemmia, un crampo di piacere.
«Hai la figa più stretta che abbia mai preso» mi ringhiava nell’orecchio.
«Allarga. Spaccami. Riempimi.» Gli morsi l’avambraccio mentre venivo.
Il suo cazzo mi martellava l’utero, profondo, caldo, sporco. Le palle sbattevano contro la mia pelle come tamburi da guerra.
Poi si fermò.
«Posso venire dentro?»
« Svuotati.»
E lo fece.
Tutto. Dentro. Senza pietà. Senza controllo.
Sentii il caldo colarmi nelle viscere.
Rimase lì, piegato su di me, ansimante.
«Mi fai impazzire» sussurrò.
«E tu mi fai sentire viva.»
E io non ero mai stata brava a far finta di non vedere.
Gli occhi di Elia mi entravano dentro come dita. Lunghi, sottili, curiosi. Mi guardava passare per casa in ciabatte e vestaglia come si guarda un porno senza audio: senza dire nulla, ma con il cazzo duro.
La cosa più sconcia? Mi piaceva.
Provavo a farmi credere infastidita, ma bastava un suo sguardo basso per farmi bagnare.
Mi mettevo i jeans solo quando lo sentivo troppo addosso. Poi li toglievo appena restavo sola.
Era uno di quei silenzi che ti incrostano la pelle. Non ci dicevamo granché. Ma ogni gesto era già una domanda sporca.
Una sera — il marito via, come sempre — lo sentii dalla stanza accanto. La porta era socchiusa. Non lo vedevo, ma lo sentivo.
Il letto che scricchiolava.
Il respiro trattenuto.
Il colpo secco del palmo che sbatteva.
E quel gemito — basso, incazzato — che mi fece stringere le cosce.
Mi stavo toccando sopra le mutande prima ancora di accorgermene.
C’erano giorni in cui cercavo di resistere. Poi c’erano quelli in cui lasciavo scivolare la gonna senza slip, e restavo piegata un attimo in più a raccogliere la busta della spesa. Giusto il tempo di sentirlo fermarsi dietro di me.
Avrei potuto chiudere la porta a chiave.
Invece la lasciavo socchiusa.
Il giorno in cui capii che l’avevo perso del tutto fu quello in cui mi vide dipingere nuda.
Era sabato. Il sole batteva obliquo sul parquet. Mi ero sistemata davanti allo specchio con la tela in mezzo alle gambe. Cercavo di riprodurre la piega del ventre, la curva dei fianchi. L’ombra tra le cosce. La figa.
Lui aprì la porta. Non disse nulla.
I nostri sguardi si incrociarono. Il mio pennello tremava tra le dita.
Non lo cacciai.
Non lo coprii.
Mi lasciai guardare.
Lui fece un mezzo sorriso. Poi chiuse la porta con calma.
E io continuai a dipingere col cuore in gola e le cosce bagnate.
Il giorno dopo pioveva.
Il giorno dopo lo volevo.
Avevo bisogno di fuggire, o di farmi scopare — una delle due cose. Presi il cavalletto, i colori, e salii in collina. Un punto che conosco bene: uno spiazzo tra i pini, con la vista che taglia il fiato e il silenzio che ti scava l’anima.
Ero lì che stavo montando la tela, quando sentii il rumore della ghiaia.
Mi voltai. Elia.
Nessun messaggio, nessuna parola. Solo lui, con lo zaino e quella faccia da cazzo che sembra innocente finché non ti mette le mani addosso.
«Pensavo ti servisse una mano.»
«Ti sbagliavi.»
«Bene.» Si sedette comunque, ai miei piedi.
Indossavo una gonna larga. Non perché volessi, ma perché sapevo. E lui sapeva che sapevo. Da dove si era messo, la visuale era perfetta: le mie cosce, le gambe nude, il nulla sotto.
Mi chinai a raccogliere i pennelli. Lo feci lenta, aprendo bene le gambe.
Mi sentii scoperta. E bagnata.
«Ti piace guardare, eh?» dissi senza voltarmi.
«Preferisco toccare.»
Silenzio.
Poi il suono della sua zip. Mi voltai di scatto.
Il suo cazzo era fuori. Grosso, teso, con la punta lucida. Lo stava toccando davanti a me, senza vergogna. Occhi fissi nei miei.
«Se non vuoi, dimmelo adesso» disse.
Ma non dissi un cazzo.
Mi alzai. Gli presi il viso con una mano e glielo spinsi tra le gambe.
«Lecca.»
Obbedì.
Con una foga che non era più desiderio: era fame.
La sua lingua mi passava sulla figa come un cane su una ciotola. Mi apriva, mi succhiava, mi tirava il clitoride tra le labbra. Lo sentivo mugolare, strozzarsi, ansimare. Gli tenevo la testa ferma e mi muovevo io, contro la sua bocca.
Stavo venendo. Troppo in fretta.
Lo tirai su per i capelli. Il suo mento era fradicio.
Gli strappai la maglietta. Gliela misi in bocca.
Poi mi chinai e gli sussurrai:
«Fammi male.»
Non chiese spiegazioni. Mi piegò sul cofano arrugginito della panda. La faccia contro il metallo. Mi strappò la gonna. Tirò giù le mutande e me le lasciò a metà cosce, come manette.
Poi entrò.
Duro. Senza grazia. Come un coltello.
Gridai. Lui gemette.
Ogni colpo era uno schiaffo, una bestemmia, un crampo di piacere.
«Hai la figa più stretta che abbia mai preso» mi ringhiava nell’orecchio.
«Allarga. Spaccami. Riempimi.» Gli morsi l’avambraccio mentre venivo.
Il suo cazzo mi martellava l’utero, profondo, caldo, sporco. Le palle sbattevano contro la mia pelle come tamburi da guerra.
Poi si fermò.
«Posso venire dentro?»
« Svuotati.»
E lo fece.
Tutto. Dentro. Senza pietà. Senza controllo.
Sentii il caldo colarmi nelle viscere.
Rimase lì, piegato su di me, ansimante.
«Mi fai impazzire» sussurrò.
«E tu mi fai sentire viva.»
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