Mi chiamano Miss Piggy

di
genere
incesti

Mi chiamano Miss Piggy.
Sottovoce, con quella malizia da maschi in calore che si credono furbi. Pensano di ridermi dietro, ma sono io che li guardo dall’alto, mentre s’ingozzano del mio cibo e s’immaginano tra le mie cosce.

Sono grossa, sì. Ma la mia carne è viva. Calda. Le mie tette pesano come due promesse, e il mio culo fa girare la testa anche ai professori. Quello che non sanno è che mi piace che mi chiamino così. Mi piace provocare, farli sbavare mentre fingo indifferenza.

Lui l’avevo notato subito.
Faccia pulita, ma gli occhi… quelli non mentivano. Non mi guardavano in faccia. Mai. Scendevano sempre lì: sulla scollatura, sulle cosce, sulle mani unte che giravano il mestolo. Era sempre l’ultimo ad alzarsi dal tavolo. Se ne andava con la faccia tesa e il cazzo, scommetto, ancora più teso.

Una sera l’ho visto sotto casa mia. Non per caso.
Stava lì fermo, lo sguardo verso la finestra.
E io… io ho capito.

Ho acceso la luce.
Mi sono spogliata piano.
Prima il reggiseno. I seni liberi, pesanti, lucidi.
Poi le mutande. Piegate con cura sulla sedia.
Sono rimasta nuda, in piedi davanti alla finestra.
Mi sono infilata due dita tra le cosce. Lentamente.
Ho cominciato a toccarmi, e lui non si è mosso.
Neanche un passo.

Il giorno dopo, ha bussato alla mia porta.
Non ha detto nulla.
Io sì.

«Entra.»

Era già duro. L’ho visto subito, sotto i jeans.
L’ho fatto spogliare nel corridoio.
Ogni indumento, uno per uno.
Poi l’ho condotto in cucina, come un agnello da sacrificare.

L’ho fatto inginocchiare tra le mie gambe.
E lui ha capito tutto.

La sua lingua era calda, impacciata all’inizio, ma assetata.
Mi leccava piano, poi sempre più forte, mentre io lo tenevo per i capelli e gli spalmavo il sapore addosso. Mi è venuto da gemere. Forte. Senza vergogna.

Poi l’ho spinto via.
Mi sono inginocchiata io.
E ho fatto quello che so fare meglio: gli ho succhiato il cazzo come se fosse l’unica cosa che volevo nella vita.
Sentivo le sue mani tremare, il respiro spezzarsi.
E quando è venuto, ho aperto la bocca e l’ho presa tutta.

Ma non era finita.

Lei era lì. La mia piccola.
La mia bambola carnosa.
Vent’anni, cosce piene e labbra da peccato.
È entrata in cucina in silenzio.
Nuda.
Gli occhi brillanti.

Mi ha baciato.
Sulla bocca.
Lunga, lenta.

Poi è scesa in ginocchio.
Accanto a me.

E ci siamo divise quel cazzo.
Una alla volta, poi insieme.
Baciandoci con lui in mezzo.
Mentre si faceva sempre più duro, e noi sempre più bagnate.

E la mattina…

La luce tagliava la stanza in due.
Lui dormiva.
O faceva finta.

La mia piccola era già sveglia.
Si è infilata nel letto, ha posato la testa sul bordo.
Ha preso il suo cazzo tra le labbra come se fosse la sua colazione.

Io ero dietro.
Gli ho accarezzato le natiche, le ho aperte.
E ho iniziato a leccarlo.
Piano. Profondo.
Dal basso fino alle palle, che succhiavo a turno mentre lui gemeva e la mia piccola lo inghiottiva.

Poi ha bussato qualcuno alla porta.
Ma quello…
Quello è un altro pezzo di storia.
scritto il
2025-05-24
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